venerdì 25 maggio 2012
Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 maggio 2012
Testi di riferimento: J. Carrón, «Introduzione», in «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», suppl.
Tracce-Litterae communionis, n. 5, maggio 2012, pp. 4-11; J. Carrón, «Abbiamo tanta strada da
fare», la Repubblica,1 maggio 2012 .
http://www.tracce.it/default.asp?id=266&id2=321&id_n=28278
• La ballata dell’uomo vecchio
• Foggy Dew
Gloria
Dopo una chiacchierata con un amico, sono stato costretto a riprendere il testo della serata del
venerdì degli Esercizi della Fraternità che avevo letto quasi di fretta, come una cosa da fare per
arrivare poi al bello, il sabato. E mi ha colpito tantissimo la lettera di quel signore che descriveva
la difficoltà di un’amica che stava male e che si era sentito esattamente come il papà di Eluana, ne
aveva sentito scandalo; però si era accorto che questo umano, che avrebbe voluto non guardare,
era la porta da cui entrare nella realtà. Questo l’ho collegato al finale della lettera che hai scritto a
la Repubblica: «Abbiamo ancora un lungo cammino davanti e siamo felici di poterlo percorrere».
Ora, di primo acchito a me viene da dire che, quando mi trovo di fronte a una situazione dura come
quella descritta nella lettera, rimane sullo sfondo il fatto di essere contento perché prevale la fatica
(o, magari, non mi accorgo nemmeno che c’è una strada da fare!). Mi pare invece di intuire che
quel signore attraversa tutta la fatica che fa, ed essa diventa il punto sorgivo per iniziare a fare la
strada ed essere contento di farla. Per cui viene descritta una traiettoria che è la cosa più
invidiabile. Allora ti chiedo di aiutarci a capire come fa a diventare sinceramente desiderabile fare
la strada, perché capisco che per te è una cosa desiderabile.
Questa domanda è una modalità attraverso cui vediamo come incide su di noi il nichilismo. Basta
che la situazione diventi complicata e uno rimane smarrito, non sa che strada ha da fare, come se
l’io fosse fatto fuori. Rilancio: perché è desiderabile la strada?
Per me la vita è faticosa quando non faccio questa strada.
«La vita è faticosa quando non faccio questa strada». È alla rovescia! Il problema non è che
facciamo fatica a fare la strada, ma che la vita diventa veramente insopportabile quando uno non la
fa. Se non passa questa idea, anzi, meglio, questo sentore e questa urgenza, chi ce lo farà fare?
Troveremo sempre qualche alibi per non farla. Se non nasce dalle urgenze del vivere, perché senza
farla la vita è veramente insopportabile, chi ce lo fa fare? Allora, che esperienza hai fatto?
Io mi rendo conto che cerco la soddisfazione dove la cercano tutti quando ho un’inerzia nei
confronti di questa strada, cioè quando vivo dell’apparenza. E per me fare questa strada è
necessario per poter vivere, vivere! Che cos’è questa strada? Per me è – come la descrivi tu –
molto semplicemente l’autocoscienza, e io me ne rendo conto in tantissimi aspetti della mia vita.
Quando ho un’inerzia, sono molle nei confronti di quello che mi succede, nei confronti di me stessa,
io cedo alla mentalità di tutti e non vivo più.
Dobbiamo capire che cosa è questa inerzia.
Quando quella mattina ho letto il tuo articolo, più lo leggevo e più rimanevo senza parole per
l’entusiasmo, nel senso che vedevo lì all’opera, in atto, la posizione che io desidero, ho sempre
desiderato, di una libertà che non deve fare i calcoli sulla convenienza di dire o non dire certe cose,
ma che stava dicendo sé senza aver paura né del proprio giudizio né del giudizio degli altri.
Insomma: una libertà. E capivo che questo era possibile solo a uno che era tutto appoggiato su ciò
che aveva di più caro, Gesù. È quello che io desidero, è quello che con entusiasmo ho cominciato
nei giorni successivi a verificare, per vedere quante volte ero appoggiato su ciò che avevo di più
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caro e, quindi, cosa succedeva. Quando questo accadeva io mi ritrovavo libero, senza sensi di
colpa e senza dover fare i conti in maniera politica. E così ho capito un’altra cosa. Spesso noi
diciamo: «Guarda, non sono io, io non sarei fatto così perché non ho questo carattere, invece mi
ritrovo a essere più paziente, più misericordioso». No, se dico così sbaglio, quasi che Gesù in certi
momenti mi desse dei superpoteri o che Lui agisse attraverso di me senza di me. Invece comincio a
dire: quando io posso appoggiarmi su di Lui, e quindi sono libero, comincia a venir fuori davvero
chi sono io. Perché io in realtà forse non so chi sono, ma lo scopro, come se Lui liberasse chi sono
davanti ai miei occhi.
Volevo raccontare come sto lavorando contemporaneamente sulla lettera e sugli Esercizi, avendo
visto un legame assolutamente stretto e profondo. Tu ci avevi detto agli Esercizi che è beato chi ha
un’apertura totale, cioè chi non riduce il suo cuore a sentimento e la realtà ad apparenza. È
proprio vero, altrimenti si rischia che gli Esercizi siano entusiasmanti al 22 aprile e già sbiaditi
all’1 maggio... Per me invece gli Esercizi e la lettera sono diventati un’unica cosa come lavoro. Ho
visto nella lettera un’unità profonda per cui non ho fatto fatica a leggerla intera, fuggendo la
tentazione di leggerla a brani, a pezzi. La lettera è un chiaro esempio per me del metodo che tu ci
stai insegnando da tempo. Questa lettera è fatta da uno – questa è la prima reazione che ho avuto –
che ha preso sul serio gli Esercizi e che sta lavorando sugli Esercizi come avvenimento che sta
capitando a lui. Già a Rimini mi ero accorto che c’era stato un cammino da parte tua dal venerdì
sera alla domenica mattina, tanto da farmi dire che se tu non avessi fatto (non semplicemente
dettato) gli Esercizi, non avresti potuto scrivere una lettera così. Adesso dico due punti di lavoro
sulla lettera. Il primo. La realtà è positiva, e per capirlo, come sempre ci hai ricordato, non
bisogna censurare neanche gli errori (e io aggiungo: neanche i pruriti che possono sorgere in me o
nelle comunità). Questa lettera è un giudizio che nasce da qualcosa di presente che accade e che ti
raggiunge in tutti i pori della pelle, tenendo conto di tutti i fattori, anche di quelli che addolorano;
quindi diventa un giudizio storico, e per dare un giudizio storico le circostanze sono essenziali. Un
giudizio non mediato e non adattato al destinatario, ma teso al cuore di chi non fugge, perché
fuggendo perdi l’occasione, perdi gli amici e quindi perdi Cristo. Quante volte io mi sono trovato a
mediare un intervento un po’ adattandolo al destinatario perché ritenevo che quello che pensavo io
avrebbe fatto “passare” meglio Gesù; invece ho notato dentro questa lettera una libertà che
davvero mi affascina e che io vorrei imparare. Il secondo punto di lavoro è quello
dell’autocoscienza: dove e in chi consisto? Che cosa ho di più caro? Anche oggi a me lo chiede
l’imperatore, l’imperatore di cui innanzitutto è fatta la mia vita, la mia mentalità. Quante volte io
decido nella mia vita privata o nella mia vita di prete quasi svendendo Cristo, che quindi non è più
ciò che ho di più caro. Questo ha un riverbero sulla presenza che, come ci hai ricordato tu e ho
riscontrato nella mia vita, non è potere bensì testimonianza. Quante volte ho confuso che la
presenza coincidesse con la riuscita, cioè con la realizzazione del mio progetto. Forse Cristo non
mi basta, allora. Devo vedere il risultato, e così mi convinco che sono stato una presenza. Il famoso
«è, se opera» rischia di diventare: «Siccome ho visto che ha operato secondo il mio progetto,
allora è». Così programmo anziché convertirmi. È una logica pericolosa, che intacca l’opera, ogni
opera: pastorale, educativa, sociale, politica, assistenziale. Quindi ho solo una responsabilità,
quella di rimanere in questo alveo, in questa strada che ho da fare, ma mi sembra così vera per me,
per diventare serio, che sarei stupido se non la facessi. Stasera ho celebrato Messa, e il Vangelo
era un brano del discorso di Gesù: «Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca
dal Maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La
tua parola è verità» (Gv 17,15-17). Io penso che Gesù quella sera abbia pregato per me, per te, per
noi e per questo frangente storico della nostra presenza. Come il popolo di Israele possiamo anche
noi essere spogliati di tutto. Ma Cristo rimane e so che la Sua misericordia, di cui ho tanto bisogno,
è eterna, e davvero devo convincermi con l’esperienza che questo mi basta.
Non voglio aggiungere altro alle tante cose belle che hai detto. Sottolineo la questione del metodo –
su cui ritornerò dopo – per rispondere alla questione della strada. La strada è desiderabile e
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possiamo essere felici di farla proprio perché vediamo che, percorrendola, succede questo che hai
appena detto.
Mi sono accorto, a proposito della lettera, di aver fatto due sbagli leggendola. Il primo: pensare
che l’errore di cui si parla sia un errore moralistico («Non sono coerente, faccio i peccati mentre
mi muovo nelle circostanze»). E il secondo: pensare che riguardasse la sfera politica della
presenza, mentre a me sembra che sia qualcosa che riguarda me e tutti, e sia un problema di
concezione. Tutte le volte che non mi stupisco della realtà presente vivo un’egemonia: io ho un’idea
sulla realtà, voglio che si realizzi e quindi forzo le cose. Naturalmente, mi deludo quando la realtà
non è come la vorrei. Ma perché faccio così? Perché non sono stupito; perché, essendo vuoto, devo
pur riempire il mio animo di qualcosa, e allora inizio a pretendere, impercettibilmente. Quindi il
problema mi sembra essere di metodo: il non-stupore della Presenza. Parlo di stupore perché non
basta dire: «Il Mistero vuole così». Io devo stupirmi, devo avere il contraccolpo dell’essere, perché
altrimenti, poi, non basta una riflessione morale sulla fede. A questo punto si verifica la riduzione
dello stupore. Perché è come se io (e molti intorno a me) mi rassegnassi: lo stupore è un’esperienza
che si può fare solo ogni tanto (se accade una cosa buona, se ho un certo vigore). Mi stupisco solo
certe volte, e quindi di solito non mi stupisco. E siccome non mi stupisco, cerco il potere. Mentre lo
stupore è di ogni istante: ogni circostanza, anche la peggiore, mi può permettere un rapporto con
la Presenza, se no non è vero che accade ora. Supponiamo che io sia giù di corda: se riprendo me
stesso, se faccio il cammino non come meccanismo, io mi stupisco perché riprendere coscienza di
me stesso, ritornare alle domande vuol dire che io nell’istante vedo la Presenza, e quindi non ci
sono circostanze in cui non possa stupirmi. Questa mi sembra una questione cruciale. Capisco,
allora, perché facciamo così fatica sull’affermazione che la realtà è positiva: perché non si può
pensare che la realtà sia positiva, se non c’è la Presenza. Ci si può forzare a dire che la realtà è
positiva; ma solo se vedo qualcosa che mi corrisponde, la realtà è positiva; altrimenti, anche se lo
dico, non è vero.
Il problema – è verissimo – non è moralistico. Non dobbiamo stracciarci le vesti perché ci
accorgiamo di avere cercato la soddisfazione dove la cercano gli altri. Questo è soltanto la
conseguenza. Che mistero c’è, che noi, davanti al desiderio che abbiamo, non cerchiamo la
soddisfazione? Non è possibile non cercarla. La questione, allora, non è che abbiamo sbagliato. La
questione è: qual è l’origine di questo sbaglio? E l’origine non è che io sono incoerente (perché lo
sono); che mistero è che la fragilità sia fragile o che la debolezza sia debole? È la scoperta
dell’acqua calda. Per questo non sarebbe valsa la pena aver scritto la lettera. Occorre mettere in
evidenza un’altra questione: perché noi cerchiamo la soddisfazione dove la cercano tutti? Allora
non è un problema di incoerenza, è un problema di fede, è un problema di cosa significa per noi
Cristo, di che cosa abbiamo di più caro! E questo non riguarda anzitutto una coerenza, ma la
sostanza del vivere. Perché questo stupore non ci conquista? Perché lo riteniamo qualcosa che
accade solo una volta ogni tanto? Perché noi, invece di un cammino vogliamo un miracolo. La
settimana scorsa facevo lezione in Cattolica sul capitolo decimo de Il senso religioso. Tutti sapete
come incomincia. Giussani ci invita a immaginare di nascere con la coscienza che abbiamo adesso,
eccetera. Appena finita la prima ora c’è una pausa; mi raggiunge alla cattedra uno studente che mi
dice: «Durante questa lezione ho percepito tutta la distrazione con cui mi sono svegliato. Capisco
benissimo cosa dice don Giussani, perché quel che dice non devo immaginarlo, a me è proprio
successo: ho avuto un incidente di moto e mi sono salvato per miracolo. Allora quando mi sono
svegliato la prima volta dopo l’incidente, il fatto di esserci mi riempiva di stupore, non potevo
evitare che la mia vita fosse invasa da questa sorpresa, e così tante volte durante i primi giorni. Ma
poi tutto si è affievolito, tutto si è indebolito. E stamattina mi sono alzato, come tanti altri giorni,
distratto». Vedete? Noi stiamo sognando il miracolo; a questo ragazzo è capitato il miracolo, ma
non è bastato, perché occorre un cammino. Se il miracolo non introduce a un cammino, se non
introduce a un uso adeguato la ragione, se non cavalco quella facilitazione attraverso cui mi rendo
conto che la vita mi è data e non faccio tutto il percorso della mia ragione lavorandoci su, dopo un
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po’ scade. E questa è – come dice Giussani – la nostra immoralità, ma l’immoralità rispetto al fatto,
rispetto all’evento, non l’incoerenza di non essere all’altezza (questa è una conseguenza).
L’immoralità è non aver seguito quell’evento che ci ha fatto scattare questa coscienza. Se il fatto
non diventa moralità, se non diventa responsabilità, allora non rispondo con tutto il mio io e
l’intenzione non penetra come una ferita e un giudizio su di me, come un giudizio che muove, che
cerca di muovere a un lavoro; diventa tutto sentimentale, mi ridesto e vedo che vivo ancora, però
non è ancora una coscienza di me, un uso vero della ragione. E che cosa succede? Sentite che cosa
dice Giussani alle pagine 315-316 di Certi di alcune grandi cose: «È come trovare nel proprio
terreno un filo di pianta, un fiore, e non incrementarlo, non curarlo. Un individuo, un giardiniere o
un agricoltore che metta giù il seme di questa pianta e poi non la curi è un incosciente, un
irresponsabile, cioè un immorale. Il problema nostro è proprio questa parola: l’immoralità
[immoralità con il fatto, non incoerenza etica]. Di fronte a ciò che ci è stato dato [la vita, la fede, il
carisma, l’incontro, tantissime occasioni in cui noi siamo stati ridestati da un fatto, da un evento, da
qualcosa che ci siamo raccontati; quelli di Corazin e Betsàida, di cui Gesù diceva che avevano una
responsabilità enorme perché avevano visto tantissimi miracoli, sono dilettanti rispetto a quanti
miracoli sperimentiamo tra di noi, dilettanti!] e che, nonostante tutta la nostra connivenza (nel fare
entrare il mondo in noi e quindi nell’emarginare lentamente, nel censurare o nel lasciare nell’aridità
e senza alimento questo filo di desiderio), rimane e c’è ancora, il nostro problema è l’immoralità,
vale a dire la non cura di esso. Quel filo di desiderio non diventa nostro, mio: mio come giudizio e
mio come volontà. Quel filo di desiderio, cioè, non viene riconosciuto e posseduto da me, non
diventa consapevole: è come se rimanesse per forza di inerzia. Questa inerzia è l’immoralità».
Finché la forza dell’inerzia fa ritornare al vecchio tran tran. La nostra immoralità è la mancanza di
sequela di Giussani in questo. Il cammino che ci propone spesso ci sembra una cosa astratta:
«Allargare la ragione? Ma chi se ne importa!». Domenica mattina ho fatto il ritiro dei novizi dei
Memores Domini riprendendo una lezione in cui Giussani afferma che la questione principale è il
lavoro sullo strumento del pensiero. Per noi questa è la cosa più lontana! Tanto che pensiamo: è
Giussani che ha questo pallino, il Papa ha lo stesso pallino. È come se fossero marziani tutti e due!
Dopodiché, non stupendoci di niente, cerchiamo la soddisfazione dove tutti la cercano. Ma, ripeto,
questa è una conseguenza, a me non interessa in questo momento. Continua don Giussani: «Se il
problema fosse la coerenza, avremmo mille alibi per non impegnarci più. Invece, l’immoralità è
qualcosa che sta alla radice, mentre il problema della coerenza è il problema di uno sviluppo. Sotto
il problema della coerenza o dell’incoerenza sta un problema di verità o di menzogna, di verità di
sé. Questo è contenuto in quello che io chiamo “filo di desiderio”, cioè in quell’inizio che ci rimane
dentro: il riconoscimento o la scoperta di qualcosa d’altro come risposta a quello che siamo, la
scoperta di qualcosa che è tutto! Quel filo di desiderio è una unità di fondo, cioè una posizione
umana, che, se io sono incoerente mille volte al giorno, mille volte mi giudica. Ma, se io non ho
questa unità di fondo riconosciuta e posseduta, io non mi giudico più nelle mille incoerenze, e
giungo a dire: “Sono inevitabili!”, e poi: “Beh, in fondo in fondo, che cosa c’è di strano?”, e infine:
“È giusto fare così”». Tale e quale, la nostra radiografia! Se noi non colpiamo l’origine, se
l’avvenimento cristiano, e prima di tutto la realtà, non ridesta in noi quel filo di desiderio che ci
rende desiderosi di respirare e non soffocare (perché non possiamo vivere senza riconoscere la
realtà in tutta la sua originalità), allora rimaniamo razionalisti e quindi nichilisti, e siccome non
possiamo evitare di desiderare, cerchiamo la soddisfazione in cose senza consistenza, perché
abbiamo già perso il rapporto con l’origine della realtà, con il mistero della realtà. E allora noi
viviamo la realtà come tutti. Quando, invece, per grazia seguiamo don Giussani, lo si vede non
perché facciamo il discorso più giusto, ma nel modo con cui noi viviamo le circostanze. È lì dove
ciascuno fa il test. Come avevo detto alla diaconia della Lombardia, davanti ai primi commenti
entusiasti due giorni dopo aver finito gli Esercizi: «Calma, il vero test degli Esercizi è come stiamo
davanti alla realtà, per esempio a quello che dicono i giornali». Adesso, dopo la lettera che ho
scritto, potete vedere qual è la differenza: alcuni che erano entusiasti si sono arrabbiati per la lettera.
È lì dove mostriamo che cosa abbiamo di più caro, se con l’Avvenimento possiamo guardare tutto,
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perfino i nostri sbagli, senza giustificarli. Occorre che quel che ridesta il nostro umano non diventi
soltanto un sentimentalismo (come quando uno si ridesta dopo un incidente e nel tempo, per inerzia,
decade), ma diventi nostro come uso della ragione, come autocoscienza di noi. Sarebbe un peccato
che non ci rendessimo conto di questo.
Io racconto un fatto che è successo in università. Da noi ci sono le elezioni dei rappresentanti degli
studenti. Nella mia facoltà hanno appena cambiato il calendario accademico e gli appelli, e
siccome è un tema molto scottante l’altra lista sta facendo tutta la campagna elettorale su questo
tema, su come riportare le cose come erano prima eccetera. Hanno fatto un’assemblea pubblica in
cui hanno invitato tutti per sentire le opinioni degli studenti. Mi raccontano di questa assemblea e
che a un certo punto uno interviene e dice: «Ma non è che dietro tutta questa storia del cambio
degli appelli c’è lo zampino di quelli di CL?». Appena sento questo salto su, perché mi addolora
che la nostra presenza venga maltrattata e fraintesa così. Due di noi, che erano presenti, non
avevano reagito, per cui mi sono arrabbiata che non avessero detto niente. Discutendo, a un certo
punto una dice: «Non mi sembrava utile fare polemica in quel momento». Quando ha detto così, mi
sono accorta che anche io faccio esattamente lo stesso: salto la realtà prima di chiedermi che cosa
ho davanti, e passo subito ad altro (come è utile muoversi, come fare sì che gli altri possano capire
che non è vero), e quindi non ne arrivo a una.
La nostra, la maggioranza delle volte, è una reazione viscerale.
Da lì è stato bellissimo il lavoro che è venuto fuori, perché ci siamo chiesti: di che cosa si tratta? Il
problema non era quello di ribattere qualcosa, ma che proprio la natura della nostra presenza
veniva messa a repentaglio per quel commento, come se noi fossimo quelli che tramano. Allora
abbiamo scritto un volantino semplicissimo, in cui abbiamo spiegato che i professori avevano preso
questa decisione senza consultare gli studenti, in che data l’avevano resa pubblica, quali
rappresentanti degli studenti erano presenti, eccetera; abbiamo concluso dicendo che l’obiettivo
che noi abbiamo a cuore nel lavoro di rappresentanza è quello di poter avere una formazione
migliore, innanzitutto lavorando alla didattica e alle attività professionalizzanti, più che alla
disposizione degli appelli d’esame. Alla fine abbiamo scritto: «Se in questo lavoro siamo stati
mancanti, accettiamo ogni critica costruttiva, ma non siamo disposti a tollerare insinuazioni
infondate». Mi ha colpito che per me il giudizio era tutto dentro il contraccolpo che ho sentito in
me quando mi hanno detto che cosa era successo, non è stato qualcosa di macchinoso che ho
dovuto aggiungere dopo, perché io reagivo così proprio perché stavano sputando sopra quello che
io ho di più caro e perché questo emergesse è stato necessario che io andassi dietro a quel
contraccolpo.
Questo è il punto: occorre andare dietro a quel contraccolpo, cioè incominciare a usare la ragione a
partire da quel contraccolpo. Come?
Vivendo quella passività che è la prima attività di cui parla Giussani nel capitolo decimo. Perché io
avrei potuto pensare semplicemente: pazienza, pensano così, affari loro. E nessuno mi sarebbe
venuto a disturbare, visto che nessuno aveva detto niente. Invece, proprio andando dietro, è emerso
un punto interessante per noi e interessante per tanti altri, che poi erano anche contenti del
volantino che abbiamo scritto. Capisco anche che tutta la mia inconsistenza, di cui tu parli al
venerdì sera, dipende da questo continuo salto della realtà, che è proprio il più grande pretesto che
io do, da questa mancanza di giudizio (perché io tratto male la realtà, e questo potrà sempre
capitare perché sbaglierò sempre, ma non giudicando o non me ne accorgo, e quindi è come se non
l’avessi trattata male, oppure posso svicolare, dire che era colpa degli altri, dire che era colpa di
quei due, e quindi giustificarmi di fronte al mio errore). In una cena con te veniva fuori che tante
volte i gesti che facciamo non sono proporzionati e volti all’unico scopo che Giussani identifica del
movimento, cioè la generazione di un soggetto. Quel che capita, anche gli errori umilianti, può
essere la riscossa per fare una strada, perché c’è un luogo che ha a cuore me, che io possa
consistere, che io possa essere: è il più grande segno di una misericordia su di me ed è il più
grande motivo di gratitudine.
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Noi rimaniamo inconsistenti e non si genera un soggetto diverso se, davanti a queste provocazioni,
il contraccolpo non è accompagnato e seguito da un uso della ragione adeguato. Se non è così,
scordiamoci che possa sorgere un soggetto diverso che sia in grado di porsi nella realtà con tutta la
sua ragionevolezza, con tutta la capacità di risposta non ideologica o reattiva, ma come forza di
testimonianza di un modo diverso di essere nel reale. Perché, davanti agli attacchi che abbiamo
ricevuto, avremmo potuto dire: «Lasciamo stare, scriviamo ai giornali dicendo cosa siamo perché
non continuino a dire cose che non siamo». Avrebbero riso tutti, perché noi diciamo cosa siamo
rispondendo a quello che ci capita. Altrimenti non vinciamo mai il dualismo che ci troviamo
addosso: da una parte, affrontiamo la realtà razionalisticamente, come tutti, e poi facciamo il
discorso corretto. Ma questo è quello che Cristo ha fatto saltare! Contenuto e metodo coincidono. È
questa la difficoltà. Per questo non ci sarà soggetto nuovo, se questo non accade. E come accade?
Se ciascuno di noi non lascia passare alcuna occasione senza giudicare. Se lascia perdere per
inerzia, sarà un’occasione perduta. Se invece ogni occasione che il Mistero non ci risparmia è per
fare questa strada, per fare quel cammino che ci stiamo dicendo, per usare la ragione in un certo
modo, per muovere la libertà, allora ogni circostanza che la vita ci offre è un’occasione della
generazione di un soggetto. Il soggetto non nasce per caso, non nasce come un miracolo, nasce
come la risposta a quell’evento che mette in moto la totalità dell’io e che gli fa usare la ragione, la
libertà e l’affezione in un modo diverso: si chiama “creatura nuova”. Ma questo soggetto può venir
fuori soltanto se noi collaboriamo con il Mistero che agisce costantemente per grazia ridestandoci e
che non ci risparmia la strada, perché altrimenti non sarà mai nostra. Non è che non vediamo
tantissimi miracoli accadere davanti ai nostri occhi, non possiamo lamentarci che abbiamo chiesto il
miracolo e non l’abbiamo visto, ne abbiamo visti fin troppi. Il problema è che quei miracoli che
abbiamo visto non generano un soggetto, perché non mettono in moto la totalità del nostro io come
uso della ragione e della libertà. Allora per noi questo soggetto nuovo sarà soltanto un sogno o una
chimera assolutamente irraggiungibile. Invece, se vediamo delle persone che, tentativamente, in
mezzo a tutti i tentennamenti, zoppicando, fanno questa strada, allora ci testimoniano che è una
possibilità per noi.
Quando è uscita la lettera su la Repubblica, da una parte, mi sono un po’ innervosita, perché quasi
dicevo: ma come puoi guardare tu più a me che io stessa? Perché i miei limiti, il mio tradimento
sempre mi definiscono, e invece tu abbracciavi tutta quella che sono io. Però è rimasto quasi uno
scandalo, invece che un lasciarmi abbracciare. Ma è accaduto un fatto nel reparto in cui lavoro: è
nato un bambino al quale, dopo una settimana di vita, hanno trovato una patologia genetica
incompatibile con la vita. È stato impressionante, perché tantissime mie colleghe hanno iniziato a
chiedersi: «Ma perché esiste questo bambino? Prima o poi morirà, non potevano scoprirlo prima i
suoi genitori, così lo facevano morire prima e non era inutile per il mondo?». Di fronte a questo mi
sono ribellata immediatamente, perché il punto non è che lui fosse diverso da me; quel bambino c’è
ancora, come io ci sono, è voluto, è amato, è preferito esattamente solo per il fatto che c’è, e
nessuna malformazione, nessuna circostanza, nessuna condizione avversa può togliere tutto il
valore che è, cioè il rapporto con Uno che lo vuole ora. Ma questo mai l’avrei potuto scoprire, se
non partendo da quello sguardo amorevole che c’è continuamente su di me e che supera e
abbraccia tutto il limite e tutto il tradimento che sono. Mi ha impressionato perché, da quando ci
hanno comunicato la sindrome del bambino, io mi sono talmente affezionata a lui che ho chiesto se
potevo seguirlo sempre, tanto che un giorno una mamma del reparto – loro tendenzialmente sono
sempre silenziose, ci guardano fare – alla fine del turno è venuta da me e mi ha detto testualmente:
«Comunque si vede subito per chi i nostri bambini sono un peso e per chi qualcuno di cui stupirsi».
Ho ricapito ancora di più tutto il valore di quella lettera e tutto il valore dell’incontro che ho fatto
con Cristo: uno sguardo che non mi circoscrive ai miei sbagli soliti, alla mia abitudine a me stessa
o al mio tradimento, ma che continuamente ridà valore a me per quella che sono. Così io, quasi
inconsciamente, posso guardare la realtà tutta come Lui guarda me.
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Che uno possa stupirsi davanti a un bambino così (che sembrerebbe una contraddizione
all’affermazione della positività della realtà) indica la rivoluzione che, senza alcuna visione
“mistica”, si può raggiungere. Perché questa è la sorpresa che fa accadere Cristo in noi quando
siamo consapevoli di come siamo stati guardati, e questa autocoscienza ci impedisce di ridurre la
realtà soltanto all’apparenza, al contraccolpo sentimentale che mi provoca, e allora io la guardo con
tutta la profondità con cui guardo me stesso: voluto e preferito. E la mamma che è lì si rende conto
della differenza tra chi tratta i bambini come un peso e chi li guarda con stupore. Nessuno direbbe
che un bambino così può destare stupore, solo la sua mamma per l’affezione che ha, ma per tutti gli
altri è il contrario: ripugnanza. Invece questo sguardo sulla realtà che può capitare dappertutto,
come dicevamo prima, che può diventare il rapporto normale con la realtà, è ciò che Cristo vuole
generare in noi, perché un soggetto in grado di stupirsi è così pieno che non deve cercare altrove
quello che lo riempie. Questa è la promessa che tanti state già incominciando a scoprire e che, nella
misura in cui noi seguiamo don Giussani, possiamo veramente aspettarci che diventerà nostra,
sempre di più. E questa sarà la possibilità della testimonianza a tutti, come mi scrive una di voi a
proposito della lettera: «Venerdì sera ero a una cena della Milano “superbene” con avvocati e
accademici, anche stranamente simpatici direi, e uno di loro dopo un po’ di convenevoli e ovvietà,
avendo portato il discorso sulla tua lettera e non sulle corbellerie della politica, mi ha detto che lui
aveva iniziato a leggerla per curiosità, per essere aggiornato sugli ultimi pettegolezzi sul tema, ma
poi è rimasto così colpito che continua a rileggerla anzi, ha detto: “A meditarla”, in particolare per
quel punto in cui dici che “Cristo non è sconfitto dalle nostre sconfitte”». Tanti mi hanno scritto
cose così. Soltanto se noi affrontiamo le circostanze che dobbiamo affrontare davanti a tutti, davanti
a tutto il reale, senza nasconderci, allora esse diventano l’occasione della testimonianza, di capire
che la nostra presenza non ha bisogno di egemonia per essere realmente incidente sulla storia,
perché quello che incide di più è la testimonianza cristiana, cioè la testimonianza che nasce dallo
stupore dell’avvenimento di Cristo che ci fa stare nel reale diversamente. Mi sembra che questo ci
metta adesso nelle migliori condizioni per capire perché interessa a tutti non perdere l’occasione di
lavorare sugli Esercizi, dove si descrive la strada da percorrere.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 giugno 2012 alle ore 21.30.
Riprenderemo la prima lezione degli Esercizi della Fraternità.
Giornata Mondiale della Famiglia. L’incontro con il Papa che viene pellegrino a Milano il 2 e 3
giugno ci trovi disponibili a riconoscere che il suo magistero non è l’opinione di un leader o
un’opinione tra le tante a cui di solito si riduce il Papa. Il Papa è il punto attraverso cui la verità di
Cristo ci raggiunge, ci libera, salva la nostra ragione e la nostra libertà.
Offriamo perciò il sacrificio e la fatica che il gesto implicherà, per i disagi connessi a questi gesti,
per la purificazione del nostro cuore e per il bene del Movimento, del Papa, della Chiesa e della
società.
Il Libro del mese di maggio e giugno è Dal paradiso all’inferno. I confini dell’umano in
Dostoevskij di Tat’jana Kasatkina (edizione Itacalibri).
Questo libro riunisce varie conferenze e alcune conversazioni tra Tat’jana Kasatkina (studiosa
russa, profonda conoscitrice di Dostoevskij) e gli studenti della scuola “La Traccia” che hanno
messo in scena Delitto e Castigo e altri interventi suoi.
Ve lo proponiamo perché Tat’jana Kasatkina è per noi un esempio palese di che cosa è una
presenza cristiana in grado di valorizzare tutto senza ridursi a uno schieramento. Per me è un
atteggiamento da imparare, come abbiamo visto questa sera.
Veni Sancte Spiritus
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