lunedì 30 luglio 2012

Il Messaggio di Julián Carrón in occasione del Pellegrinaggio Czestochowa (6-11 agosto 2012)

Cari amici, ricordatevi che valgono anche per voi le parole di don Giussani che ci siamo ripetuti tante volte: «Aspettatevi un cammino, non un miracolo che eluda le vostre responsabilità, che elida la vostra fatica, che renda meccanica la vostra libertà». Imparate a memoria questa frase, perché vi faccia compagnia lungo il pellegrinaggio, per mettervi nell’atteggiamento giusto, per non aspettarvi qualcosa di miracoloso, di meccanico dal gesto che compite al termine della scuola e dell’università. Un gesto di questo calibro apre il cuore, la mente, la disponibilità, la totalità dell’io. Se possibile, cavalcate questa apertura del vostro cuore che vi ha fatto desiderare di compiere il pellegrinaggio. Portate con voi i vostri desideri, le vostre speranze, ma anche i vostri drammi, le difficoltà e le perplessità; proprio la fatica del cammino farà emergere con tutta la sua potenza il bisogno infinito del vostro cuore. Approfittatene per rendervi consapevoli che è il bisogno che abbiamo tutti, che non è soltanto di un momento ma di sempre. Così sarà quasi naturale per voi riconoscere che domandare è di ogni passo, costantemente. Occorre un cammino affinché l’apertura del cuore provocata dalle circostanze non si chiuda. Perché inevitabilmente tenderà a chiudersi: non è meccanico che permanga, e neanche una situazione dolorosa come una malattia o la morte di un amico − di per sé − ci può riuscire. L’unica cosa che riesce a mantenere viva la consapevolezza del bisogno è una presenza che ci sfidi di continuo: la Chiesa. Per questo è necessario fare il cammino che ci propone la Chiesa attraverso il Movimento, perché diventi stabile e sempre più familiare questa apertura, questa coscienza del nostro bisogno. Vi auguro di verificare voi stessi − nell’esperienza − la convenienza umana di vivere così almeno una settimana. Allora vi verrà da gridare: «Questo è vivere!», fino al punto di dire ciò che dicevano alla Samaritana gli abitanti del suo paese, dopo avere incontrato Gesù: «Non crediamo più per quello che tu ci hai detto, ma per quello che abbiamo visto noi nell’esperienza». Questo «è il tempo della persona» perché, come dice don Giussani, se l’esperienza cristiana non riesce a generare un “io” certo, non potrà resistere in un mondo in cui tutto dice il contrario. Non basta una predica, non basta un discorso, non basta una serie di regole, per suscitare questo “io”. Occorre un gesto che ci consenta di fare esperienza di quello che ci diciamo. Non abbiamo altro scopo che questo: che ciò che abbiamo incontrato e che ci ha affascinati − e per cui fate il pellegrinaggio − diventi sempre più nostro. Ma c’è un inconveniente: proprio perché il Mistero tiene così tanto alla nostra dignità di uomini, non vuole entrare di nascosto nella nostra vita e per questo chiede il mio, il tuo impegno. Per non rimanere estrinseco, desidera entrare nella nostra vita attraverso la nostra umanità, attraverso la nostra ragione e la nostra libertà: tocca a noi accoglierlo. Nella memoria di don Giussani, affidate alla Madonna il Movimento. In questo momento molto bello e molto importante del nostro cammino portate con voi nelle vostre preghiere la nostra fragile e grande compagnia al destino.

lunedì 16 luglio 2012

Chiediamo all'infinito /Il vuoto (la vacanza) è lo stampo di Dio

. Leggevo in questi giorni uno spietato romanzo sulla vita di un rapinatore e assassino degli anni 50, ambientato nei bassofondi di Los Angeles. Dopo aver messo a segno un colpo da mezzo milione di dollari, si ritrova in una casa con vista sul mare a godersi il bottino: «Quando sono arrivato quaggiù è stato come arrivare alla fine dell’arcobaleno, nel luogo baciato dal sole che appartiene ai sogni di tutti. Era tutto quello che desideravo dalla vita: semplicità, una spiaggia, la pace. Ma la pace si è trasformata in noia e solitudine». Giorno dopo giorno la noia lo assale, lo divora da dentro. Non basta mezzo milione di dollari da spendere in divertimenti a trovar pace. Ha bisogno di riempire il vuoto e allora, pur sapendo di rischiare la cattura dal momento che è un super-ricercato, comincia a preparare un altro colpo. Ci si può annoiare anche in vacanza, e siamo disposti persino a scegliere il rischio pur di lenire il vuoto profondo che ci afferra. Il vuoto. Non credo che in altre epoche della storia sia stato concesso il privilegio di sentire la morsa disperante del non senso, come nella nostra o almeno nella forma cristallina che ha raggiunto oggi. C’è stata un’epoca in cui gli uomini sapevano di essere finiti, dentro l’infinito di Dio, e per questo interpretavano ogni cosa finita come segno dell’infinito. Venne poi un’epoca in cui il finito si rese autonomo dall’infinito ed esplorò tutti gli angoli della sua finitezza, scoprendo cose che prima non sospettava. § Si sentì più solo, ma sapeva di essere sorvegliato dall’infinito, così si rassicurava anche se cominciava ad averne paura. Venne poi un tempo, il nostro, in cui il finito non volle essere più rassicurato né impaurito, accantonò l’infinito e si rese del tutto autonomo, tanto da diventare infinito o credere di esserlo. Il prezzo pagato fu che insieme alla sua raggiunta infinitezza sperimentò l’infinitezza del suo limite: emerse il vuoto in forma nitida, come uno stampo svuotato, perfettamente pulito, ma privo della sua sostanza. Si decise allora di riempirlo dell’ottimismo delle "cose da fare" per scacciare quel vuoto, ma nessuna coincideva con lo stampo e le troppe cose si rivelarono ingombranti, e si rompevano pure. Nacque così la vacanza: per svuotare di nuovo lo stampo dalle cose di cui lo si era riempito, e tornò la violenta evidenza del vuoto e si desiderò tornare al pieno di cose da fare, pur di non sentire con tale forza l’assenza perturbante. E si cominciò a pendolare, inquieti. Riempi e svuota. L’assenza di infinito ci costringe a rendere infinito tutto: lavoro e vacanza. Andiamo in vacanza come uno che spegne il computer quando è andato in tilt, perché il lavoro è solo schiavitù funzionale a guadagnarsi la vacanza. Trattiamo l’anima come un interruttore: on/off. E non troviamo pace. Cesare Pavese in alcune delle sue poesie più belle di Lavorare stanca dipinge questo tedio che ci sorprende all’alba o alla sera: «Poi la notte, che il mare svanisce, si ascolta / il gran vuoto ch’è sotto le stelle... / L’uomo, stanco di attesa, / leva gli occhi alle stelle, che non odono nulla... / Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / in cui nulla accadrà... / Vale la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci?». Attendiamo la vacanza come se potesse risolvere il nostro infinito desiderio di felicità, minacciato dalla schiavitù del lavoro, ma la vacanza, impietosa, ci mostra il vuoto che abbiamo coperto con i troppi impegni feriali. Così l’attesa si fa ancora più dolorosa e delusa e le stelle in cui avevamo sperato non ci ascoltano. Cerchiamo la compagnia in spiagge affollate e locali rumorosi, che pochi giorni prima fuggivamo. Cerchiamo divertimenti ancora più impegnativi di un lavoro che avevamo vissuto come alibi al vuoto. E non troviamo pace, perché l’anima non è un interruttore e il corpo la sua lampadina che prima o poi si fulmina, ma un’unità che ha pace solo quando è unità. Per questo credo che, suo malgrado, l’uomo di quest’epoca, guardando lo stampo mal riempito o vuoto, potrà più facilmente chiedere all’infinito di tornare. L’infinito lo ascolterebbe e si riverserebbe subito dentro di lui, come una grazia, colmandone di pace ogni angolo. Il tedio non è da disprezzare: altro non è che la percezione dell’assenza dell’immagine che siamo. L’immagine del Dio fatto carne. Alessandro D'Avenia © Avvenire

domenica 15 luglio 2012

L'esperienza elementare, «una giustizia che si fa vita»

di Ubaldo Casotto 11/07/2012 - Un seminario sul libro di quattro costituzionalisti per scavare sulla fondazione del diritto nell'epoca dell'individualismo. La riflessione giuridica ha bisogno di un punto esterno. Ma in che rapporto sta questo «altro» con la legge?
Roma, Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, Camera dei deputati, martedì 10 luglio 2012. Tre filosofi e un giurista presentano Esperienza elementare e diritto, il libro di quattro costituzionalisti: Andrea Simoncini, Lorenza Violini, Paolo Carozza e Marta Cartabia (membro della Corte Costituzionale), a cura della Fondazione per la Sussidiarietà, edito da Guerini e Associati. Carozza, a dispetto di nome e cognome, è americano, ed era l’unico assente (giustificato) tra gli autori. Nel mondo giornalistico circola una vulgata su due grandi firme che fanno a gara a chi presenta più libri senza averli letti. Vera o no che sia, non è stato questo il caso di Costantino Esposito, Eugenio Mazzarella, Francesco Viola e Franco Modugno; raramente s’è assistito a un dibattito così denso e pertinente rispetto al tema del libro: quale fondazione per il diritto nell’epoca della proliferazione dei diritti umani? Esposito, ordinario di Storia della filosofia a Bari, ha esordito con Aristotele («Ogni scienza deve ricevere il suo principio da altro», non se lo dà da se stesso) ringraziando quindi gli autori per «la serietà e semplicità con cui seguono la fonte altra della loro scienza, che non si può risolvere nel diritto ma senza la quale il diritto diventa inintelligibile», perché «il diritto non si autofonda, ha bisogno come esigenza interna di capire qual è il punto altro per cui può essere se stesso». Citando la prefazione di don Julián Carrón, Esposito ha reso esplicito quel punto «esterno al diritto, ma ricercato dall’interno del diritto, come sua necessità»: l’esperienza elementare come esigenza di giustizia. In che rapporto sta - si sono chiesti gli autori - questo «altro» con la scienza del diritto? Ora, «la riflessione giuridica discende direttamente dalla concezione di uomo che si ha, ma assistiamo in questi tempi al tramonto un’antropologia per cui il diritto si fondava sull’esistenza e sul valore della persona e se ne afferma una contraria per cui la persona, invece che essere fonte dei diritti ne è il risultato»; quali problemi e quali sfide pone questa nuova situazione antropologica al diritto? Alla domanda ha risposto Eugenio Mazzarella, deputato del Pd e docente di Filosofia all’Università Federico II di Napoli. «A chiedere nuovi diritti - ha detto - più che la persona sembra essere l’individuo, ma i diritti dell’individuo, così costruiti nel diritto, non sembrano conseguirne davvero la tutela come pure vorrebbero» perché non colgono «la matrice relazionale e comunitaria dell’individuo che si è storicamente e concettualmente tradotta nell’idea di persona». La conseguenza di un diritto costruito su «un individuo scorporato dal suo essere persona» è una proliferazione e un’assolutizzazione dei diritti che non ottiene lo scopo che dichiara: tutelare effettivamente la persona. Il carattere relazionale è messo in evidenza dalla semplice constatazione che «quando chiedo il rispetto di un mio diritto, chiedo qualcosa a qualcuno». L’iper-individualismo in cui nascono le nuove richieste trascura un criterio di ragionevolezza dei diritti, cui invece richiama «la nozione di esperienza elementare teorizzata da don Giussani come criterio esterno di giudizio di questa ragionevolezza». È questa «impronta interiore, che è il cuore buono dell’uomo come persona degna, che sembra meno marcare il mondo di cui facciamo esperienza», mentre «l’esperienza elementare può giocare un ruolo di fonte di giustizia che evita al necessario diritto positivo di scadere nel positivismo giuridico». La situazione odierna - ha osservato a questo punto Esposito - pone il diritto come ordine legislativo a fondamento della giustizia e non la giustizia come fondamento del diritto, contraddicendo un’esperienza umana elementare, l’esigenza del giusto. Come riannodare questo rapporto? Francesco Viola, docente di Filosofia del diritto a Palermo, ha voluto rassicurare Esposito: «Anche i positivisti sono d’accordo nel dire che il fine del diritto è la giustizia, il diritto è una promessa di giustizia», il problema è se la giustizia è interna o esterna al concetto di diritto, se l’essere giusto si aggiunge al diritto o se ne è l’essenza, se, insomma il diritto, fatte le sue affermazioni teoriche, possa fare a meno della giustizia. E qui sorgono le differenze. Viola ha citato la teoria del «minimo etico», secondo la quale il diritto ha bisogno della giustizia, ma solo da un certo punto in poi. Ma se questo è evidente per casi di macroscopica ingiustizia, come l’Olocausto, per cui il diritto cessa di essere tale, è più difficile stabilire questo discrimine nella vita ordinaria: «Il diritto alle ferie pagate è di serie A o di serie C? Provate a spiegare che non è un diritto fondamentale a chi l’ha sempre percepito come tale». Viola ha quindi spiegato come una nuova concezione di diritto naturale salvi il giuspositivismo quando questo si esprime in leggi fondamentali come le costituzioni, «che sono artificiali come le leggi ordinarie, ma in modo diverso, perché la loro origine è culturale. La loro artificialità (sono pur sempre fatte da uomini) cerca di comprendere in qualche modo la natura ed è per questo fondativa della convivenza civile perché afferma dei principi e non solo delle regole». L’elemento di novità del giuspositivismo odierno, per Viola, è che al suo interno c’è un’istanza critica, uno può affermare nuovi diritti, ma non basta la volontà di farlo, deve renderne ragione. In questo quadro come opera l’esperienza elementare? «Inanzitutto mi fa riconoscere l’umano, cioè chi è ammesso al discorso comune. E, in secondo luogo, permette di costruire la società non intorno a pretese individualistiche, ma su un ordine delle libertà che salva le relazioni umane fondamentali». Uno degli aspetti più provocanti del libro è il giudizio sulla cultura dei diritti che si trasforma nel nuovo volto del potere. Chiamato a rispondere a questa provocazione, il professor Franco Modugno, docente di Diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, ha voluto premettere una distinzione: «O cerchiamo di elaborare una teoria della giustizia come esperienza elementare o rendiamo l’esperienza elementare una teoria della giustizia. Nel primo caso si tratta di spirito, di vita. Nel secondo caso ci troveremmo davanti a una nuova formula. Bisogna stare attenti a non ridurre l’esperienza elementare a dottrina». L’esperienza elementare, ha detto Modugno mostrando una lettura approfondita del libro e sottolineando anche ciò che lo differenzia dagli autori, «è insieme un contenuto e un metodo ed è questo che la rende interessante» come criterio di giudizio su ciò che si prova. L’esperienza elementare - ha continuato - «non fornisce un elenco minimo di valori condivisi, ma chiama in campo un soggetto» e questi può, in virtù di essa, criticare anche i diritti umani. Pur non condividendo in toto il giudizio di Marta Cartabia sulla proliferazione e l’assolutizzazione dei diritti, Modugno ha centrato la chiusura del suo intervento sul concetto di dignità, «che possiede un plusvalore, non è un diritto come credono in certe corti europee», riportandola direttamente all’esperienza elementare, che ha definito «la chiave che apre la porta di accesso alla dignità». Chiamata in causa, Marta Cartabia ha spiegato la natura del lavoro degli autori del libro: «L’esperienza elementare non è una teoria della giustizia, poniamo dei problemi che noi abbiamo incontrato come enigmi inspiegabili nel corso del nostro lavoro e per affrontare i quali è stato necessario uscire dai confini della nostra materia. Come ha detto il professor Modugno, è una giustizia che si fa vita, perché ci siamo resi conto che non si può limitare la degenerazione dei diritti con un appello a una nuova moralità, cioè a un elenco di doveri, ma ponendo una nuova domanda: che cosa vuole veramente l’uomo quando avanza questi nuovi diritti? Che cos’è veramente questa esigenza di giustizia? Il nostro è un primo passo, cui deve seguire ancora molto lavoro». Problematica la chiusura di Esposito: «Le cose decisive e grandi della nostra vita sono sempre state anche giuste? Cioè, erano dovute o sono state imprevedibili? O forse anche il giusto, il dovuto, si origina da qualcosa di non dovuto, di gratuito? Che il segreto della giustizia sia la gratuità?». Effettivamente, il lavoro non manca.

mercoledì 11 luglio 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 20 Giugno 2012

Testo di riferimento: J. Carrón, «Un maestro da seguire», in «Non vivo più io, ma Cristo vive in me», pp. 13-28. • Negra sombra • Noi non sappiamo chi era Gloria Quanto più i tempi sono duri, tanto più è il soggetto che conta, è la persona che conta, ci ricorda don Giussani, citato nella prima lezione degli Esercizi. Mi sembra che la durezza dei tempi l’abbiamo davanti, non occorre spiegarla troppo. Questa situazione che ci troviamo a vivere sfida la nostra persona; se più duri sono i tempi più quello che conta è la persona: è proprio in questi tempi che ciascuno di noi si rende veramente conto se è persona; non se è persona ontologicamente (il che non è in discussione), ma se è persona con quella autocoscienza che gli consente di non essere sconfitto, fatto fuori, ridotto a un pezzo del meccanismo delle circostanze; infatti, se succede questo, non c’è più l’io. Rimane, ovviamente, l’ontologia (non ce la possiamo strappare da dosso), ma siamo in balìa di tutto. Perciò questo è un momento veramente propizio – misteriosamente! – per verificare la nostra autocoscienza. Comincio leggendo una testimonianza sulla questione della crisi: «Volevo raccontarti la circostanza particolare che mi ha portato a questo senso profondo di gratitudine che dentro di me è esploso in tutto quello che faccio. Pochi giorni fa, dopo mesi di attesa, l’azienda ha ufficializzato la crisi in cui a livello economico versa; deve in pratica ridurre il costo del lavoro. La prossima settimana comunicherà il piano di risparmio che vorrà adottare. La sera stessa dell’incontro sindacale, per una coincidenza strana, i miei quattro figli mi invitano, tramite sms, a stare sereno perché nessuna notizia negativa avrebbe potuto abbattermi. Questo non perché a cinquantasei anni non possa perdere il posto di lavoro – figuriamoci! –, ma solo (cito il messaggio di mio figlio diciannovenne) “perché la consistenza della tua vita è di un Altro sempre, non dipende dalla circostanza, allo stesso modo di come tu non smetterai mai di essere il mio grande papà e io il tuo piccolo grande figlio”. È stato un contraccolpo forte. I miei figli ricordavano a me quello che si legge a pagina 18 del libretto degli Esercizi: nelle circostanze “noi crolliamo per mancanza di autocoscienza. Perché nessun potere di questo mondo potrebbe farci fuori […] tutta l’energia della nostra forza è nel semplice riconoscere Colui a cui noi apparteniamo, Colui che ci fa ora”. Con sincerità devo ammettere che mai potevo arrivare a percepire la crisi che sto vivendo al lavoro, ormai da mesi, come la possibilità per la mia persona di un cammino di conversione. Arrivare a definire la crisi una grande grazia nella mia vita era fino a pochi mesi fa solo follia. Adesso è come se mi rendessi conto come per la prima volta, dopo trentasette anni di movimento, quel che tu hai scritto nel messaggio agli amici colpiti dal terremoto: che questo è il momento della persona. “Ora le spiegazioni penultime non servono. [...] Io chi sono? Sono una parte di questo tutto che crolla o sono qualcosa d’altro?”. È proprio vero: l’espressione “io sono Tu-che-mi-fai” è l’espressione ultima della mia vita». Pian piano, nella misura in cui noi facciamo la strada, ci stupiamo di poter stare davanti a certe circostanze in un modo che soltanto qualche tempo fa (non troppo) ci sarebbe sembrato follia. Adesso possiamo capirlo; adesso incominciamo a capirlo, soprattutto chi ha fatto la strada e chi si impegna costantemente. Questa è una verifica (fra le tante che vedremo questa sera) del cammino fatto. Per chi lo ha fatto. Volevo esporre quanto emerso come mia consapevolezza in seguito agli Esercizi e all’incontro con il Papa a Bresso. Anche prima degli Esercizi mi era chiaro che quanto stava succedendo intorno a noi non poteva ridursi a un giudizio politico, ma andava vissuto come un richiamo per la mia conversione. Però mi sono chiesta a Rimini – visto che mi sembrava di desiderare quello che 2 desiderano tutti, di non essere molto diversa –: allora, se stare di fronte alla realtà non è un problema di coerenza, qual è esattamente il punto? Con «quanto stava succedendo intorno a noi» che cosa intendi? Tutti i fatti politici. La scorsa Scuola di comunità ho messo bene a fuoco dove sta il punto, e mi soffermo solo su due aspetti. Dopo l’incontro con il Papa ho avuto modo di smascherare due atteggiamenti che inconsapevolmente autogiustificavo, e questo mi ha reso più lieta. Il primo: quello di un’insoddisfazione e inquietudine spasmodica, che mi sembrava buona in quanto indice del mio filo di desiderio, condizione per il mio riconoscimento di Cristo. In realtà, mi sono resa conto che quando essa ha come esito un astio nei propri confronti e una non accettazione di sé e una ricerca di qualcosa di altro al di fuori del proprio luogo privilegiato (che nel mio caso è la famiglia con i figli), c’è qualcosa di storto; potrebbe manifestarsi in una rincorsa o ricerca di conferme nei rapporti o così via. Il secondo atteggiamento riguarda l’inerzia di cui parlavi la scorsa volta. Io all’inizio l’avevo identificata con una sorta di atteggiamento passivo, quando uno non fa un lavoro; invece mi sono accorta che accade anche quando, per esempio, uso la ragione in modo razionalistico: rincorro una condizione che mi induce a cercare di controllare tutti i fattori delle cose che ho tra le mani, magari per un intento buono, non malvagio. L’esito di tale approccio è una spossatezza che mi stende a terra, come quando uno è in un ingranaggio che va a vuoto. In che cosa riconosci che sei stata razionalista? Questo, secondo me, è importante capirlo. Te lo chiedo perché non è un problema per addetti ai lavori. Tu in che cosa riconosci che sei razionalista? Perché voglio che quadri tutto, che ci siano tutti i fattori tra le mie mani, che io li riesca a possedere. E perché cercare di mettere le cose a posto non è giusto? Perché non sono io… Perché è sbagliato essere razionalisti? Semplicemente perché dobbiamo dire qualcosa contro il razionalismo? Perché ce la siamo presa con il razionalismo? Perché non sono io che faccio la realtà. Ho capito bene quello che hai detto, che cioè tu sei a terra? Sì. Ti corrisponde essere a terra? No, allora questa è la questione! Noi dobbiamo vedere la irragionevolezza di certi atteggiamenti dai loro risultati, perché è così che capiamo qual è la natura dell’errore. Capisci perché don Giussani insiste nel lavoro sullo “strumento del pensiero”? Perché se tu usi in modo razionalista la ragione, ti ritrovi a terra, anche con tutti i tentativi; non è che non fai niente, come dicevi, fai tante cose, ti agiti in tante cose (come la Marta evangelica), ma una sola cosa è necessaria, e non in un senso “mistico” del termine come tante volte fraintendiamo; no, devo fare un uso della ragione in modo che possa cogliere il fondamento dell’apparenza di quello che faccio, perché così, allora, tutto acquista il suo posto, e non perché lo metti a posto tu, ma perché, trovando il punto sorgivo, il significato di tutto, tutto riacquista il suo giusto peso. Non è un equilibrismo che dobbiamo cercare di ottenere in mezzo a tutta la bagarre, sarebbe impossibile. Anzitutto volevo riprendere la cosa che dicevi all’inizio, perché per me tutti questi ultimi mesi,questi ultimi giorni in particolare, sono stati la documentazione chiara del fatto che adesso è il tempo della persona. La domanda che viene sempre più fuori è questa: che cosa mi permette di essere me stesso, cioè libero, libero da tutto, qualunque cosa accada, qualunque cosa succeda? Sto iniziando a capire che quello che tu ci dici, cioè che questa autocoscienza (chi sono io e Chi mi fa) non è appena un problema sentimentale o intimistico, ma è un problema di un rapporto, di un legame; tu ci hai detto: è un’appartenenza. E io questo sto iniziando a vederlo sulla mia pelle, inizio a capire chi sono e Chi mi fa dentro un’appartenenza, dentro un legame. Ma tutto quest’ultimo periodo mi ha fatto vedere chiaramente che non tutti i legami sono veri legami. Cioè? Non tutte le compagnie sono vera compagnia, e si può stare nel movimento senza essere in grado di farsi compagnia. Racconto due cose. Una mattina ci siamo svegliati a Bologna e tutta la città è 3 stata pervasa da una notizia: un politico della città si era suicidato nella notte. Era un uomo molto popolare e molto stimato. Io non sapevo minimamente chi fosse, non l’ho mai conosciuto, ma questo fatto mi ha colpito tantissimo. Mi sono detto: quest’uomo non è che non sia in compagnia, ha tanta gente intorno, è amato da tutti. Poi ho pensato alla mia vita e mi son chiesto: anche io sono in mezzo alla gente, ma a me che cosa fa veramente compagnia? In altri termini: perché posso dire che la mia vita non è sola? Infatti il suicidio è segno del giudizio che, alla fin fine, sei da solo. Questa cosa ho dovuto scoprirla con la vicenda del terremoto. Dove mi trovavo io si è sentito tantissimo, ma non ha fatto i danni gravi che ci sono stati in tutti i paesini della bassa modenese. Però si è generato un momento di subbuglio generale. Mi ha impressionato, sentendo anche tanti amici o familiari, percepire per la prima volta che si è tutti messi davanti a un fatto che letteralmente ti mette con il sedere per terra, con la sensazione che venga giù tutto. Di fronte a questa cosa non sapevo come reagire: mi sentivo in dovere di rispondere anche ai miei amici, ma non sapevo cosa fare, ricordo che ho sentito anche l’urgenza di trovarci. Ecco, eravamo lì spaesati per quello che era successo, e io ho detto: «Noi possiamo anche metterci insieme, trovarci, eccetera. E quindi?». Allora ti ho chiamato per dirtelo. E mi ha colpito tantissimo quello che tu mi hai detto: «Questo fatto mette te e tutti davanti a questa grande domanda: tu chi sei? Puoi dire, per l’esperienza che stai facendo, che non sei parte di tutto quel che crolla?». E quando tu ci hai fatto questa domanda, lì è stato il primo momento – se sono sincero – in cui non mi sono sentito solo. Ho fatto esperienza della liberazione: qui non so cosa succederà, però questa autocoscienza già da adesso mi dà pace. La compagnia che cerco è questa compagnia! Quella che mi ricorda chi sono e Chi mi fa essere; e il segno che una compagnia è vera, per quello che ho vissuto in questi ultimi giorni e in questi mesi, non è il fatto che ci si parli a ripetizione della compagnia, ma è il fatto che uno, dentro una comunione, faccia questa esperienza di liberazione, appunto. Questo è il segno, e un’esperienza così – per quello che ho vissuto – dà un’energia, una creatività, una forza, anche una libertà, che prima non avrei pensato, più di tutte le cose vere o giuste che ci si può dire. Grazie. Mi sembra un contributo prezioso per renderci conto di che cosa vuol dire il contenuto degli Esercizi, cioè di che cosa vuol dire l’autocoscienza. Chi sono io e qual è la mia esigenza totale di significato non trova risposta soltanto in uno stare insieme. Se noi non capiamo questo, allora non possiamo capire che cosa intende don Giussani quando dice che questo è il momento della persona. E non troveremo risposta adeguata all’esigenza che abbiamo. Questo si vede quando la vita ci sfida,come davanti al terremoto; possiamo sentire l’urgenza di trovarci insieme, di metterci insieme e allora sorge con ancora più potenza la domanda: e quindi? E quindi?! Un uso razionalistico della ragione non può rispondere a questo. Perché? Perché non è che non stiamo insieme, non è che non partecipiamo del reale che sta succedendo, ma siamo come travolti dal torrente delle circostanze. Ma io sono parte di questo che crolla o no? C’è un io o c’è soltanto il panteismo? Sono soltanto un pezzo del meccanismo delle circostanze, in questo caso delle scosse, o dell’insieme della nostra impotenza? Allora si capisce che senza rispondere a questa urgenza non c’è l’io, non c’è l’io! Cominciamo a capire che l’io non è un problema sentimentale, non dipende da uno stringerci insieme per risolvere il dramma, ma è in questa urgenza di significato di totalità che o c’è o non c’è;e se non c’è, non c’è l’io, non c’è l’io come autocoscienza, non c’è l’io come possibilità di stare nel reale. Invece quando, in mezzo a tutto, qualcuno dice il significato, allora uno capisce che è vero perché lo libera, perché succede qualcosa di radicalmente diverso, di radicalmente nuovo. E in che cosa si vede? Che adesso sono libero in mezzo alle circostanze (non fuori dalle circostanze, ma in mezzo alle circostanze). Come testimoniano molti colpiti direttamente dal sisma: «Questo terremoto ha fatto crollare qualcosa di più che i muri. Con grande tristezza mi trovo bloccato, impietrito di fronte a tutto questo. Questi fatti hanno messo in luce tutta la mia fragilità, tutto il mio bisogno di poggiare i piedi su qualcosa che non tremi e non crolli. La domanda che più potentemente si fa largo in me è proprio: ma qual è la mia consistenza? Dove ripongo la mia speranza? Fa male vedere che alla fine sono come tutti. Agli Esercizi tu ci hai esortati a ripartire dal nostro umano; anche nel tuo messaggio ci dici che don Giussani ci ha detto che è questo il tempo della persona. Ma io ho paura, ansia, e non ne esco da solo». La sfida è a questo livello, ma basta che uno prenda 4 consapevolezza di sé e guardate che cosa succede: «Due giorni dopo la grande scossa di terremoto del 29 maggio sono entrata in casa per lavarmi. Mi sono trovata a tremare come una foglia e ho iniziato a ripetermi: anche se la terra trema, io non tremo. Mentre continuavo a tremare mi sono sorpresa a riconoscere che ciò che stavo dicendo era vero, ma non perché io non tremassi più, bensì perché ciò che stavo dicendo era più vero, toccava più il fondo della questione che nemmeno il mio stesso tremore [“toccava più il fondo della questione che nemmeno il mio stesso tremore”: per questo, se non arriviamo fino lì noi siamo razionalisti e non ci sblocchiamo]. È stato riconoscere l’evidenza [non è un problema di energia, non è un problema di forza, non è un problema di performance, ma è un problema di semplicità che riconosce (come il cieco nato) il fondo ultimo del reale] e, anche se tremante, ho deciso di restare lì a lavarmi [non è per modo di dire che uno è diverso; no, è diverso perché agisce in modo nuovo: invece di fuggire, “anche se tremante, ho deciso di restare lì a lavarmi”]. Io non ero del terremoto, nemmeno se fossi rimasta sepolta sotto le macerie [tremi col terremoto, ma non sei del terremoto: questo è un io, questo è un io la cui consistenza non è nel non tremare (perché può continuare a tremare), ma nel non essere del terremoto]. E mi sono sorpresa. Se in quell’istante per me tanto difficile è stato possibile aprirmi al Mistero dell’essere, al “Tu che mi fai”, ciò significava che era ed è possibile in qualsiasi situazione e circostanza. Subito il mio pensiero è corso ai miei compaesani, come me pieni di paura e di preoccupazione per il terremoto. Ciò che mi ha accompagnato nei giorni successivi al terremoto, quando la paura di veder tremare di nuovo la terra era altissima, quando ogni futuro sembrava impedito, è stato riconoscere continuamente che per quanto il futuro possa essere oscuro, il presente, l’ora, c’è, e c’è perché Qualcuno me lo sta dando [è l’immediatezza di cui parlava Giussani in piazza San Pietro nel 1998: riconoscere l’evidenza del reale, questa è la consistenza]. Ciò di cui mi accorgo in questi giorni è che ogni circostanza, quotidiana o eccezionale che sia, ha un potenziale altissimo di sfida. Sempre il Mistero ci chiama ad aprirci a una misura radicalmente diversa dalla nostra, ma che, lasciata entrare, fa la vera differenza, e vivere così è decisamente più bello». Ma perché questo accada occorre che ciascuno di noi dica: «Io», perché, senza questo attaccamento di ciascuno di noi all’evidenza dell’essere, noi siamo di nuovo incastrati nelle circostanze. E proprio perché noi non crolliamo – non è che questo è il punto di arrivo! –, possiamo poi incominciare a fare tutto quello che occorre fare, come mi dice un’altra persona coinvolta nel terremoto: «Quel che ci diciamo sempre a caritativa l’ho verificato vero, di nuovo. È vero, c’è in noi questa necessità di condivisione totale [perché si è messa in moto per aiutare gli altri], se è taciuta e soffocata il nostro io è meno io. L’impotenza di risoluzione non vanifica questa necessità, paradossalmente la amplifica e ci spalanca al mistero dell’altro, al mistero del nostro io. Il bisogno di tutto dei nostri amici è il mio stesso bisogno; senza sentire vibrare in me questa corda ora, non riesco più a vivere e la mia vita non mi sembra più vita». Perciò questa persona si è mossa per rispondere anche al bisogno. Ma uno può rispondere perché non è crollato in mezzo alla bagarre generale. Allora si capisce qual è il compito che abbiamo, se noi viviamo così, qual è la nostra utilità per il mondo in un momento in cui – come dicevo nel messaggio agli amici terremotati – tutte le risposte penultime, di cui si riempiono la bocca tutti, non servono a niente. «Ora, nella zona in cui abito, per un raggio di trenta chilometri non c’è più una chiesa, sono tutte fortemente danneggiate. Di fronte a questo mi dicevo: ora, Gesù, dobbiamo essere noi a renderti presente nel mondo. Quel che ci è chiesto ora è di sostenere la speranza, affinché per tutti sia evidente che il Signore è più forte del terremoto». Ma questo non lo può far chiunque, lo può fare solo uno che ha unaconsistenza che gli consente di sorreggere questa speranza. È solo così che possiamo capire qual è la portata del nostro contributo. Studio all’università. Quando a novembre è morto il nostro amico Giovanni, tutte queste domande di cui stai parlando anche stasera erano emerse in maniera chiara dentro di me, perché è evidente che se io ponevo tutta la mia consistenza nel rapporto con degli amici, che poi il giorno dopo mi venivano tolti, crollavo. E mi ha subito sfidato la tua posizione rispetto a questo quando tu avevi detto che l’ultimo grande gesto di amicizia che ci aveva fatto Giovanni è stato quello di metterci 5 davanti al Mistero. Andando a vedere tempo fa la mostra su sant’Agostino, mi sono commossa davanti all’episodio della morte di un suo carissimo amico, quando affermava: «La mia anima era assolutamente in crisi, e mi dicevo di sperare in Dio, ma non era soddisfacente perché come potevo sperare in un fantasma?», perché per me invece non è stato così. Io ho potuto veramente non perdere la speranza innanzitutto perché i miei amici sono stati con me, e attraverso di loro ho visto uno sguardo indescrivibile e bellissimo. Racconto un ultimo fatto che è successo. Un pomeriggio, stavo sentendo il racconto di un mio amico che parlava degli ultimi giorni in cui era morto Giovanni, con dei dettagli che io non ricordavo. A un certo punto ho cominciato a sentire un vuoto, una tristezza profonda, che io volevo togliermi assolutamente perché mi dava fastidio, non dovevo essere così, dovevo essere felice. Ci sono voluti proprio i miei amici per sfidarmi chiedendomi se con la sua morte era tutto finito. Era Gesù che, attraverso di loro, mi chiedeva di fare un lavoro. Quando poi ho letto la Scuola di comunità, mi sono ancora commossa, in particolare quando dice: «Se tu non avessi avuto questa compagnia, Cristo, per me come per te, sarebbe stata una parola oggetto di frasi teologiche, oppure nei casi migliori, richiamo ad una affettività “pietosa”, generica e confusa, che si precisava soltanto nel timore dei peccati, vale a dire in un moralismo». E poi: «Invece il rapporto con Cristo, con Dio fatto uomo, coincide con il rapporto con quelle persone che documentano, che testimoniano che Cristo è presente, non tanto perché siano fisicamente presenti, ma perché vivono un’intensità umana che documenta la Sua presenza oggi. Infatti, per testimoniare la Sua presenza oggi, attraverso questa intensità, questo cambiamento, occorre che Lui sia presente». Mai ho avuto così chiara questa coscienza di cosa era veramente quell’amico, anche se lui non è più fisicamente presente. E questo semplicemente mi apre a un nuovo uso della ragione rispetto a questo fatto: grazie a questo posso dire che l’amicizia con lui, dai fatti che mi stanno succedendo, continua e si sta approfondendo, anche se per il mondo in realtà sarebbe tutto finito. Grazie. Per il mondo tutto è finito, invece quella intensità, quella diversità di cui lei ha fatto esperienza rimane anche nel presente. «Come possiamo noi fare questa strada?», mi domandano. Non voglio finire senza rispondere a una domanda sulla sequela che mi è arrivata in una doppia versione. «Nella lezione del sabato mattina degli Esercizi della Fraternità scrivi, citando Giussani: “Il desiderio del ricordo di Cristo matura come storia in noi, cresce non automaticamente ma, come cresce ogni nostra capacità, seguendo qualcuno”. Poi Giussani conclude: “Non l’attaccamento alla persona, ma la sequela a Cristo è la ragione della sequela tra noi”. Avrei veramente bisogno di un chiarimento su questo, perché è sorgente continua di equivoci, perché è facile cadere nell’equivoco di una compagnia protettiva, da cui sentirsi amati e rassicurati senza mai sapere veramente che cosa vogliamo, chi amiamo, per chi valga la pena vivere». E un’altra persona scrive: «Ultimamente tu parli spesso della sequela, mi sono accorta che per me è un punto scoperto, perché di fatto non saprei dire chi concretamente seguo, e nella mia esperienza spesso cado nell’interpretazione, vado dietro a quello che mi colpisce. Mi entusiasmo in alcuni momenti, come sentirti agli Esercizi, leggere la lettera a la Repubblica o vedere il Papa, perché lì riconosco in atto una unità, una pienezza della vita che desidero per me, ma poi mi perdo per strada. Mi sembra che quando tu parli di seguire dici qualcosa di più di un riferimento a cui ispirarsi, intendi quindi una immedesimazione totale come quella di un figlio che senza volerlo quasi assume i caratteri del padre, senza esserne una copia. Se non è una frequentazione (tu dicevi che il Gius non lo vedevi mai), cosa ha reso possibile per te una immedesimazione come quella che tu ci mostri continuamente?». Questa immedesimazione consiste in quello che don Giussani ci ha detto sempre: un paragone serrato con quello che ci dice, perché la sequela è questa possibilità costante di lasciarsi spostare davanti alla testimonianza, alla modalità di vivere nel reale di uno che ci sta davanti. E come so che sto seguendo? Come so che una compagnia mi fa veramente compagnia? Abbiamo ripetuto tante volte, in tutto questo periodo, quella famosa frase di Giussani – da quando l’ho letta non è passato giorno senza averla dovuta ripetere a me o a un altro –: la fede è un’esperienza presente, che trova la conferma della sua convenienza umana, della sua verità, nell’esperienza stessa. Se non è così, noi non possiamo resistere in un mondo in cui tutto dice il contrario. Come so se sto veramente seguendo? Io so che sto veramente seguendo per la conferma della mia esperienza in quello che 6 accade. Lo abbiamo visto oggi in diverse testimonianze; in che cosa si vede se uso bene la ragione o meno, se la uso in modo razionalistico? Che io non sto in piedi, che io sono a terra. In che cosa vedo che c’è una vera compagnia? Che mi libera. In che cosa vedo io che non crollo quando crolla tutto? Perché io non fuggo, sto lì a lavarmi, perché «non sono del terremoto». Non abbiamo bisogno,come dico sempre, di un supplemento di certezza fornitaci da qualcun altro al di fuori dell’esperienza; noi sappiamo che stiamo seguendo per l’esperienza che facciamo secondo una modalità, secondo un tempo che non decidiamo noi. Adesso incominciamo a vedere i segni di un percorso fatto, che all’inizio non capivamo dove portava; non ne vedevamo i segni della convenienza umana, semplicemente seguivamo perché ce l’aveva proposto don Giussani; adesso incominciamo a vedere che nell’esperienza abbiamo dei segni che ci consentono di riconoscere quando noi stiamo seguendo. Allora la questione è questo paragone continuo con quello che ci viene proposto attraverso la Scuola di comunità (il testo e quello che succede qui e nei vostri raduni), perché questo ci fa capire che cosa è veramente seguire. E questo vi fa rendere conto di come sia necessario costantemente non solo fare un’esperienza, ma giudicarla con quella esigenza a cui ci siamo richiamati sempre e che si chiama cuore, perché altrimenti noi non abbiamo la possibilità di verificare che è vero quello che ci diciamo. Come riconosco io che è vera l’esperienza che faccio? Perché corrisponde a tutta la mia esigenza di liberazione, a tutta la mia esigenza di pace, a tutta la mia esigenza di consistenza, a tutta la mia esigenza di stabilità. Questa corrispondenza non abbiamo bisogno che ce la spieghi qualcuno, ma abbiamo bisogno soltanto di farne esperienza; e quando ne facciamo esperienza è facile vederla come è facile vedere la luce del giorno: si impone con tutta la sua evidenza. Per questo se noi ci ingaggiamo in questa strada che ci offre costantemente don Giussani – non abbiamo altro da proporre! –, possiamo costantemente vedere se stiamo seguendo, per l’evidenza di quello che accade. Questa domanda emerge da quello che più mi ha segnato in questo periodo, in cui mi sono sentita profondamente ferita, turbata e con una ferita che sanguina, dai fatti più recenti che hanno messo alla prova la nostra storia. Non mi sto riferendo tanto al terremoto o alla crisi economica, e neanche agli attacchi politici, ma a ciò che proprio ha colpito l’origine della nostra storia, di fronte a uno sfregio così odioso. Quando agli Esercizi ti avevo sentito parlare, citando Giussani, di una società avversa, quasi mi sembrava esagerato perché è vero, siamo una minoranza, culturalmente una minoranza, ma io questo odio così gratuito, così senza senso, non l’avevo mai visto. Ora di fronte a questo turbamento profondo mi chiedo perché, dove il perché non è un perché come spiegazione analitica delle cause, ma il perché può succedere una cosa di questo genere. Ti ringrazio perché questo ci consente di rileggere quel che dice don Giussani, per aiutarci a rispondere; è un testo del 1972 pubblicato su Tracce di marzo 2008: «Nella vita di chi Egli chiama,Dio non permette che accada qualche cosa, se non per la maturità, se non per una maturazione di coloro che Egli ha chiamati. Questo vale innanzitutto per la vita della persona, ma ultimamente e più profondamente per la vita della sua Chiesa, perciò, analogamente, per la vita di ogni comunità, si chiami essa famiglia o comunità ecclesiale, in senso più lato. Dio non permette mai che accada qualche cosa, se non per una nostra maturità, per una nostra maturazione. Anzi, è proprio dalla capacità che ognuno di noi e che ogni realtà ecclesiale ha (famiglia, comunità, parrocchia, Chiesa in genere) di valorizzare come strada maturante ciò che appare come obiezione, persecuzione, o comunque come difficoltà, è dalla capacità di rendere strumento e momento di maturazione questo, che si dimostra la verità della fede [anche qui mette in evidenza qual è la maturità della nostra fede: se noi riusciamo a usare di tutto questo, qualsiasi cosa sia, senza perderci nelle dietrologie che non ci interessano perché questo è razionalismo puro, cioè rimanere nell’apparenza, il che non ci interessa; perché, come vi ho detto altre volte, almeno possiamo dire che il Mistero non ce lo ha risparmiato, quindi è per noi, per la nostra maturazione; ma quest’ultima non succede meccanicamente, ma dipende dalla nostra capacità di usare le circostanze così, per un rapporto, per una consistenza, per un cercare ancora di più Cristo, per poter vivere ogni cosa senza rimanere all’apparenza]. […] È questo, potremmo dire, il sintomo della verità, della autenticità o meno della 7 nostra fede: se in primo piano è veramente la fede o in primo piano è un altro tipo di preoccupazione, se ci aspettiamo veramente tutto dal fatto di Cristo, oppure se dal fatto di Cristo ci aspettiamo quello che decidiamo di aspettarci, ultimamente rendendolo spunto e sostegno a nostri progetti o a nostri programmi. La legge dello sviluppo spirituale, questa legge dinamica della vita della nostra fede cui abbiamo accennato adesso, è realmente d’estrema importanza per gli individui, come per le collettività; per le collettività, come per gli individui. Resta sempre vero che, per chi capisce Dio e vuole Dio, tutto coopera al bene; e resta sempre vero che, nella difficoltà, viene a galla il fatto se tu voglia Dio o no. È l’eterno dilemma che sta in capo a ogni pronunciamento dell’uomo, a ogni azione dell’uomo, a ogni espressione dell’uomo, è l’alternativa che denuncia l’ambiguità possibile alla radice di ogni flessione umana. Il mondo è una grande ambiguità per lo spirito non chiaro. Lo spirito dell’uomo ha la tentazione dell’ambiguità sopra ogni altra cosa. Non per nulla Cristo parlava in parabole, “affinché vedendo possano non vedere e udendo possano non udire”. E tutto il mondo è come una grande parabola: dimostra Dio, come una parabola dimostra il valore cui vuole richiamare, e “chi ha orecchi per intendere, intenda!”. Di fronte alla parabola, viene a galla il pensiero segreto del cuore. Ciò che l’uomo ama viene a galla di fronte all’interrogativo, al problema, alla domanda, alla difficoltà. […] Se quello che cerchiamo è Cristo oppure è il nostro amor proprio, è l’affermazione di noi, sotto qualunque flessione, secondo qualunque versante, lo si vede, viene a galla, nel momento esatto della prova e della difficoltà». Perciò queste circostanze, che non ci vengono risparmiate, possono diventare per noi parte della nostra strada, del nostro cammino, della nostra maturazione, per poter essere sempre più degni di rendere presente Cristo, più purificati da qualsiasi altra cosa che non sia quello, invece di mettere la nostra sicurezza in quello che facciamo, come dice don Giussani in una frase che rimane in testa per la bellezza di quel che esprime: «A nulla fuorché a Gesù il cristiano è attaccato». Mi auguro che in queste circostanze noi possiamo crescere in tale certezza; possono spogliarci di tutto, ma nessuno ci potrà togliere di dosso il fatto che a nulla fuorché a Gesù siamo attaccati. Vacanze estive. Il titolo che vogliamo dare alle vacanze, come abbiamo visto questa sera e come stiamo dicendo in questi ultimi tempi, quello che ci sembra più adeguato è: «È il tempo della persona». Mi sembra che mai come in questo momento lo sentiamo pertinente. Tutto il lavoro, dalla Scuola di comunità ai Libri per l’estate, sarà un aiuto a questo. Suggeriamo, pertanto, di riprendere la seconda lezione degli Esercizi della Fraternità che si collega al quinto capitolo del testo All’origine della pretesa cristiana. Tra i Libri indicati per l’estate, segnaliamo in particolare Assassinio nella cattedrale, di T.S. Eliot, perché ben si collega al lavoro sulla Scuola di comunità e al percorso fatto. Di questo testo vogliamo sottolineare non tanto l’eroicità della persona (non vogliamo spostare l’attenzione sulla eroicità del personaggio), ma la testimonianza di un uomo libero di fronte al potere e il percorso che occorre fare per essere in grado di “reggere” anche in una circostanza non desiderabile come quella del martirio, una cosa che uno non cerca né deve cercare. Ci interessa capire che, data la nostra fragilità e inconsistenza, questa libertà ce la sogniamo se non siamo disponibili a questo percorso. Per questo non è l’eroicità del protagonista che ci interessa, perché non è eroicità, ma è semplicemente l’esito di un legame più forte di qualsiasi altra cosa. Tutta la seconda lezione degli Esercizi descrive il cammino di certezza che occorre fare perché si generi un soggetto che testimoni cosa voglia dire essere cristiani in una società come la nostra. Per questo, la Scuola di comunità e il lavoro sugli Esercizi sono la strada da percorrere, anche e soprattutto nell’estate che per definizione è il tempo libero, quando ciascuno in fondo può fare quello che vuole, può decidere come usare il tempo: possiamo avere la possibilità di verificare, quando possiamo decidere liberamente l’uso del tempo, a che cosa diamo il tempo e l’energia. Un secondo libro è: Il miracolo dell’ospitalità. Questo libro di don Giussani (recentemente rieditato) raccoglie i dialoghi da lui fatti con l’associazione Famiglie per l’Accoglienza. 8 È utile per tutti leggerlo perché possiamo vedere come l’ospitalità sia una testimonianza della natura del cristianesimo. È il comunicarsi di un “pieno” sul quale la vita poggia. Urgenza Terremoto in Emilia e Lombardia. Tanti amici ci chiedono come aiutare le persone colpite dal terremoto. Sul sito della Compagnia delle Opere è pubblicata una bacheca, aggiornata con l’elenco delle segnalazioni più urgenti e con le informazioni per la raccolta fondi. In particolare, la CdO in Emilia è a disposizione per mettere direttamente in contatto chi ha la disponibilità di roulottes e/o camper e le famiglie che ne hanno bisogno. Veni Sancte Spiritus Buona estate a tutti!