martedì 31 dicembre 2013

Omelia di don Carlo Venturin -“FRATERNITA’, FONDAMENTO E VIA PER LA PACE” 01/01/2014

Ottava del Natale – 01/01/2014

Nm 6, 22-27       “Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”
Salmo 67             “Dio ci benedica con la luce del suo volto”
Fil 2, 5-11             “Un nome al di sopra di ogni altro nome”
Lc 2, 18-21           “Gli fu messo nome Gesù ( DIO SALVA )”

FRATERNITA’, FONDAMENTO E VIA PER LA PACE”
( Papa Francesco )


Nel mistero del Dio incarnato (il BAMBINO), Dio abita i nostri occhi, perché sappiano guardare con bontà e con profondità; abita le nostre parole, perché abbiano luce; abita le nostre mani, perché si aprano a dare pace, ad asciugare lacrime, a spezzare ingiustizie      (cfr. E. Ronchi).

Una nuova carovana di giorni si presenta a noi oggi, con nubi oscure, che vediamo levarsi sopra le nostre teste: occorre non lasciarsi afferrare dalla paura, ma mettersi fiduciosi nelle mani del Padre, come la Madonna di Giovanni Bellini, che tiene il BAMBINO, con lo sguardo rivolto al visitatore   (vedi foglietto), cioè noi: “Come bimbo svezzato in braccio a sua mamma”. Il compito è confrontare ogni realtà con la PAROLA compresa e cercare il filo sottile che unisce in un’unica trama e dà senso a ogni impegno, gravoso o leggero, penoso o gioioso. L’inizio d’anno ci raccoglie assonnati, frastornati, pensosi, magari rassegnati, con giorni che seguono giorni identici ai precedenti, un franare verso il basso, senza un barlume di cambiamento. I bilanci consuntivi e preventivi non prospettano elementi di serenità. Confrontarsi con la PAROLA per i credenti nel BAMBINO significa porsi su un altro piano: i nostri occhi abbiano la luce di Dio.

Questo giorno d’inizio anno ha molteplici significati civili e religiosi. Veniamo inondati di promesse, di bilanci, di fantomatici miglioramenti: basterebbe confrontare le prospettive dello scorso anno, le speranze disattese, il “fumo negli occhi”; Dio si è reso BAMBINO per abitare tra noi, nella storia quotidiana; desidera che guardiamo il mondo con il suo sguardo di innamorato delle sue creature, anche le più miserevoli (soprattutto gli ULTIMI), sguardo che emana “grazia”, che diffonde “pace”.

Da molti anni la Chiesa, per iniziativa di Paolo VI, dedica questa giornata alla PACE. A ogni inizio il Papa rivolge il messaggio sia alla Chiesa, sia al mondo intero (“Pace in terra alle persone che egli ama”). Il messaggio diventi filigrana per il correre dei giorni, preghiera, azione, mediazione nelle contese, perché il mondo crei le condizioni per la solidarietà e la fratellanza. A fronte della “globalizzazione dell’indifferenza”, Papa Francesco richiama la domanda rivolta a Caino: “Dov’è tuo fratello?”; la sua risposta echeggia tanti nostri comportamenti e parole: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Poi la Bibbia conclude: “Caino si allontanò dal Signore” (Gen 4, 16).
Il BAMBINO da adulto afferma: “Voi siete tutti fratelli” (Mt 23, 8), perché vi è un solo Padre.

Il Papa richiama alcune conseguenze: “La fraternità, fondamento e via per la pace”. “La fraternità, premessa per sconfiggere la povertà”. “La riscoperta della fraternità nell’economia” (consumo e guadagno oltre ogni logica di una sana economia). “La fraternità spegne la guerra”, i conflitti che si consumano nell’indifferenza generale. Nelson Mandela, per vincere odi e vendette, costituì la “commissione per la verità e la riconciliazione”. “La corruzione e il crimine organizzato avversano la fraternità, che mietono ogni giorno milioni di uomini e donne, bambini e inermi, “rubando loro il futuro”. Infine: “La fraternità aiuta a custodire e a coltivare la natura”, che siamo chiamati ad amministrare responsabilmente. “Invece siamo spesso guidati dall’avidità, dalla superbia del dominare, del possedere, del manipolare, dello sfruttare; non custodiamo la natura, non la rispettiamo, non la consideriamo come un dono gratuito, di cui avere cura e da mettere a servizio di fratelli e sorelle, comprese le future generazioni”. Il Papa nel suo messaggio ha davanti agli occhi tre isole italiane: il carcere minorile di Roma, Lampedusa, la Sardegna; isole di dolore e di privazione di fraternità (si pensi a cosa succede nelle carceri e nei C.I.E.). A Cagliari disse: “La speranza non è di uno, la speranza la facciamo tutti”. A Lampedusa: “Cercavano un posto migliore per sé e le loro famiglie”. Ai detenuti disse “Non lasciatevi rubare la speranza”. Fratellanza non significa “dobbiamo essere più buoni”, sarebbe troppo superficiale. Fratellanza è prima di tutto simpatia, azione e scommessa del discernimento, è un dire: Le cose stanno così? Ne prendo atto e vado oltre, vincendo paure e consuetudini, individualismo e indifferenza.

Concludo , parafrasando la prima lettura:
Dio ti benedica”; bene-dire = dire bene sulla vita degli altri e sulla storia.
E ti custodisca”: la nostra paura del domani si rimpicciolisce, se siamo certi di essere nelle mani di Dio.
Faccia brillare il suo volto”: Dio ci guarda sorridendo, non è adirato mai, perché misericordioso.
Ti conceda grazia”: ti colmi di tutti i suoi doni, come con Maria.
Rivolga a te il suo volto”. Un volto alla ricerca, perché vuole relazionarsi con noi.
E stabilisca su di te PACE”. Il suo sorriso su tutto il creato, il suo porre per sempre PACE.



Irrompe il silenzio e una domanda muta ritorna


Milano, dicembre - In questo pomeriggio dell’ultima domenica dell’anno i figli sono usciti, il marito è via, e io sono sola nella casa d’improvviso silenziosa. Fa sottilmente paura il silenzio, registro fra me – tentata di accendere la tv, solo per riempire la stanza di rumore.
  Invece me ne resto sul divano, immobile. Alla mia destra e alla mia sinistra i gatti paiono montare la guardia; sul tappeto il
 cane dorme.
  Allora mi lascio andare al silenzio. Per qualche istante davvero non sento il minimo suono, ed è strano, è come stare a occhi aperti nel buio. Come tuffarsi in un mare. Ma dopo pochi secondi l’udito si affina e avverto, dal corridoio, il sordo laborioso ronzio della lavatrice che gira. Mi conforta: quasi che in quel lavorio la casa si mostrasse, nel silenzio, viva.
  Tendo l’orecchio a cogliere i rumori che normalmente non sento. Oltre il cortile, il correre di un autobus nelle strade deserte. Lontano, l’abbaiare di un cane. E il rombo di
 un aereo, stranamente basso sulla città. Una persiana che sbatte, con un colpo secco.
  Dal quartiere attorno, nulla: non furgoni in sosta a motore acceso nella fretta di una consegna, non eco di lavori in corso, di pale, trapani, martelli. Milano così muta mi smarrisce; quasi che il frastuono del fare, dell’andare, del
 correre fosse della città la voce.
  Qui in casa, le fusa dei gatti, felici nella insolita pace. Ci vorrebbe, mi dico, un camino: lo schiocco delle scintille in un camino sarebbe già una voce con cui discorrere (come scoprendo, in un’ora appena di silenzio, che siamo inesorabilmente tesi ad altro da noi. O, come scrisse il poeta
 Holderlin, che «noi siamo un colloquio»).
  Il gioco di questa solitaria domenica mi affascina.
  Oltre ai flebili rumori della casa, è quasi una domanda quella che mi sento addosso: muta, paziente, fedele. Come se,
 nel silenzio, dal fondo di un pozzo interiore sorgesse una voce, cui normalmente non bado. Mi viene in mente un monastero in cui passai una volta la notte: quel vasto mare di silenzio di cui non avrei saputo dire se mi spaventava o affascinava.
  Dalla portineria l’ascensore si mette in moto con un singhiozzo metallico. Dall’appartamento di sopra, dei passi. Voci, una porta che sbatte, una tv che viene accesa. Stanno tornando tutti. L’enclave di silenzio si scioglie. Peccato, mi dico con stupore: come se mi fossi affacciata su un orizzonte ignoto, e me ne restasse addosso una confusa nostalgia.
 Marina Corradi

FINE ANNO: I GRAZIE E LE STORIE DA DIRE -ALLENIAMO GLI OCCHI


Il mondo greco per indicare ciò che oggi chia­miamo tempo usava due parole:chronos e 
  kairos .
 Per il tempo-chronos il giorno di San Silvestro è un giorno come gli altri. Per il tem­po- kairos, invece, le ore e gli anni sono diver­si: il giorno in cui è morto Nelson Mandela (il 5 di­cembre), o quello in cui è stato eletto Papa France­sco (il 13 marzo) sono stati giorni di qualità diversa, che hanno inciso la tavoletta piatta del tempo. Ch­ronos è quantità omogenea, kairos qualità e diver­sità – qualcosa di analogo alla differenza che c’è tra spazio e luogo. La dinamica chronos-kairos ritma il tempo della nostra vita quotidiana. La nascita dei fi­gli, i lutti, i lavori trovati e persi, colorano e vivifica­no i numeri del calendario. Questo 2013 è stato un anno più lungo, di certo, per coloro che hanno sofferto di più, e tra questi tanti di­soccupati, troppi giovani. Ci siamo svegliati brusca­mente, e ci siamo accorti che non abbiamo perso mi­lioni di posti di lavoro per i sub-prime americani o per lo spread, o che non è colpa dell’Europa se i nostri giovani non hanno più buon lavoro. Abbiamo capito che dovremmo rialzarci con le nostre forze, ma non ce la facciamo ancora per una grave carestia di capi­tali morali. Il mondo è cambiato veramente, non lo ca­piamo più, e soffriamo tutti per «mancanza di pen­siero » (Paolo VI). Stiamo soffrendo le doglie del parto. Sta nascendo qualcosa di nuovo, ma ancora non ce ne accorgiamo. E si soffre anche perché non riuscia­mo, collettivamente, a vedere un bambino dentro il travaglio. E quando non si intravvede un bambino, non si vede salvezza, è fatica senza premio, manca la gioia. Dovremmo allenare gli occhi a vedere più lon­tano e diversamente, e scorgere in mezzo a noi e den­tro di noi i luoghi e le persone dove stanno avvenen­do cose nuove, scoprire dove stanno 'nascendo i bam­bini'. E reimparare a dire grazie – una parola da ri­scoprire nella sua radice charis .
 
 Il 31 dicembre è soprattutto il giorno del ringrazia­mento, anche civile. L’esercizio del grazie e della virtù della gratitudine è importante sempre, ma è essenziale in ogni esodo attraverso un deserto. Il grazie, soprat­tutto se è serio e costoso, è una risorsa straordinaria per continuare a sperare e a camminare. Sono molte le persone da ringraziare oggi. Voglio iniziare dagli im­prenditori. Quelli che continuano a rischiare risorse, energie, talenti, per salvare lavoro, e vanno avanti no­nostante tutto. A quegli imprenditori che costruisco­no benessere e pagano le tasse: ce ne sono tanti, an­che se non se ne parla e nessuno li ringrazia. Quando un imprenditore decide di pagare le tasse sa che, in un mondo ad alta evasione come il nostro, sta pa­gando molto di più di quanto sarebbe giusto ed equo pagare. Sa di pagarle anche per i suoi 'colleghi' che hanno posto la loro sede fiscale a Montecarlo, ma u­sano gli stessi beni pubblici. Tanti, di fronte allo spettacolo di questa ingiustizia si incattiviscono e iniziano ad evadere. Altri imprendi­tori, lavoratori e cittadini, si indignano, e come e più di tutti chiedono giustizia. Ma non si incanagliscono e vanno avanti. E non solo per ottemperare all’obbli­go fiscale: sanno di fare anche un dono. E il dono va ringraziato. Se non ci fossero questi «pochi giusti» (che così pochi, poi, non sono) la città si sarebbe già auto­distrutta. Un grazie doloroso, che diventa anche 'scu­sa', deve poi arrivare a quegli imprenditori che non ce l’hanno fatta e hanno dovuto chiudere l’impresa, lasciando a casa tanti lavoratori, in mezzo a grandi sofferenze e angosce (ne conosco molti). «L’uomo non è il suo errore», ho letto in una comunità di Don Ore­ste Benzi. «L’imprenditore non è il fallimento della sua impresa», si può sempre ricominciare.
  Grazie poi ai tanti accompagnatori e accompagna­trici dei poveri e dei soli, che con la forza dell’agape curano le disperazioni. Ai tanti amministratori pub­blici onesti, che non mollano quando avrebbero molte ragioni per farlo. Alle maestre e agli insegnanti, che in una scuola ferita, impoverita e disprezzata continuano ad amare i nostri figli. Infine – ma do­vremmo continuare a lungo – grazie alle famiglie, al­le madri e ai padri, e ancora di più agli anziani, che continuano a rammendare la
 fides, quella fede e quella corda che ancora ci tiene assieme. Ram­mendano il tessuto sociale e ci rammentano le no­stre radici e le nostre storie. Nelle «Mille e una notte», Sharazad per non morire non doveva smettere di raccontare storie. Se oggi voglia­mo vivere e far vivere dobbiamo raccontarci più sto­rie di vita vera, trovare insieme nuove ragioni di spe­ranza non vana, e ripeterci continuamente l’un l’al­tro 'non mollare'. E non smettere di ringraziare.
Tanti auguri  a tutti per un felice e prospero anno nuovo

lunedì 30 dicembre 2013

Aforisma di lunedì 30 dicembre 2013

"Sii sempre in guerra con i tuoi vizi, in pace con i tuoi vicini, e lascia che ogni nuovo anno ti trovi un uomo migliore.”
Benjamin Franklin

Il Papa nomina mons. Galantino segretario generale della Cei ad interim


Il Consiglio permanente della Cei
Il Papa ha nominato segretario generale della Conferenza episcopale italiana ad interim mons. Nunzio Galantino, vescovo di Cassano all'Jonio. 
“La nomina di mons. Galantino a nuovo segretario generale della Cei – spiega il direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi - si è resa urgente per il funzionamento ordinario della Segreteria Generale e per tutta una serie di adempimenti che ne richiedono la presenza”. “Mons. Galantino  ha tutte le facoltà del segretario generale, ma per ora non è stato stabilito quanto durerà il suo mandato; dovrà trasferirsi a Roma per buona parte della settimana, ma al momento rimane vescovo di Cassano all’Jonio". 
Contestualmente alla nomina, il Papa ha inviato una lettera «Ai sacerdoti, Consacrati e fedeli della Diocesi di Cassano all’Jonio», ai quali dice: «Non ho ancora avuto il piacere di conoscervi di persona, ma spero di poterlo fare presto. Forse vi risulta strano che vi scriva, ma lo faccio per chiedervi aiuto. Mi spiego. Per una missione importante nella Chiesa italiana, ho bisogno che Mons. Galantino venga a Roma almeno per un periodo. So quanto voi amate il vostro Vescovo e so che non vi farà piacere che vi venga tolto, e vi capisco. Per questo ho voluto scrivervi direttamente come chiedendo il permesso. Egli sicuramente preferisce rimanere con voi, perché vi ama tanto. L’affetto è reciproco, e vi confesso che vedere questo amore filiale e paterno del popolo e del vescovo mi commuove e mi fa rendere grazie a Dio. Chiederò a Mons. Galantino che, almeno per un certo tempo, pur stando a Roma, viaggi regolarmente alcuni giorni per continuare ad accompagnarvi nel cammino di fede. Vi domando, per favore, di comprendermi… e di perdonarmi. Pregate per me perché ne ho bisogno, e io vi prometto di pregare per voi».
 Il Papa augura a tutti felice tempo di Natale e chiede preghiere: “Vi domando di comprendermi e di perdonarmi. Pregate per me perchè ne ho bisogno, e io vi prometto di pregare per voi”. 
Galantino con Bagnasco
In una dichiarazione il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, definisce la nomina “un segno ulteriore dell’attenzione e della cura del Santo Padre per la Chiesa che è in Italia”. “Sono certo - conclude il porporato - che mons. Galantino darà un contributo qualificato al servizio dei vescovi nel quotidiano impegno per l’evangelizzazione”. Il presule cassanese prenderà il posto di mons. Mariano Crociata, il quale, dopo aver espletato due mandati come segretario della Cei, è stato nominato vescovo della diocesi di Latina. Mons. Nunzio Galantino è nato a Cerignola (Foggia) il 16 agosto 1948, ed è stato nominato vescovo il 9 dicembre 2011. Il presule definisce il suo nuovo compito una"bella e impegnativa avvenitura in una Chiesa e per una Chiesa che amo".


 

Editoriale Scalfari. P. Lombardi: il Papa non ha abolito il peccato

Nel suo editoriale di ieri sulla Repubblica, Eugenio Scalfari è tornato a dedicare attenzione al magistero di Papa Francesco. In particolare, l’ex direttore del quotidiano sostiene che, nella recente esortazione apostolica Evangelii Gaudium, il Papa abbia inteso abolire il peccato. Il direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi, si sofferma con un commento sulle affermazioni di Scalfari
scalfari_ratzinger
http://www.repubblica.it/politica/2013/12/29/news/la_rivoluzione_di_francesco_ha_abolito_il_peccato-74697884/

R. – Anzitutto, vorrei dire che il fatto che Scalfari abbia dedicato di nuovo un lungo editoriale a Papa Francesco e al suo insegnamento è un segno della grande attenzione che lui, ma oltre a lui, l’intero mondo laico, sta dedicando al Papa. E questo è certamente un segno positivo anche di un dialogo con il mondo laico, che il Papa ha saputo avviare. Per quanto riguarda, però, alcuni contenuti di questo articolo, è giusto fare qualche considerazione, anzitutto su questa affermazione che il Papa abbia abolito il peccato. Certamente, non è pertinente, anzi chi segue veramente il Papa giorno per giorno sa quante volte egli parli del peccato, parli della nostra condizione di peccatori e, anzi, proprio il messaggio della misericordia di Dio, che Scalfari mette in rilievo, e che è fondamentale, e che certamente il Papa ha messo al centro del suo annuncio del Vangelo, si capisce tanto più profondamente quanto più si comprende la realtà del peccato. Papa Francesco è un gesuita e vorrei ricordare che gli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio, che certamente sono stati anche per lui scuola di spiritualità e di vita cristiana, cominciano proprio con la prima settimana dedicata alla meditazione dei peccati – dei peccati nel mondo e dei peccati personali – e le meditazioni si concludono con un meraviglioso colloquio in cui ci si mette di fronte a Gesù Crocifisso, ricordando che da Creatore è venuto a farsi uomo ed è venuto alla morte per morire per i nostri peccati, per i miei peccati. E io, di fronte a Gesù Crocifisso, comprendendo la profondità della grazia che io peccatore ho ricevuto, mi interrogo su cosa ho fatto per Cristo, su cosa faccio per Cristo e che cosa devo fare per Lui. Quindi, la dinamica spirituale fondamentale, in cui anche il Papa si pone, è la consapevolezza dei peccati e il domandarne perdono; vedere la grandezza infinita della misericordia di Dio e così lanciarci nella vita cristiana, rinnovata dalla misericordia e dall’esperienza dell’amore di Dio. Se uno elimina il peccato, il messaggio della misericordia non si comprende più.

D. – In un altro passaggio del suo articolo Scalfari fa riferimento alla conversazione avuta con Papa Francesco e, in particolare, ad una risposta da lui ricevuta circa la capacità umana di pensare Dio una volta estinta la vita sulla Terra. Risposta che, a suo dire, sarebbe stata “la divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti”...

R. – Ecco, anche qui si vede come la cultura umanistica, la riflessione di Scalfari non si trovi sempre a suo agio in campo biblico-teologico, perché qui evidentemente si tratta del fraintendimento di una risposta che il Papa gli aveva dato nel colloquio, in cui proprio alla domanda sulla fine della realtà di questo mondo, il Papa faceva riferimento al capitolo 15 della prima Lettera ai Corinzi, versetto 28, che è un luogo molto famoso della Scrittura, in cui si parla delle ultime realtà e in cui si dice che “Dio sarà tutto in tutti”. Quando tutto sarà stato sottomesso a Dio Padre dal Figlio, allora Dio sarà tutto in tutti. E questo diventa invece, nella lettura di Scalfari, una realtà invece di tipo panteistico. Egli scrive: “La divinità sarà in tutte le anime e tutto sarà in tutti”. Questo certamente non è quanto la Scrittura ha in mente, né il Papa aveva in mente. Un’altra inesattezza evidente in questo articolo è che Scalfari dice che il Papa ha canonizzato Sant’Ignazio di Loyola e, invece, come tutti sappiamo, nei giorni scorsi ha canonizzato Pietro Favre, che era il primo compagno di Sant’Ignazio di Loyola e Ignazio di Loyola era già Santo della Chiesa da diversi secoli. Quindi, credo che bisogna stare attenti a continuare un dialogo, ma ad approfondirlo in modo tale che non ci siano degli equivoci e ci si capisca veramente.
 http://it.radiovaticana.va

Il destino dei nipoti

 
Le procedure dei vecchi privilegiano i ricordi. E i ricordi sono un bene: ma guai se diventano il bene. Magari col corollario del mala tempora currunt: delle lagne sul disastroso deterioramento dei tempi. Ma noi siamo chiamati a vivere proprio questi tempi difficili, non altri: a viverli sino in fondo e con tutto l’amore di cui siamo capaci; se no la nostra unica partita è perduta, si riducono in cenere i più cari ricordi. Di poche cose sono convinto come di questa (anche se poi la botte dà il vino che ha: e spesso il vino con gli anni inacidisce). Ma sono pure certo che senza un po’ di memoria non si capisce nulla, non si combina nulla di buono (né di nuovo) e si vive male. Forse un significativo connotato dell’epoca attuale, che a me sembra povera e confusa, è l’abiura della memoria: per disamore. Non ci ingannino i ricorrenti revival: sono mode indotte dal mercato e destinate a sparire senza lasciare traccia, cedendo il posto ad altre simili – similmente dispersive e vane. La memoria è vera quando aiuta a trovare il senso dell’oggi: niente nasce per partenogenesi e qualsiasi fatto è figlio d’un intrico di fatti precedenti. Ciò che ci sta realmente a cuore, il fragile destino dei figli e dei nipoti, non si governa fuori dalla storia. Perché va governato: e tutto il resto conta meno. 

domenica 29 dicembre 2013

La conversione di Alessandro Manzoni

I Promessi Sposi
 Un percorso di rilettura de I promessi sposi, opera che non è soltanto il romanzo più importante che sia stato scritto nella nostra letteratura, ma che rappresenta in forma concreta e incarnata il genio del cristianesimo. Eppure, il romanzo più importante vanta anche il record negativo di essere il meno amato dai giovani che si trovano a leggerlo in un’età forse sbagliata, troppo prematura. Bisogna anche dire che probabilmente gli insegnanti assegnano la lettura dei capitoli a casa più che accompagnare i ragazzi con spiegazioni che introducano alla comprensione e alla bellezza dell’opera.
A scuola è più facile che gli studenti di quinta sappiano ripetere i commenti di critici illustri sul romanzo o il loro giudizio sulla provvidenza manzoniana piuttosto che sappiano dire semplicemente come Manzoni concluda il romanzo. Fate una verifica immediata. Se avete figli che studiano alle superiori, al biennio (ove andrebbero letti I promessi sposi in forma integrale o quasi) o al triennio (almeno un mese è solitamente dedicato allo studio del grande scrittore lombardo), oppure anche alle medie inferiori, chiedete loro che cosa sia la fede per Manzoni. Oppure, in forma più semplice, come si concluda il romanzo? O quale sia il «sugo della storia», per utilizzare l’espressione che l’autore pone al termine dell’opera? Oppure chiedetevi voi lettori, che avete studiato, vi siete diplomati o laureati, se abbiate mai affrontato la conclusione dei Promessi sposi, se vi abbiano mai letto a scuola le ultime quattro pagine del romanzo, quelle che seguono il matrimonio di Renzo e Lucia. Sarebbe interessante condurre una statistica al riguardo tra tutti quanti affermano di aver studiato il romanzo più importante della letteratura italiana. Nel mio piccolo ho condotto una statistica in questi quindici anni di insegnamento al triennio delle superiori (tre in istituti professionali e ben dodici in Licei classici e scientifici). Non mi risulta difficile calcolare la percentuale, perché posso con certezza affermare che ancora nessuno studente, quando mi accingo ad affrontare Manzoni al triennio e chiedo la conclusione del romanzo (che dovrebbe aver già letto al biennio), sia riuscito nell’impresa! Quindi, tra gli studenti che arrivano all’ultimo anno della scuola superiore, nessuno (0 per cento) conosce la conclusione.
Le risposte che più si sono avvicinate, per la verità, sono state queste: il romanzo prosegue per poco e Renzo e Lucia hanno dei figli oppure i due protagonisti non sono così contenti. Tutto qui? Vi sembra possibile che in un anno di scuola il docente non abbia un’ora di tempo per raccontare quanto Manzoni abbia voluto dirci? È un’omissione voluta o casuale? Per approfondire un aspetto della realtà è importante metterlo in relazione con il suo significato, con il senso, quello che Manzoni chiama «il sugo della storia». Il nostro autore, cattolico e realista, non ha voluto scrivere una favola a lieto fine, come potrebbe a taluni sembrare, né tantomeno ha voluto scrivere un’opera moralista. Entrambe le interpretazioni sono una deliberata riduzione della genialità del cristianesimo che emerge dalla lettura del romanzo.
Sui Promessi sposi si è scritto davvero tanto. A riguardo del romanzo e del suo autore Eco ha commentato recentemente: «Il signor Alessandro sembra amare molto i poveretti, ma certo non sa proprio come aiutarli a far valere i loro diritti. E siccome, per l’appunto, era un cristiano assai fervente, tutti hanno detto che la sua morale era che bisogna rassegnarsi e sperare solo nella Provvidenza». Mi chiedo io che cosa abbia compreso realmente l’illustre semiologo e romanziere su I promessi sposi e sull’autore lombardo, colui che è considerato il padre della lingua italiana insieme al grande Dante, che visse fino alla veneranda età di ottantotto anni tanto da essere considerato per decenni poeta vate e riferimento vivente dei valori cristiani da una parte e risorgimentali dall’altra, divenne senatore a vita e fu coinvolto nelle commissioni per l’unificazione linguistica dell’Italia dopo l’unificazione politica.
Nato nel 1785, figlio di Giulia Beccaria e di Pietro Manzoni, Alessandro ha come nonno l’illustre illuminista milanese Cesare Beccaria, l’autore de I delitti e delle pene. Si può dire, a ragion veduta, che Manzoni ha l’Illuminismo nel sangue e nella cultura con cui si forma nei primi decenni. È opinione diffusa che il vero padre di Alessandro sia Giovanni Verri (fratello minore dei più famosi Pietro e Alessandro), con cui Giulia ha una relazione. Ben presto Pietro Manzoni si separa dalla ben più giovane moglie e a soli sei anni Alessandro si ritrova a studiare in collegio, prima dai Padri Barnabiti, poi dai Somaschi. Si forma, così, una cultura illuministica moderna, all’insegna dei filosofi e letterati francesi, e, per contrasto con l’ambiente cattolico in cui studia, cresce anticlericale allontanandosi sempre più dalla chiesa cattolica e dalla fede.
A vent’anni Manzoni si trasferisce a Parigi per incontrare la madre e il nuovo compagno di lei Carlo Imbonati. La trova, però, in lutto per l’avvenuta scomparsa dell’amato compagno. Manzoni comporrà la sua poesia neoclassica più celebre, il carme «In morte di Carlo Imbonati». Ben chiaro è già nel giovane che la ricerca della verità deve essere la bussola che guidi i suoi passi. Nel componimento il defunto Carlo Imbonati lascia ad Alessandro una sorta di testamento spirituale: «Sentir […] e meditar: di poco/ esser contento: da la meta mai/ non torcer gli occhi: conservar la mano/ pura e la mente: de le umane cose/ tanto sperimentar, quanto ti basti/ per non curarle: non ti far mai servo:/ non far tregua coi vili: il santo Vero/ mai non tradir: né proferir mai verbo,/ che plauda al vizio, o la virtù derida».
L’incontro prima con Enrichetta Blondel, che sposerà sia civilmente che con rito calvinista l’8 febbraio del 1808, e poi con il padre spirituale Eustachio Degola porterà Manzoni ad un cammino di fede e alla conversione al cattolicesimo, di cui la celebrazione del matrimonio per la seconda volta, ora con rito cattolico, il 15 febbraio del 1810, potrebbe già essere un chiaro segno. Manzoni sarà sempre refrattario a parlare della sua conversione. L’aneddotica riduce questo cammino lungo, durato qualche anno, al celebre episodio accaduto nella chiesa di San Rocco a Parigi. Durante il matrimonio di Napoleone (2 aprile del 1810) la moglie sviene, Manzoni si perde e in una crisi di agorafobia si rifugia in chiesa a pregare. Ne esce convertito e ritrova la moglie. Ermes Visconti, uno degli amici più intimi di Manzoni, comprende che il cammino di fede di Alessandro è adombrato nella vicenda centrale dei Promessi sposi, la conversione dell’Innominato.
Quasi concomitante alla conversione religiosa di Manzoni è quella letteraria. Nel 1809 lo scrittore lombardo abbandona definitivamente il Neoclassicismo per il Romanticismo. Ha composto in quegli anni «Il trionfo della libertà», «L’Adda», «In morte di Carlo Imbonati». Ora scrive: «Comporrò forse versi più brutti, ma mai così menzogneri». L’abbandono del Neoclassicismo è nel nome della verità. Miti pagani, e leggende classiche lasciano il posto alla produzione cristiana, di cui sono emblematici gli «Inni sacri». Inizia, così, la stagione più prolifica della vita di Manzoni. Giovanni Fighera

Pino Suriano: Te Deum laudamus per questi eroi “normali” e coraggiosi

papa-francesco-benedetto-xvi il Te Deum di Pino Suriano.
tempi_te_deum_2013_copertinaGennaio. C’era una volta un pastore, una vita trascorsa a pascolare bestiame in Val d’Ossola, non sposato e senza figli, aveva solo i suoi animali e la montagna. Poi, all’improvviso, una malattia renale e il tormento delle dialisi, finché, un giorno, arriva finalmente il suo turno per un trapianto di rene. Lui cosa fa? «Sono solo, non ho famiglia. Lascio il mio posto a chi ha più bisogno di me, a chi ha figli», rivelerà il parroco al funerale. Oggi, da qualche parte d’Italia o del mondo, un uomo festeggia il nuovo anno sorridendo con suo figlio. Il suo rene, la sua vita, il suo sorriso sono il dono di quel vecchio pastore scomparso a gennaio, Walter Bevilacqua. Te Deum, perché la grandezza, spesso, esonda nei cuori dei semplici.
Febbraio. Un uomo compiva gesti di infinita tenerezza, ma tanti vedevano in lui solo forza e freddezza. Poi, un giorno di febbraio, tutti dissero che aveva fatto un gesto di debolezza. Era, invece, un gesto di incredibile forza. Te Deum per il coraggio, immenso, di papa Benedetto XVI.
Marzo. In giro c’è un uomo che ogni giorno stupisce, spiazza, telefona, accoglie, abbraccia, rivoluziona. Tutto questo perché ama. Ha sempre qualcosa di bello da dare o da dire agli altri. Di sé, invece, ha detto di essere “un peccatore”. Lo hanno, lo abbiamo, lo hai chiamato dall’altra parte del mondo. Te Deum per il dono, ogni giorno più sorprendente, di papa Francesco. Te Deum per il suo sorriso.
Aprile. Venti anni prima aveva ucciso i genitori di Laura e Nadia. Erano anche i suoi genitori. Poi furono anni di carcere e solitudine, anni di niente, solo l’angosciosa tristezza di chi si è perso. Eppure lì, tra quelle mura, un sacerdote lo ha guardato da uomo. Quello sguardo, nel tempo, è diventato anche il loro. Il 15 aprile Pietro Maso è uscito dal carcere dopo ventidue anni in cella. Ad attenderlo e abbracciarlo c’erano Laura e Nadia, le sue sorelle. Te Deum per la bellezza scandalosa del perdono.
Giulio AndreottiMaggio. Era sempre stato in vetta. I suoi avversari man mano cadevano; lui, se cadeva, cadeva in piedi. Fu uomo di potere, compromessi, sotterfugi, accordi, processi. Tra tutte queste cose, ogni giorno, lo spazio per una costante: Tu. Gli hai dato il coraggio e l’ironia; gli hai dato il male e la forza di sopportarlo; hai permesso che tanti lo giudicassero, ma gli hai dato anche la certezza su quale fosse, alla fine, il giudizio che conta. Uomo in apparenza di ghiaccio, lo hai ripreso a primavera. Te Deum per la vita, spericolata ma innamorata, di Giulio Andreotti.
Giugno. C’era un uomo al quale avevi donato la forza e il vigore del corpo, la vibrazione dell’istante, la gioia del gol. Poi, un giorno, gli hai fatto conoscere la debolezza e l’infermità. E lui? Lui ti ha dato tutto, tutto di quel poco che gli avevi lasciato. Ha continuato ad amare la vita, la famiglia. È stato capace di «trasformare il veleno della malattia in medicina per gli altri» (Roberto Baggio). È tornato a Te il 27 giugno. Te Deum per la vita, sempre “in attacco”, di Stefano Borgonovo.
Luglio. Aveva quindici anni, scriveva i suoi pensieri in un blog di libertà sperata in terra pakistana. Un giorno tornava dalla sua amata scuola sul bus degli studenti; quel giorno i talebani l’hanno presa e le hanno sparato. Non l’hanno uccisa. Il 12 luglio, giorno del suo sedicesimo compleanno, davanti all’Assemblea Generale Onu ha urlato al mondo il suo amore per la scuola, un amore che forse noi non riusciamo più a capire: «Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo». Te Deum per l’esempio, ingenuo e tenero, di Malala Yousafzai, candidata al premio Nobel per la Pace. Te Deum per il miracolo dell’educazione.
Agosto. Fabio Paladino era un avvocato con un figlio piccolo e la moglie in attesa. L’11 agosto sulla spiaggia di Palinuro c’era la bandiera rossa, segnale di pericolo. Circa dieci persone, però, erano in acqua e rischiavano di annegare. Lui si è tuffato per salvare quelle vite e c’è riuscito, ma non ha salvato la sua, travolta dalle onde. Ora c’è un bimbo che a Capodanno non potrà sorridere con il suo papà, ma da grande sentirà la gioia e l’orgoglio di esserne figlio. Te Deum per l’istinto meraviglioso che ci hai messo in corpo.
pietro-barcellona-archivio-meeting-riminiSettembre. È stato filosofo e parlamentare del Pci. Ha creduto in Marx, nel popolo, nella lotta di classe, poi, caduto tutto, ha scoperto l’abisso del nichilismo. Troppa cultura, troppo studio per poter credere anche in Gesù. Non ci ha mai creduto infatti: semplicemente, alla fine, lo ha incontrato. «Solo la presenza del divino nell’umano può gettare un ponte tra la nostra dolorosa finitezza e la gioiosa giostra delle galassie e delle stelle». Lo hai preso con Te il 6 settembre. Te Deum per la vita e la rivoluzione – l’ultima, quella vera – di Pietro Barcellona.
Ottobre. Il 29 agosto del 1989 Gianfranco Barbato è un uomo di 36 anni di Vigonza. Quel giorno un tragico incidente gli cambia la vita: gli restano un letto e uno stato vegetativo permanente che dura ventiquattro anni. Per i primi venti anni si prende cura di lui mamma Antonietta. Lui, però, le sopravvive per quattro anni, sempre inchiodato a quel letto. Gianfranco muore il 2 ottobre di quest’anno, a 61 anni. A piangere, davanti a quel letto, c’è Giuseppe Barbato, suo padre. Per gli ultimi quattro anni è stato lui a prendersene cura. Giuseppe, per la cronaca, è un uomo di 85 anni. Te Deum per la forza che non abbiamo e che ci dai.
Novembre. La crisi dell’euro prima, la vicenda Priebke poi hanno fatto riaffiorare un pregiudizio antigermanico mai abbastanza sopito. Poi, in Sardegna, arriva l’alluvione. Un’anziana di Olbia rischia di morire annegata nella sua casa. Per questa vecchietta è pronta a morire una donna di 35 anni, che per fortuna salva se stessa, l’anziana e anche il suo cane. Si chiama Martina Feick, ha 35 anni, è tedesca. Te Deum, perché con i fatti Tu squarci i pregiudizi.
Dicembre. Samunder Singh ha accoltellato e ucciso una suora cattolica in India. Sembra incredibile, ma la famiglia di quella donna lo ha pubblicamente perdonato e lo ha accolto – pazzesco – come un membro della famiglia. La madre di lei è giunta addirittura a baciarlo. Adesso un uomo si è commosso per questa storia e ha chiesto di poterlo abbracciare: si chiama papa Francesco. Te Deum, perché rendi possibile l’impossibile.

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Marina Corradi: Te Deum laudamus per quelle foto nelle cornici d’argento

marina-corradi-figli-foto il Te Deum di Marina Corradi.
Il presepe lo abbiamo fatto da soli i ragazzi e io quest’anno, mio marito è da due mesi in ospedale. E tornerà, certo, ma intanto io scopro come è dura essere, ogni mattina, sola. E il Te Deum di quest’anno, dunque? mi domando stasera.
Di fronte a me su una libreria in soggiorno si allineano nelle cornici le foto di famiglia. Il mio sguardo ci si posa sopra e, come catturato, si ferma. Sulle facce dei figli, da bambini. Quello lì, biondo come un pulcino e pallido, è il primo, a tre anni. Ogni volta che guardo quella foto, mi meraviglio; perché è uguale a suo padre, ma certo l’espressione degli occhi è la mia. (Come se i figli davvero imparassero a guardare il mondo attraverso lo sguardo della madre, come mi disse un giorno un vecchio frate a San Giovanni Rotondo). Lo sguardo di Pietro è lievemente malinconico, quasi perplesso, come di un piccolo alieno che si domandi su quale pianeta è mai atterrato. Sguardo di pensieroso bambino che osserva due genitori amorosi, e però come smarriti. Fisso quegli occhi scuri e risento la voce di mio figlio a tre anni, dal seggiolino sui sedili posteriori dell’auto, al mare, in Toscana. Mi piaceva girare per le campagne e andare a caso là dove la strada mi portava, e poi non sapevo più tornare, e agli incroci mi fermavo, esitante. Il bambino, alle spalle, educatamente inquieto: «Ci siamo pelsi di nuovo?». Sì, c’eravamo persi di nuovo, ma poi in qualche modo ritrovavo ogni volta la strada di casa.
tempi_te_deum_2013_copertinaLa foto accanto è del secondo, bruno come un saraceno: seminudo sul lettone, a un anno e mezzo. Aria gioviale, espressione da vincitore, nessun dubbio: il pianeta su cui è atterrato, è quello giusto. Guance abbondanti, da buona forchetta (quando si scolava d’un fiato il biberon e poi mi guardava, perplesso: già finito?). E in fondo agli occhi già affiorante una certezza, quasi un orgoglio: la vita è una sfida buona, e vi accorgerete di chi sono, io…
Poi, la bambina, a un anno, mentre gattona nell’erba del giardino dei nonni. Sguardo curioso e fiero, come di un cucciolo di gatto che a stento si regga sulle zampe, ma già si avventuri, cacciatore, nella giungla del cortile. Bella: negli occhi grandi, nella piega capricciosa della bocca. Un accenno di gentile insolenza: quale pianeta sia non importa, io sarò, comunque, una regina.
E dunque stasera i tre mi guardano, e per un momento la malinconia mi tenta (quei tre, sussurra, piccoli così non esistono più, non torneranno più).
Eppure no, non li abbiamo perduti. Il primo, è vero, lo si incrocia raramente per casa, e si esprime a tenebrosi monosillabi, però sembra sapere cosa fare. La strada, quella che io al mare perdevo sempre, se la è trovata grazie a un prete cui sarò riconoscente per sempre (don Giorgio Pontiggia, voglio ricordarne il nome). E ora silenzioso e metodico Pietro procede, forte della compagnia di alcuni grandi amici.
Il secondo ha mantenuto lo sguardo trionfante e lieto della foto sul lettone. Anche lui si vede poco, ha sempre un sacco di cose da fare e il suo cellulare ronza continuamente come un alveare. Berni alza gli occhi dal tomo delle memorie di Churchill che sta leggendo, scorre i messaggi, sorride, torna a leggere. A volte minaccia che gli piacerebbe entrare in politica (costernazione della madre. E stupore, però, che un diciottenne oggi pensi alla politica come a una cosa utile e buona). Intanto, comunque, la strada la fa lui a noi, con quel sorriso solare, come la memoria certa di un destino di bene; lui il primo, ogni mattina, che in auto verso scuola attacca l’Ave Maria. Per quanto stanchi o preoccupati si sia, lui come un carro armato, nel traffico delle sette del mattino: «Ave Maria…», e noi lo seguiamo, grati.
E la piccola? Per me è la vita in persona. Sempre lieta, in perpetuo movimento, femminile in ogni fibra, costantemente sfarfalla tra una festa («non ho niente da mettermi», geme davanti all’armadio, con la stessa bocca capricciosa della foto a un anno) e una mostra che deve «assolutamente» vedere. Lei, che entra in casa come una folata di vento di marzo, quel giovane vento che arruffa e accarezza le cose che nascono, nuove. Lei, che la domenica mattina quando si alza canta, e la sua voce chiara colma la casa.
Allora le fotografie nelle cornici d’argento si fanno un luogo vivo di memoria e gratitudine. Grazie per loro, dal fondo di questo aspro dicembre. E benché mio marito e io, guardandoci, sappiamo che né l’uno né l’altro ha ancora ben capito su che pianeta è atterrato, questi tre, stranamente, lo sanno.
Grazie: e questo esercizio di ricordare e dire grazie è importante, perché, come ha insegnato Benedetto XVI un anno fa, «la memoria si fa speranza». Come il popolo ebraico ricordando il deserto e la fuga sul Mar Rosso vedeva la sua storia e intuiva un disegno e un destino, ed era grato, così ogni uomo ha una storia, e, per quanto povero sia, una madre che lo ha messo al mondo, e Dio, che lo ha voluto.
Per me i figli sono prova concreta, la certezza del bene – nonostante io fossi quella delle strade incerte. Quelle facce, quegli occhi – mentre stasera dalla cucina arrivano le voci e le risate di una tavolata di figli e amici – testimoniano un bene grande ricevuto. In virtù di questo bene, è ragionevole sperare. Grazie allora, mille volte grazie, per quei tre figli donati.
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