lunedì 16 dicembre 2013

Perché solo Cristo può davvero “nutrire il pianeta”. Così Scola affronta e ribalta i temi di Expo 2015

Il Discorso alla Città del cardinal Scola
Ecco un principe della Chiesa che mette pacatamente la cultura dominante davanti alle sue contraddizioni ed espone se stesso alle critiche della gente che conta. Ecco un pastore e un intellettuale che mostra quanto possa essere fecondo il connubio fede & ragione. Con notevole anticipo sui tempi, il cardinale Angelo Scola ha deciso di dedicare il tradizionale discorso arcivescovile di sant’Ambrogio ai temi che saranno trattati nella prossima edizione dell’Expo, che si svolgerà a Milano nel 2015. Il titolo del prossimo appuntamento della più importante esposizione universale è “Nutrire il pianeta – Energia per la vita”. L’occasione per una riflessione dell’arcivescovo di Milano che oltrepassa le 90 mila battute, raccolta in un volumetto di 98 pagine dove risponde alla domanda che si è scelto come titolo, echeggiante quello dell’Expo: Cosa nutre la vita? – Expo 2015.
Ci vuole un bel coraggio, in tempi di crisi economica in Italia e in Europa e con le statistiche degli affamati nel mondo che indicano in 870 milioni il numero dei denutriti sul pianeta, a rilanciare con convinzione le parole di Cristo nel vangelo secondo Luca («Non di solo pane vivrà l’uomo») e in quello di Giovanni («Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno»). Ci vuole una certa audacia per puntualizzare che la Bibbia non può essere accusata di antropocentrismo per quello che si trova scritto nel libro della Genesi («Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate su ogni essere vivente») e incolpata dei conseguenti sfruttamento e inquinamento del pianeta, per il semplice motivo che la Bibbia è… teocentrica.
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Bisogna essere qualcuno che non ha paura di volare alto e di esporsi alle doppiette, di entrare nel cuore delle questioni più delicate, per non limitarsi a un generico appello alla ridistribuzione della produzione alimentare e alla giustizia sociale. Per Scola la sicurezza alimentare non potrà mai essere raggiunta se non ci si ispira a una corretta “ecologia umana”, se non si recupera la “grammatica dell’umano”, se i nuovi stili di vita non si ispireranno alla “convivialità” e non saranno “integrali”, se non ci si propone un “nuovo umanesimo”, se l’obiettivo del cibo per tutti non è finalizzato alla “vita buona”.
Scola ha colto l’opportunità rappresentata dal tema del bisogno alimentare, centrale nell’Expo che Milano ospiterà, per una riflessione sulla natura profonda del bisogno umano. Riflessione condotta sulla base della ragione, laicissima, ricca di citazioni di Aristotele, Hegel e Adam Smith, oltre che di Benedetto XVI e papa Francesco.
Nel discorso non mancano i riferimenti ai temi che animano il dibattito sulla disponibilità di cibo e sullo scandalo della fame nel mondo: gli aiuti alimentari, la “sovranità alimentare”, le “piante geneticamente modificate”, la speculazione finanziaria che ha pesato sulla crisi di tre anni fa. Ma è la lunga dissertazione sulla natura del bisogno umano che risulta decisiva per ribadire l’attualità della proposta cristiana nelle sue valenze politiche e sociali. Non di solo pane vive l’uomo, ma se si vuole avere il pane per tutti non si può fare a meno di accogliere l’antropologia cristiana e di convertirsi agli stili di vita che ad essa si ispirano.
Bisogno, una condizione strutturale
Di cosa sia fatto il bisogno umano è detto soprattutto nel capitolo quarto, “Un nuovo sguardo sull’uomo”. Qui Scola critica «questa riduzione del cibo a merce, a mero bene di consumo da fruire individualmente, (che) appiattisce lo spessore umano del bisogno primario di alimentarsi, un bisogno che è invece sempre intrecciato con una domanda di legame, di ospitalità, di convivialità. Solo se si capisce che la decisiva posta in gioco è antropologica avrà senso compiuto il richiamo alla solidarietà e alla cooperazione internazionale, e a tutte le altre necessarie strategie economiche e politiche di redistribuzione. Altrimenti queste resterebbero pie intenzioni».
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E qual è questa antropologia che eviterebbe la completa mercificazione del cibo, con le conseguenze egoistiche che ne derivano (speculazione, indifferenza verso chi soffre la fame)? Quella di chi capisce che la sua condizione di bisogno è strutturale e non è risolta da una quantità di beni, ma dalla qualità delle relazioni. «Troppo spesso interpretato come diritto esclusivo al benessere, il bisogno è invece anzitutto espressione di fragilità e di mancanza. In caso contrario il bisogno si trasforma in pretesa e diventa sorgente di dominio. Infatti, l’esperienza della fragilità non si risolve mediante una dilatazione indefinita del consumo: niente di quel che consumiamo è in grado di rimediare la strutturale “mancanza” (bisogno) che caratterizza il modo umano di essere al mondo. Pretendere l’appagamento totale attraverso il moltiplicarsi indefinito dei consumi è un mito tecnocratico, che tuttavia continua ad essere riproposto. È infatti chiaro che la pretesa di ricorrere al consumo indiscriminato ha un costo umano, oltre che ambientale, di incalcolabile portata, che sempre meno può condurre all’appagamento e alla felicità, neppure a quella dei pochi che ancora ne beneficiano. In proposito Papa Francesco, nella Evangelii gaudium, ha parole molto forti: “Si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza. Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri… La cultura del benessere ci anestetizza”».
La logica del dono di sé
Che la risposta al bisogno necessiti più della qualità che della quantità lo vediamo dai modi con cui l’uomo cerca di rispondervi: «Del bisogno di cibarsi l’uomo fa un’arte culinaria, del bisogno di vestirsi fa uno stile d’abbigliamento e di relazione sociale, del bisogno di ripararsi fa un sapere architettonico e un modo di trasformazione dell’ambiente… eccetera. Questo rivela che l’uomo, in rapporto a specifiche situazioni di bisogno, non risponde mai solo con reazioni preordinate, ma è sempre, in qualche misura, teso al “superamento”, al “progetto”, sia mediante il lavoro, sia mediante l’attribuzione di significati culturali a ciò che egli stesso compie».
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Insomma, nell’uomo il bisogno tracima sempre, in un modo o nell’altro, in desiderio. Che è molto di più. «Il proprio dell’uomo si manifesta come facoltà di porsi, col desiderio appunto, al di là dell’ordine stesso dei bisogni, puntando a una condizione in cui tra l’essere nel bisogno e l’elaborazione dei bisogni vi sia un’ideale armonia… ciò che muove l’uomo (e solo l’uomo) nell’affrontare i suoi bisogni è l’ideale. La tensione, cioè, a vivere in un modo equilibrato, integrato, giusto, pacifico». È a questo punto che Scola ripropone le drammatiche parole di Cristo: «“Non di solo pane vivrà l’uomo” (Lc 4,4). Di che vive allora? La risposta di Gesù è la sua Eucaristia, il dono totale di sé: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo” (Mt 26,26). Il pane che l’uomo desidera è Dio stesso che si offre in dono. Solo così egli può essere definitivamente saziato. I cristiani, partecipando ogni domenica all’Eucaristia, sono introdotti nella logica del dono come legge della vita. L’esistenza umana acquista allora una forma eucaristica, il culto umanamente conveniente (Rm 12,1)».
Il bisogno umano è intessuto di un desiderio più grande, nel cristianesimo la risposta al desiderio è Dio che si dona all’uomo attraverso Cristo. La conseguenza sociale e politica è che i cristiani «sono introdotti nella logica del dono come legge della vita». Cioè non si preoccupano semplicemente di risposte materiali a bisogni materiali, ma di far diventare, attraverso il dono di sé, ogni interazione umana una vera relazione. «L’uomo è un essere originariamente relazionale, è un io-in-relazione», insiste Scola. E oppone Aristotele e persino Adam Smith a Thomas Hobbes: i primi due hanno compreso la natura relazionale della soddisfazione dei bisogni e del bene, contro la visione individualista ed egoista dell’ultimo.
E ancora meglio l’ha capita il tremendo Hegel, che l’ha identificata con l’umano desiderio di riconoscimento: «L’appagamento dei bisogni umani vitali non ha senso se non passa attraverso il più fondamentale desiderio di essere riconosciuti: l’attesa fondamentale di un uomo è infatti quella di valere qualcosa per qualcuno. Senza questo riconoscimento del proprio valore umano, dice Hegel, l’uomo non diventa soggetto, ma rischia di accontentarsi di vivere come un animale… il riconoscimento tra uomini è un bene primario. Non un bene tra gli altri, uno tra i contenuti buoni che possono favorire il fiorire dell’esistenza umana, bensì quel bene che è condizione di possibilità d’ogni altro bene umano in quanto umano».
Presentazidone del volume "Cosa nutre la vita?"
Stili di vita che permettano di superare l’individualismo con le sue conseguenze politico-economiche e ambientali distruttive derivano da questa antropologia. Perciò i cristiani debbono avere il coraggio di proporre ai loro simili, credenti e non credenti, lo stile di vita di Cristo, ovvero lo stile della “creatura nuova in Cristo”. Con la testimonianza e l’educazione, rispettando la libertà. E avendo sempre presente che i nuovi stili di vita o sono integrali, o sono una truffa; devono riferirsi a «tutti gli aspetti dell’umana esistenza: a partire da quelli costitutivi dell’io, anche quelli legati alla sfera degli affetti e, quindi, del matrimonio e della vita, che chiede di essere rispettata dal concepimento fino al termine naturale, per giungere, passando dal lavoro e dal riposo, alle componenti che hanno a che fare con la fragilità e il dolore, con la giustizia, con il conflitto sociale, con la pace, col sistema economico e con il rapporto col cosmo. (…) Non si è uomini compiuti se si lavora per la sostenibilità, per il bilancio di giustizia, per le banche etiche, per il bilancio sociale delle imprese e dei comuni e non si protegge, nello stesso tempo, la vita più debole e più indifesa o non si promuovono i corpi intermedi – autentiche ricchezze della società civile – a cominciare dalla famiglia».
Una novità nel mondo
A questo punto ci aspetterebbe una qualche digressione volta a spiegare l’inscindibile legame fra bioetica e giustizia sociale. E invece no. Scola richiama le origini benedettine della crescita economica dell’Europa, ricaduta materiale dell’azione di uomini che prima di tutto cercavano Dio, e quindi spiega perché oggi sia diventato praticamente impossibile far capire il senso di stili di vita integrali, cioè «la duplice ed insuperabile dimensione personale e sociale» della vita buona. Il problema è l’unità del soggetto che è andata in frantumi. Non si può nemmeno più parlare di esperienza umana, perché è diventato problematico il soggetto di tale esperienza. «La difficoltà maggiore è oggi interna all’identità vissuta dei soggetti concreti. E questo a livello della stessa grammatica dell’umano, in cui sono in gioco le leggi dell’esperienza, la capacità di fare esperienza e anche di far fare esperienza ad altri, e quindi di comunicare esperienza, di produrre socialità, di generare vita comune. Si pensi alla difficoltà contemporanea di comporre condotte razionali e vita affettiva; istanze di etica pubblica (uguaglianza, solidarietà, giustizia…) ed ethos privato (che sfocia sempre più in un individualismo possessivo e in un tenace narcisismo…); aperture globali ed egoismi locali; desiderio di dialogo e settarismi; pretese di verità tecno-scientifica con cui governare il mondo e scetticismo di fondo sull’idea stessa di verità… È questa probabilmente l’eredità più insidiosa dell’intero processo della secolarizzazione moderna nel suo esito anti-umanista. (…) Da qui certe posizioni dure dell’umanesimo esclusivo del nostro tempo, che spesso nascondono la pretesa di ricostruire il mondo con soggetti irrisolti ed in profonda crisi con se stessi».
Il venire meno dell’unità del soggetto fa temere un mondo dominato dalla tecnocrazia: «Senza ripensare l’uomo, senza riproporsi la questione della grammatica dell’umano, l’unico sapere e saper fare di cui l’uomo contemporaneo si sente certo è quello tecno-scientifico. A livello della gestione su grande scala questo significa primato dell’economico-finanziario, della rete e della comunicazione, della biopolitica, cioè primato delle grandi leve di un regime tecnocratico. In esso i criteri del potere tecnico condizionano tutti gli altri (politici, sociali, etici, culturali, religiosi) e prevalgono su di essi, privandoli della risorsa prima e indispensabile di un soggetto umano capace di mettere in discussione anzitutto se stesso».
A questo punto Scola propone per la seconda volta l’antropologia cristiana come risposta ai problemi del nostro tempo. «La Chiesa pensa umilmente di custodire da secoli i tratti essenziali di una grammatica dell’umano, non per sua capacità e merito, ma per l’evento di quella suprema rivelazione dell’uomo che è Gesù Cristo. (…) La fede consiste nell’accogliere e nello stare in rapporto con Dio che si manifesta nel modo più umano possibile, quello di un incontro che diventa benefica relazione personale e comunitaria. E siccome l’uomo vive di relazioni, in particolare di quelle da cui si attende accoglienza e riconoscimento, la fede offre una relazione assolutamente affidabile e buona. (…) Il cambiamento che il cristianesimo porta nel mondo ha origine nella relazione con il Figlio di Dio e si espande nel rinnovamento di tutti i rapporti e nell’essenziale beneficio (in termini caritatevoli e culturali, personali e istituzionali), che questo comporta per la vita della città dell’uomo».
Un intervento di questa portata sarà certamente silenziato o manipolato. Il Corriere della Sera è riuscito a farne una sintesi espungendo Gesù Cristo dal discorso. Un arcivescovo che si espone riproponendo la valenza politica del cristianesimo dà prova di coraggio. E soprattutto di fede. La sincerità dell’amore per Cristo di chi si dice cristiano è dimostrata da chi si espone come ha fatto Scola, mosso dalla compassione per la condizione degli uomini del nostro tempo.


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