lunedì 23 dicembre 2013

Che cosa insegna il Recanatese all'uomo di oggi

Leopardi sul letto di morte  Leopardi
In un mondo in cui sembrano dominare l’homo oeconomicus, che pensa a soddisfare i suoi bisogni e i piaceri, e l’homo technologicus, che provvede a fare e a realizzare sempre meglio, Leopardi riporta in primo piano l’unico uomo che sia veramente tale, che non sia bestia e gregge. Quell’homo religiosus con le sue domande sulla vita e sul destino, che permangono oggi come un tempo con tutta la loro urgenza di risposta e che riecheggiano con potenza nei versi del Canto notturno quando il poeta si rivolge alla Luna: «Ove tende/ Questo vagar mio breve,/ Il tuo corso immortale? […] Che fa l’aria infinita, e quel profondo/ Infinito sereno?[…] E io che sono?».
Nella società dove comandano i bisogni Leopardi chiarisce il vero e originario desiderio dell’uomo (di felicità, di amore e di bellezza) e ci parla di un cuore che è capacità di Infinito, proprio come se fosse un contenitore che non può mai essere colmato da beni terreni finiti.
Ciò che occorre davvero al lettore di Leopardi è un cuore aperto e che domandi la vita. Solo un cuore che palpiti e che percepisca l’abisso di vita che provava Leopardi può cogliere il vero valore della sua opera. Leopardi, come pochi altri, riesce a ricordarci la vera statura dell’uomo e la grandezza del suo desiderio.
Leopardi ha intuito che per l’uomo l’unica e autentica possibilità di letizia è quella di incontrare la bellezza con la «b» maiuscola, cioè l’Ideale. Lo abbiamo visto nella poesia «Alla sua donna», affrontata da noi all’inizio del percorso. L’unica speranza è quella di percorrere un sentiero nuovo, diverso da quelli fino ad allora percorsi e di incontrarla, così come spesso Leopardi sperava da giovane. Questa bellezza è quanto di più grande l’uomo possa immaginare in terra: è la Bellezza con la «b» maiuscola, l’Ideale. Se qualcuno la amasse, la sua vita sarebbe più felice, sarebbe come quella che nel cielo «india», cioè porta a Dio; se l’amasse, l’uomo cercherebbe la virtù, la bontà. Leopardi sembra avvertire l’urgenza di Dio e lo invoca, lo sfida a epifanizzarsi: è un grido umanissimo (perché Dio non ti riveli?) che si tramuta in preghiera  o in invocazione (Dio rivelati).
Potremmo allora chiederci quale fosse il rapporto di Leopardi con il cristianesimo. Ad un certo punto della sua vita il poeta afferma che le sue idee si completano con il cristianesimo, che può spiegare quella parte della «natura delle cose» che nel suo sistema resta «oscura e difficile», ad esempio l’origine dell’uomo e la facilità dell’uomo a decadere e a «perdere il suo stato primitivo»  (peccato originale). Chiunque leggesse queste pagine della miscellanea del Recanatese rimarrebbe stupito nel cogliere come lo scrittore, ad un certo punto della sua vita, avvertisse l’estrema ragionevolezza del cristianesimo, la sua capacità di fornire ragioni adeguate ai perché dell’esistenza e al Mistero delle cose. «Il Cristianesimo spiega chiaramente perché la ragione e il sapere corruttori dell’uomo siano in lui così facili a prevalere, giacché attribuisce la cagione originale e radicale della corruzione al peccato, il quale introdusse lo squilibrio fra la ragione sua e la natura sua […]. Ora, secondo lo stesso Cristianesimo, era certamente meglio che l’uomo non peccasse: ed  egli sarebbe rimasto più perfetto e più buono non peccando, e non corrompendosi, e questo gli era destinato primordialmente. Eppure Iddio permise che peccasse». Per Leopardi il cristianesimo rimane un fatto intellettuale, il Recanatese ne coglie la ragionevolezza, ma il giudizio della ragione non è supportato dalla efficacia della affettività e dell’esperienza. Leopardi, così, prenderà ben presto le distanze da quel  cristianesimo della madre per cui sarebbe meglio non vivere che peccare.
Di questo allontanamento e delle ragioni abbiamo testimonianza già nel settembre del 1821 nella prosa dello Zibaldone: «Il Cristiano fugge il mondo per non peccare in se stesso o contro se stesso, cioè contro Dio […]. Che vantaggio può venire alla società, e come può ella sussistere, se l’individuo perfetto non deve far altro che fuggir le cose per non peccare? Impiegar la vita in preservarsi dalla vita? Altrettanto varrebbe il non vivere. La vita viene ad essere come un male, come una colpa, come una cosa dannosa, di cui bisogna usare il meno che si possa, compiangendo la necessità di usarne, e desiderando esserne presto sgravato».
Invece, non è un ragionamento, ma un incontro che decide dell’esistenza: un affetto e un abbraccio, non un discorso o una morale! Già qualche anno prima Leopardi scriveva nello Zibaldone: «La perfezione della ragione consiste in conoscere la sua propria insufficienza a felicitarci». E poi: «La ragione non può essere perfetta se non è relativa all’altra vita (è la ragione al suo apice che si apre alla fede, spalanca la sua finestra sul Mistero) [...]. Un ritorno della ragione, non ragionato, ma solamente volontario, non può esser che vano, instabile e passeggero, come quello de’ moderni filosofi sensibili, che, cercando a più potere di riprendere le illusioni perdute, ci riescono, al più, momentaneamente, e del resto passano la vita nella freddezza, indifferenza e morte. Dopo la cognizione pertanto, non possiamo tornare alle illusioni, cioè ripersuadercene, se non conoscendo che son vere. Ma non son vere se non rispetto a Dio e a un’altra vita (tutto è effimero e passeggero a meno che non sia salvato da qualcosa di infinito, da Qualcuno che promette che ogni capello del nostro capo è contato ed è salvato). Rispetto a Dio ch’è la virtù, la bellezza ecc. personificata (qui sta parlando della cara beltà del canto «Alla sua donna»), la virtù sostanza e non fantasma […]. Rispetto a un’altra vita, dove la speranza sarà realizzata, la virtù e l’eroismo premiato, […] dove insomma le illusioni non saranno più illusioni ma realtà. Dunque la perfezion della ragione (tanto rispetto a questa come all’altra vita, perché ho mostrato che la perfezione rispetto a questa vita dipende dalla perfezione rispetto all’altra) consiste formalmente nella cognizione di un altro mondo. In questa cognizione dunque consiste la perfezione e quindi  la felicità dell’uomo corrotto. Dunque l’uomo corrotto non poteva essere perfezionato né felicitato se non dalla rivelazione, ossia dalla Religione».
E ancora: «L’esperienza conferma che l’uomo qual è ridotto, non può essere felice sodamente e durevolmente (quanto può esserlo quaggiù) se non in uno stato (ma veramente) religioso, cioè che dia un corpo e una verità alle illusioni, senza le quali non c’è felicità, ma ch’essendo conosciute dalla ragione, non possono più parer vere all’uomo, come paiono agli altri viventi, se non per la relazione e il fondamento e la realtà che si suppongono avere in un’altra vita». Ciò che dà consistenza alle cose è solo la persuasione di un’altra vita»; «dunque bisogna che la religione ci persuada». Leopardi afferma che occorre una fede ragionevole, ben fondata sulla ragione, che conosca le ragioni adeguate per cui avere fiducia, bisogna sapere perché credere. Molte sono le domande che sorgono da questi estratti dello Zibaldone: come avere quella cognizione dell’altro mondo di cui parla il poeta? Come essere persuasi e credere  davvero?
Non può essere un discorso a persuaderci, non può essere un ragionamento, deve accadere Qualcosa di cui poter fare esperienza. Nella vastissima produzione del Recanatese, però, non ci imbattiamo mai nella lettura di testi che ci testimonino l’avventura dell’incontro. Esso è solo sospirato, vagheggiato come in un sogno oppure descritto come qualcosa che sta per accadere come nel «Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez».
Se Leopardi si sia aperto alla conversione in punto di morte rimane un mistero insondabile, ma credibile. Nella Chiesa Annunziata a Fonseca di Napoli troviamo l’atto di morte che recita: «A 15 giugno 1837 Don Giacomo Leopardi conte figlio di Don Monaldo e Adelaide Antici, di anni 38, munito dei Santissimi Sacramenti, a' 14 detto mese, sepolto id. Deceduto Vico Pero n. 2». Non è possibile né opportuno sintetizzare qui ai fini del nostro discorso il dibattito aperto dagli studiosi sulla conclusione della vita di Leopardi.
 Giovanni Fighera

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