sabato 26 giugno 2010

Ritroviamo l’allegria del calcio E intanto giochiamo la partita vera

Siamo fuori dal Mondiale di calcio.

Ma speriamo almeno di non essere rimbambiti. Si può patire un’onta calcistica senza però rinscimunire, no? Tra giovedì sera e venerdì, a veder le prime pagine e le lenzuolate di parole mdandate in stampa e i titoloni dei servizi televisivi sembrava che una specie di ciclone o pestilenza si fosse abbattuta sul Paese. Si oscillava dall’uso di parole come «disfatta» ai titoli sparati come «disastro».

Ho visto parecchie imprecazioni «vergogna» e cose tipo «mai così male». Gli italiani sono grandi appassionati di calcio.

Lo amano, lo praticano come possono, e sono tifosi accesi.

Anch’io ero tra quelli in ginocchio davanti al video quando hanno annullato il goal (valido), e che hanno invocato il ritorno di Pirlo. Pur masticando amaro ero tra quelli che ci han creduto fino in fondo, e che provano un gran dispiacere perché non ci saranno con i propri figli e con gli amici altre occasioni per tifare e divertirsi davanti alla tv. Ma questa aria giornalistica da vittime di un tifone, da disastrati e svergognati riferita alle prestazioni di una squadra di calcio non è un gran bel segno.

Significa che la passione ha perso leggerezza e che in un momento in cui i media hanno una responsabilità delicata sui sentimenti e i moti sociali si usano le parole a vanvera, senza pensarci. Essere molto appassionati a una cosa come il calcio non dovrebbe impedire di soppesarne il valore essenziale. Che è lieve, allegro e relativo. Se smettiamo di prenderlo con la adeguata allegria e leggerezza diviene anch’esso un argomento plumbeo.

E davvero diventa la versione moderna di

panem et circenses . Quei sostantivi e quegli aggettivi così roboanti e gravi, così piattamente seriosi, così impettiti applicati non a uno delle tante vere «disfatte» della società e della cultura italiana ma a un torneo di pallone – per quanto mondiale e collegato a interessi e promozioni – fanno un effetto un po’ grottesco e un po’ amaro.

Non sono altre, forse, le cose per cui dovremmo ora provar vergogna? Non dovremmo gridare alla «disfatta», con più veemenza e con più insurrezionale pietà, davanti all’aumento della miseria, della difficoltà di lavorare, della crisi di natalità ormai sclerotizzata in uno zero che è peggio di qualsiasi pareggio calcistico, uno zero che ci elimina dalla storia e non da un torneo? Va bene la retorica giornalistica, la necessità del titolone. Ma se sono i giornalisti i primi a perdere il senso della misura, cioè proprio coloro che dovrebbero aiutare a comprendere il peso delle cose nella vita comune, allora si può davvero usare tutto, compreso il bel gioco del calcio, per confondere le menti. Il disastro Italia, la nostra eliminazione non si è giocata giovedì. Si sta giocando oggi. Giovedì è terminato un bel sogno, ed è finito l’orgoglio di sentirci campioni. Ci si può ridere sopra, anche. Ma ora dovrebbe restare in campo l’orgoglio di essere almeno passabili sotto il profilo della qualità della scuola, delle riforme, delle risposte alla necessità del lavoro, della capacità di governo comune dei processi, della lotta alla criminalità furba e alle rendite succhiasoldi. Oggi si sta giocando la partita decisiva. Chi fa finta di non saperlo e spreca aggettivi solo per quella di due giorni fa è doppiamente miope: non conosce più l’allegria, cioè il sapore vero del calcio, e dimostra di non avere la giusta tensione per la partita in cui ci stiamo davvero giocando tutto.
DAVIDE RONDONI

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