sabato 3 dicembre 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 30 novembre 2011



Testo di riferimento: Il senso religioso, capitolo XII, Rizzoli, Milano 2010, pp. 167-173.
• L’uomo cattivo
• Amazing grace
Il capitolo su cui abbiamo lavorato è: «L’avventura dell’interpretazione». Ci siamo detti di guardare quale esperienza della libertà abbiamo fatto.

Da quando sono andato in pensione sto facendo la caritativa quasi a tempo pieno al Banco Alimentare. Sabato alla Colletta ho girato alcuni supermercati per raccogliere volti e voci della gente, poi al magazzino di Rho con i ragazzi del Clu, i detenuti, e un gruppo di profughi africani; tantissime storie di festa e di condivisione del donare. Tanto o poco, ma per tutti è stato possibile donare scatolette, tempo, amicizia. Una mamma ha festeggiato il compleanno portando alla Colletta gli amici; il vescovo di una grande città, in visita, si è
impossessato dei sacchetti e li ha distribuiti lui stesso nel negozio; i miei nipotini si sono impegnati a lungo a dividere le scatolette.
Per tutti una misura diversa, un impegno diverso nello stesso atto, e con l’intuizione, almeno, delle stesse ragioni. La mattina successiva un nostro amico, che come noi aveva fatto il volontario alla Colletta, è stato colpito da un’emorragia cerebrale; ora è in condizioni gravi all’ospedale. Tutti
preghiamo per lui e siamo con i suoi. Questo brusco passaggio, in poche ore mi
ha reso evidente due cose. Primo: la Colletta è certamente un’esperienza di
popolo, ma il modo di viverla fino in fondo non può che essere del tutto personale, secondo le regole (quindi il volantino, lo scatolone da fare bene, le etichette da attaccare) ma che diventano subito una spinta a vivere quest’occasione per me, per fare bene quello che mi chiedono, e nel giudicare come io rispondo, con che libertà io rispondo. Secondo: i conti del tuo essere di fronte al Mistero li fai davvero quando capisci che non ti è tolta la fatica e nemmeno il dolore, ma che puoi essere aiutato a interpretarlo, tu. Così le ragioni del rapporto con tua moglie, con i figli, con gli amici, non dipendono dall’umore, e l’esperienza della Colletta non si ferma al risultato tecnico. Solo così vale la pena spendersi per
la serenità in famiglia e per raccogliere più tonnellate di alimenti da mettere bene in ordine. Per questo ieri ho rinnovato la riconoscenza grande per la compagnia del movimento al cuore e alla ragione, che da anni ci educa a questa interpretazione (penso al giudizio sulla crisi e alla sottolineatura degli attuali gesti di caritativa). Ci troviamo così di fronte alla festa della Colletta o
al dolore della malattia da soli, entusiasmati o impauriti, ma sempre accerchiati dalle ragioni e dalla speranza. Così appaiono quasi identiche nei loro ambiti diversi, da un lato, le dieci righe del volantino della Colletta nelle quali quest’anno per la prima volta abbiamo messo il nome di Cristo, dall’altro, la
corona del Rosario recitato ogni pomeriggio per il nostro amico. È diversa la
provocazione della circostanza, ma il filo di ciò che incontri è identico. Vorrei dire, e lo dico con un certo tremore, che davvero nulla più mi può spaventare se
sono sempre presente a questa fedele e instancabile amicizia.

Grazie. Questo è l’aiuto che il Mistero presente in mezzo a noi ci offre per
educarci a un uso della ragione così spalancata. Chi avrebbe mai pensato che, attraverso un gesto di educazione alla carità,cioè a questo bisogno sterminato che noi siamo, avrebbe potuto sperimentare subito quanto questo serve per affrontare la malattia dell’amico. Quelli che proponiamo non sono gesti senza nessi; sono
per un’educazione a vivere le sfide della vita. E davanti a queste sfide ciascuno, poi, verifica se è stato ai gesti proposti in modo veramente personale, che non vuol dire in modo isolato, ma all’interno di un popolo.

Questa settimana ho provato a rispondere alla tua domanda su quando abbiamo fatto l’esperienza di essere liberi. E l’unico esempio che ho rintracciato è stato questo: un giorno al lavoro ho
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assistito un mio paziente che è stato molto male per tantissimo tempo, e mi
sono impegnata totalmente. A un certo punto, gli ultimi dieci minuti, entra in stanza una mia collega e non fa altro che passarmi una siringa; esce dalla stanza, si imbatte nei parenti e racconta loro brevemente come sono andate le cose, come sta, cosa abbiamo fatto. I parenti le hanno detto (a momenti si
inginocchiavano ai suoi piedi): «Ti ringraziamo tantissimo, sei una stella», e per tutta la mattina pendevano dalle sue labbra. Quando ho visto questa scena sono rimasta agghiacciata, ho pensato: ho speso tutta la mattina io con questo paziente, arriva lei gli ultimi dieci minuti e si prende tutti i meriti. Sono rimasta veramente malissimo. Nelle ore che sono passate da lì alla fine del turno ero incattivita, ero diventata acida con la realtà tutta, tant’è che a un certo punto la mia collega mi ha
detto: «Ascolta, ma che cosa hai?». Fatto sta che timbro, esco, salgo in macchina, mi siedo e mi dico: «Qual è il problema?». Sono rimasta impressionata, perché mi sono detta: il problema è che io ho bisogno di essere affermata, gratificata, riconosciuta. Ripercorrendo – in pochi istanti – quello che era avvenuto quella mattina, sono arrivata a dire: nella mia esperienza che cosa mi fa sentire affermata, voluta, gratificata? Ecco, mentre avevo questi pensieri, solo il fatto di porre
questo giudizio su quali sono i momenti in cui veramente faccio esperienza di essere affermata, voluta e gratificata, mi ha aperto un mondo, mi ha rispalancato la vita. In un istante io sono cambiata, tant’è che mi sentivo di nuovo me stessa, dopo una mattina in cui quasi non mi
riconoscevo. Credo che questo abbia a che fare con quello che ci dicevi la volta scorsa sulla vera natura della ragione, che è apertura alla totalità. Ho dovuto – potevo trascinarmi così, ma era insopportabile, io non mi sopportavo già più! – arrivare a dare questo giudizio, e il pormi queste domande immediatamente mi ha cambiato. Da questo episodio che cosa mi porto a casa? Che io per una mattina intera ho sperato che una goccia togliesse la sete, e quindi sono rimasta incattivita
– e quante volte io mi incattivisco, una marea; se penso alle mie giornate, sono costellate da esempi così –. Fino a che è arrivato un punto che mi ha liberato. E allora avrei una domanda. Don Giussani a pagina 170 fa l’esempio della penombra: oscurità senza senso oppure vestibolo della luce. E dice: «Questa diversità di posizione è esclusivamente una scelta». E più avanti: «L’uomo,
infatti, nella sua libertà afferma ciò che ha già deciso fin da una recondita partenza. La libertà non si dimostra tanto nella clamorosità delle scelte; ma la libertà si gioca nel primo sottilissimo crepuscolo dell’impatto della coscienza del mondo». Quando ho letto questa frase mi son detta: io ho bisogno di capire questa recondita partenza, perché se da essa dipende il fatto che io, tra l’altro, dica la verità, voglio proprio sapere che cos’è.

Volevo insistere su questo perché quello che racconti dice bene che razza di
novità è il lavoro che ci propone don Giussani. Tu sei rimasta incastrata per tutta la mattina perché non si era compiuto il tuo desiderio di essere affermata (peggio: il merito se l’era preso un’altra!). E questo ci blocca, come sappiamo, per ore o per settimane. Ma quello che colpisce davvero è che per uscire da questa situazione non le è dovuto succedere qualcosa di straordinario, non ha dovuto aspettare non so quale contro-fatto così potente da cambiarla rispetto al fatto della mattina al lavoro. No, semplicemente ha usato la ragione secondo la sua natura, e questo è molto più straordinario di qualsiasi altra cosa!
Perché? Perché Cristo è venuto per educarci in un modo tale che noi, usando così la ragione, possiamo uscire dal nostro essere incastrati in qualsiasi momento.
Questo è il vero dono che porta la fede: ridestare la nostra ragione e consentirci
di guardare il reale secondo la sua natura. Ed è questo che ci cambia, ci libera, non dobbiamo aspettare il pim-pam-pum delle circostanze, semplicemente succede. Quando? Quando comincio a essere me stesso, cioè quando io, non potendo sopportare una certa situazione, incomincio a brandire la ragione. E questo è il miracolo più grande: «Guarda che Io ti faccio nuovo, Io ti rendo diverso perché tu non devi aspettare non so che cosa. Se segui Me, questa esperienza di ragione e libertà potrà essere a portata di mano in qualsiasi circostanza».
Quando Giussani ci dice di non aspettarci un miracolo, ma un cammino, intende anche questo: che io ho sempre di più la possibilità di essere creatura nuova, con una conoscenza nuova del reale che non si blocca nella menzogna (perché è una menzogna credere che essere ringraziati dai parenti di un malato che accudisci risolva il problema dell’essere affermati). La vera rivoluzione è la generazione di un soggetto diverso che si pone nel reale diversamente. Con gli stessi ingredienti di
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tutti – ragione e libertà –, uno non vive più positivisticamente soffocando nel reale, bensì respira a pieni polmoni. E quando ci succede questo, siamo così
stupiti che non possiamo crederci, tanto non ci è familiare; perché – diciamocelo
– a noi è più familiare rimanere fermi per settimane fin quando si affievolisce l’arrabbiatura e poi sparisce, o fin quando succede qualcosa che ci sposta di nuovo.
Ma che io possa avere in mano lo strumento di una ripartenza, questo è quello che ha portato Cristo,ridestando così un soggetto in grado di vivere il reale diversamente.


Nel testo, appena dopo quello che abbiamo letto, don Giussani dice: «Ed ecco l’alternativa in cui l’uomo quasi insensibilmente si gioca: o tu vai di fronte alla realtà spalancato, con gli occhi sgranati di un bambino […] o ti metti di fronte alla realtà difendendoti, quasi con il gomito davanti al viso per evitare colpi sgraditi o inattesi». Rispetto a questo io volevo fare un esempio. Ieri mi è
capitato di imbattermi in una persona che nelle settimane precedenti mi aveva molto ferito, per cui mi sono messa subito in una posizione di difesa, con il gomito davanti agli occhi. Poi ho incontrato una persona di cui non sapevo nulla, che conoscevo a stento; ho dialogato a lungo con lei ed ero in una posizione di
totale apertura, con gli occhi sgranati, con la curiosità di conoscerla.
Ripensando a questi due fatti mi veniva da dire che l’assumere un
atteggiamento o l’altro, cioè che la mia libertà si muove in un senso o in
un altro, è anche conseguenza di un giudizio che io do sulle cose
che mi capitano, per cui il gomito davanti agli occhi era conseguenza di
un giudizio che io ho dato su dei fatti che sono successi. Però io non
voglio saltare, rileggendo questo pezzo di Giussani, il fatto che comunque
capisco che nell’esperienza non è tutto uguale, cioè che io capisco che se
le cose vanno in un modo per me è meglio che se vanno in un altro.
Tornando all’esempio di chi mi ha preceduto, se uno riconosce una cosa che
hai fatto è meglio che se non la riconosce. Però,ripensando ancora alla cosa
che mi era successa ieri, c’era qualcosa che non mi tornava, e quello
che non mi tornava era il fatto che io, pur consapevolmente in una posizione
di difesa giusta, non ero me stessa. Allora ho pensato che dovevo andare a riprendermi che cos’è la libertà e sono andata a rileggermi quello che Giussani dice nel capitolo ottavo de Il senso religioso sulla libertà,a pagina 120: «Ma non solo l’essere libero per un week-end, per una sera […] ma sempre; essere
libero-libero, cioè la libertà, non un momento di libertà […]. Il compimento totale di sé, questa è la libertà». Cioè: è vero che se succede una cosa piuttosto che un’altra questo mi dà una soddisfazione, quindi mi fa essere libero, però non libero-libero. E più avanti: «In un solo caso questo punto, che è l’uomo
singolo, è libero da tutto il mondo, è libero […]: se si suppone che quel
punto non sia totalmente costituito dalla biologia di suo padre e di sua
madre […], ma che sia diretto rapporto con l’infinito». Rileggendo questi
due punti io sono rimasta completamente folgorata, perché ho capito quello che
non mi tornava, cioè che è vero che la mia libertà si è mossa come conseguenza di
un giudizio, ma di un giudizio parziale, perché quello che dicevo di quella
persona non è tutto quello che quella persona è. Tornando al lavoro
stamattina, però, mi sono reimbattuta in quella persona, e mi sono ritrovata in una posizione di difesa, azzerando completamente tutto il percorso che ho fatto ieri. Quindi capisco che non do precedenza a questa definizione di libertà che Giussani insegna.

Questo è molto interessante, di nuovo, perché è vero che è un giudizio; ma il problema è: quando diciamo: «Libertà», che cosa stiamo dicendo? Se Giussani dice che soltanto in un caso l’uomo è libero, se è diretto rapporto con l’infinito, che cosa vuol dire? Se l’uomo è soltanto un pezzo del meccanismo delle circostanze, noi dipendiamo da come vanno le cose; quando qualcuno ci loda ci rallegriamo, e quando non lo fa affondiamo, come tutti. Che novità c’è in questo? Nessuna. Questo è la libertà? No, questa sarebbe una libertà a tempo: quando si compiono più o meno i nostri sogni,allora siamo liberi; e quando no, ci arrabbiamo. Ma – dice Giussani – quello che desideriamo come libertà, cioè come soddisfazione, non è soltanto per un momento, ma per sempre. Questo si vede quando ci troviamo davanti a uno da cui ci difendiamo, o quando qualcuno ci ferisce. La libertà è un bene molto scarso se dipendiamo, come tutti, dal flusso delle circostanze: quando le cose vanno bene, siamo contenti; quando le cose vanno male, affondiamo. Logico. Ma qui dice un’altra cosa, qui dice che la libertà è rapporto diretto con il Mistero! Allora quale errore occorre capire? Che non
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soltanto io guardo l’altro in modo parziale, ma io guardo prima di tutto me stesso in modo parziale!Perché se io mi rendo conto che sono rapporto con il Mistero, e che è questo che mi rende libero e che mi soddisfa, allora siccome ho già in anticipo questa soddisfazione, posso essere libero dal fatto che qualcuno mi conceda le briciole che cadono dal suo tavolo. Se io non sono a questo livello di libertà
come esperienza, dipendo come tutti dalle briciole; e allora parlare di libertà diventa patetico.
Per questo, o noi dipendiamo da Dio e allora siamo liberi da qualsiasi circostanza, o non dipendiamo da Dio e allora siamo schiavi di qualsiasi circostanza. Senza questo rapporto unico con il Mistero, che è l’unico che soddisfa veramente, la libertà non c’è. E allora anche se abbiamo capito il giorno prima, il giorno dopo ci troviamo con la stessa chiusura, sulla difensiva, perché soltanto
un’esperienza di soddisfazione mi potrebbe dare una partenza diversa. Mi viene in mente spesso in questo periodo la tenerezza di Gesù quando i discepoli tornano dalla missione a cui li ha mandati; erano tutti “gasati”: un successo grande, perfino i demòni erano stati battuti, scacciati via. E Gesù li guarda, trapassando il loro umano: «Ma amici, non rallegratevi per questo, perché questo non vi servirà per alzarvi domani mattina [non è che avessero rubato o che fossero stati in discoteca, no, erano andati in missione per conto Suo!]. Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nel Cielo, cioè perché siete stati scelti, perché partecipate con Me in quel rapporto che è l’unico che soddisfa». Ma siccome non capiamo questo – che siamo stati scelti –, allora dipendiamo dalle briciole del successo. Che esperienza doveva fare Gesù per poter dire: «Guardate che il vero dono,
che il vero bene, che quello che veramente corrisponde è il fatto di essere Miei,
di essere stati scelti»! Eppure per noi sono come le parole di un sapiente che dice cose sagge, non riusciamo neanche a capirne la portata di sguardo, uno sguardo che ha più verità sull’uomo di migliaia di libri in una biblioteca! Senza questo noi non possiamo avere quell’esperienza di libertà che ci rende veramente diversi, aperti, anche quando uno ci ha trattato male, perché noi non dipendiamo da
quello. Non dev’essere una reazione, la nostra; la nostra è una partenza originale! Perché siamo più bravi? No, perché questa partenza tutta gratuita dipende dal rapporto che Cristo ha con il nostro nulla (proprio perché non siamo all’altezza). Perché noi possiamo avere questa partenza tutta spalancata, diversa? Ricordate quel che abbiamo detto il 26 gennaio: noi stiamo facendo questo
percorso dall’interno della fede. Allora facciamo il test: l’esperienza del cristianesimo che facciamo ci rende davvero liberi e aperti al reale? O è come se non fosse successo niente e ci troviamo davanti al reale come tutti? Siamo con gli occhi sgranati, come Giovanni e Andrea, o no? Perché tutta la ragione è lì. E questo ci fa rendere conto che il percorso che stiamo facendo è la cosa più conveniente, perché pian piano farà diventare familiare in noi questa esperienza come modalità di
stare abitualmente nel reale. A proposito di questo voglio aggiungere una cosa leggendo una lettera:«Mi colpisce che don Giussani, da una parte, dice che la natura della ragione costringe la ragione stessa ad ammettere l’esistenza di qualcosa, di un quid. Ma se la ragione è costretta a riconoscere, perché occorre la libertà?». Sembrerebbe che si tratti di qualcosa che, per la dinamica stessa della
ragione, fa fuori la libertà. Ma don Giussani dice: il mondo dimostra qualcosa d’Altro come un segno dimostra ciò di cui è segno. E questo introduce un dramma, perché è vero che è assolutamente evidente come segno, ma il segno immediato mi rimanda oltre, mi rimanda a un Tu supremo. E questo non avviene in maniera meccanica. Dunque, da una parte, la ragione riconosce il segno immediatamente, ma, dall’altra parte, proprio per la natura del segno, si introduce un dramma in cui la libertà deve giocarsi per riconoscere questo Tu. E questo si vede tante volte nella difficoltà che facciamo – e che viene fuori in certe lettere che mi mandate –, per esempio, rispetto all’affermazione che la realtà è positiva. Eccone una: «Un amico in difficoltà, mentre gli parlavo del volantino “La crisi sfida per un cambiamento”, dopo un po’ mi dice: “Dici bene tu, ché non ti tocca più di tanto”. Mi ha chiuso la bocca e mi sono detto: “Ci sono discussioni in cui la testimonianza può persuadere, solo la testimonianza può persuadere”. E poi pensavo: dire a me stesso, nelle prove
che mi dà la vita, che la realtà non gradita è sempre positiva, lo faccio a denti stretti. Questa è la ragione per cui di fronte a prove altrui, ben più drammatiche della crisi, non ho il coraggio di dirlo a chi ne è colpito, soprattutto se non credente, perché penso: le prove pesanti per noi che crediamo sono imitazioni di Cristo sul calvario perché sappiamo che poi c’è la Resurrezione, che Dio non dà
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mai prove superiori alle nostre forze. Ma dirlo a chi non crede non è facile. Su questa difficoltà io ho alcune domande. Come possono non essere percepite da chi non crede come “preconcetto religioso”, “interpretazione cattolica”, “sforzo volontaristico di autoconvincimento”?». Che la realtà è positiva, allora, è solo un preconcetto nostro? Un’interpretazione cattolica della realtà? O dipende, come abbiamo detto, da un uso della ragione nel senso vero del termine? Io mi domando: se noi diciamo, secondo l’esempio dei fiori che fa Giussani, il fatto che ci siano i fiori sul mio tavolo rimanda a qualcuno che li ha messi lì, questa è un’interpretazione cattolica? È un preconcetto religioso? O per la natura stessa di segno, i fiori rimandano oltre? Se quello che noi stiamo facendo con questo percorso è soltanto per autoconvincerci di più della nostra interpretazione – diciamo –
ideologica e non della verità delle cose, invece di aprirci a tutti, alla fine ci chiudiamo sempre di più. Perché alla fine con chi possiamo parlare? Solo con quelli del “cortile”. Complimenti! Invece è proprio il contrario, ma soltanto un uso della ragione vero ci consente di parlare con tutti. Piero Sansonetti, giornalista
e di formazione comunista, dice questo del nostro volantino sulla crisi: «È un
documento serio, che porta una forte idea politica. Riapre il cuore e il dibattito». Lo dice del nostro volantino, che non credo che sia ambiguo. Vede nel volantino di
Cl sulla crisi un ritorno alla «vera lotta politica», che si fa sulle idee. «La Seconda Repubblica ha visto l’assenza del pensiero cattolico ed il danno è grave quando – in un Paese in cui ha un peso enorme – il cattolicesimo viene messo
alle porte: la politica è stata ridotta a schieramento, uno dei difetti fondamentali del bipolarismo.
Invece questo documento rimette in campo una componente importante e lo fa sui contenuti, su una idea di società». Cioè, quando noi diamo delle ragioni, come abbiamo visto con Sapelli e Campiglio a Milano, come abbiamo visto con Polito e Israel a Roma, come vediamo con Sansonetti, non stiamo nel cortile, ed è questo che ci consente di parlare con tutti. E gli altri capiscono meglio di noi qual è la portata di quello che portiamo. Ma noi pensiamo che questo è il preconcetto religioso, l’interpretazione cattolica, e diciamo: «Gli altri non sono pronti a capirlo», e allora facciamo la“mediazione” per adeguare ciò che, secondo noi, dovrebbero capire. Ma questo è la fine della missione, questo è la fine della testimonianza cristiana! È questo che ha bloccato certa pastorale: tutti devono prepararsi prima che succeda l’incontro. Ma questo è ciò da cui ci ha liberato don
Giussani, che invece afferma: tutti quanti hanno la possibilità di riconoscere il cristianesimo perché hanno il cuore, e quindi lo strumento dato da Dio per riconoscere il vero. Non occorre nessuna mediazione. E se noi riduciamo la proposta perché pensiamo che sia solo un’interpretazione cattolica, siamo noi il problema, non la soluzione! Ma questa non è laicità, questo è clericalismo puro! Noi mediamo contro quello che dice don Giussani, cioè che l’io è rapporto diretto con il Mistero. Quello che dobbiamo favorire è questo. Ma noi insistiamo su altro, come si vede dal prosieguo della seconda lettera che vi leggevo: «E che significa [è la seconda domanda] questa mia riluttanza a dirlo a tutti? Che non sono abbastanza certo della possibilità del reale per tutti? E se non ho il coraggio di dirlo a tutti, è un problema di poca fede o di poca ragione?». Risponda a se stesso.
Perché non ho la libertà di dirlo? Per dire una cosa di cui uno è certo ha bisogno di qualcosa di particolare? Semplicemente lo dice, lo condivide. Quando noi abbiamo l’apertura a cui ci educa la Scuola di comunità, guardate che cosa succede: «Io sto vivendo una situazione difficile. A mia moglie hanno diagnosticato un melanoma alla pelle, un tumore maligno che i dottori dicono fortunatamente esser stato preso in tempo. Non sto a dirti tecnicamente tutto, posso dire che è stata una botta tremenda per me, ma soprattutto per lei. Però oggi, a distanza di un mese dalla diagnosi,
posso dire che questa circostanza difficile ha segnato, ha richiesto, ha comportato un cambiamento mio e di mia moglie. Io posso lucidamente dire che da quel giorno tante cose sono cambiate. Il rapporto con mia moglie è diventato più essenziale e meno banale e più esigente. Oggi lei ha bisogno di avere di fronte un uomo non spaventato, e io il giorno della diagnosi ero distrutto. Come posso aiutare mia moglie? Questa è la domanda che fin da subito ho sentito urgente e che mi ha
fatto muovere, chiedere, cercare ogni giorno, gente come gli amici che hanno portato negli occhi una speranza che io non ho. È cambiata mia moglie. Due settimane prima della diagnosi, in autostrada, mi ha detto che del movimento non gliene importava più nulla, non è colpita da nessuno,non se la sente di seguire nessuno: insomma, la vita va bene anche senza il movimento. La sera
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stessa della diagnosi la nostra solitudine è stata così dolorosa che lei, da quel giorno, mi ha chiesto sempre di non essere da soli; banalmente, di cercare gente positiva. Stessa cosa per la tua Scuola di comunità. È sempre stato un andare al cinema; oggi è diventato un momento che parla, che ci riguarda e che ci interroga. La realtà possiamo dire che è positiva anche nella malattia? Questa è la mia domanda? Due sere fa a letto lei mi ha detto: “Spero che tutto non torni a essere normale”. Lei, malata, con il tumore! Questa è la grande scoperta, la grande novità che io sto sperimentando oggi.
Non ho mai desiderato nulla di tutto questo, ma devo ammettere che niente fino a oggi ha avuto la forza di rendere più vita la mia vita. Io capisco che questa non posso considerarla una sfortuna. Come posso dire che sia una sfortuna se rende più vero il mio matrimonio? Come posso dire che sia una sfortuna se ha la forza di cambiare mia moglie? Come posso dire che sia una sfortuna se tutto quello che ho sempre saputo – ma non creduto – stando nel movimento oggi diventa esperienza per me?». E questo chi lo scopre? Lo scopre chi ha questa partenza, chi è aperto a che attraverso la
realtà possa capire qualcosa che non capiva. È quello che dice ancora l’ultima lettera con un esempio molto semplice: «Ti scrivo perché lavorando sulla Scuola di comunità e vivendo è emersa una domanda che ci hai fatto: che esperienza facciamo della libertà? Vorrei provare a raccontarti cosa mi accade alcune volte. Venerdì mi è arrivato un forte raffreddore, l’inizio di un’influenza che sommato alla stanchezza per l’intera settimana è stato la scusa perché entrasse in me l’idea di non
partecipare alla Colletta Alimentare dell’indomani. Mentre ci pensavo era evidente che la mia decisione non era ragionevole, cioè io non ero vera fino in fondo, non ero totalmente me stessa. Alla Colletta ci sarebbero stati alcuni miei colleghi e due mie alunne, ma soprattutto io non mi sono mai fatta fermare da un raffreddore, quindi era evidente che il problema non era lì. Ma ormai l’idea di non andare era diventata una decisione e neanche il bellissimo articolo di Giorgio Vittadini su Avvenire del 25 novembre, che mi ha colpito molto, mi ha fatto cambiare idea. Oggi, rileggendo la
Scuola di comunità sono rimasta pietrificata davanti a questa frase: “L’uomo, infatti, nella sua libertà afferma ciò che ha già deciso fin da una recondita partenza. La libertà non si dimostra tanto nella clamorosità delle scelte; ma la libertà si gioca nel primo sottilissimo crepuscolo dell’impatto della coscienza del mondo”. Non è la prima volta che mi succede, è come se andasse in apnea la mia ragione, e non c’è santo che tenga. Fino a oggi, quando mi succedeva una cosa del genere, aspettavo che passasse quel giorno, e poi andavo avanti; ma la cosa a volte mi fa un po’ paura perché desidero che la mia vita non abbia più dei buchi così. Ti avrei voluto scrivere qualche giorno fa per dirti che pian piano sto capendo che la realtà è positiva perché c’è e ti provoca nel bene e nel male (posso fare tanti esempi), ma oggi aggiungo: ti provoca se tu ti lasci provocare». Allora,l’uomo nella sua libertà afferma ciò che ha già deciso nella recondita partenza. E questo è veramente il dramma che ci troviamo davanti perché, come dice don Giussani a pagina 171 alla fine del capitolo, noi quel che ci diciamo lo capiamo soltanto per questo intreccio della libertà e della conoscenza: «Se tu sei “morale”, vale a dire, se tu sei nell’atteggiamento originale in cui Dio ti ha creato [vuol dire che tutti quanti, poiché siamo stati creati da Dio, abbiamo by default questo atteggiamento originale, non è che diciamo: “Ma se non ce l’abbiamo?”; no, noi l’abbiamo tutti,
cerchiamoci un altro alibi; come ha detto il Papa in Germania: noi abbiamo una natura, e la natura nostra è esser fatti con questa ragione, con questa apertura all’infinito, perché siamo rapporto diretto con il Mistero], cioè in atteggiamento aperto al reale, allora capisci». Capiamo quando abbiamo questo atteggiamento, ma esso passa attraverso la nostra libertà. Se questo atteggiamento risulta
alterato, chi è che lo altera? Noi. Alterato, artefatto, bloccato dal pregiudizio: allora sei immorale e non puoi capire. E questo è decisivo perché noi tante volte non ci rendiamo conto che non capiamo né possiamo capire non perché mancano i segni, non perché mancano i dati (lo vedremo la prossima volta), ma perché manca quell’apertura, manca quell’umano di cui parla Giussani in questo capitolo: l’umano intero sta in ciò che è aperto, e solo a chi è così aperto la realtà può svelare il suo significato. Per questo è così decisiva questa nostra educazione alla libertà, che è il tema del prossimo capitolo. Senza educarci a questa libertà, cioè a questa lealtà con l’atteggiamento originale con cui siamo stati fatti, noi non capiamo.
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La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 14 dicembre alle ore 21.30. Riprenderemo il capitolo tredicesimo de Il senso religioso: «Educazione alla libertà». Cerchiamo di identificare da questi indizi che don Giussani ci dà che cosa dobbiamo educare in noi, che cosa ci manca, in che cosa ci siamo scoperti mancanti, e non per un giudizio negativo, per bastonarci, per un esame di coscienza, ma per identificare quello su cui dobbiamo lavorare per poter capire, per non rimanere
incastrati nel reale; e per identificare su che cosa devo insistere e in che cosa devo essere attento per imparare questo sguardo che desidererei avere nel rapporto con il reale. La scorsa settimana, il Papa parlando al Pontificio Consiglio per i Laici ha fatto un discorso che ci ha molto provocato per la corrispondenza al cammino che stiamo facendo. Oltre a raccogliere noi questa provocazione, pensiamo possa essere un’occasione per tutti. Ascoltate cosa dice. «Mi sembra particolarmente importante aver voluto affrontare quest’anno, nell’Assembla Plenaria, il tema di Dio [cioè il senso religioso]: “La questione di Dio oggi”. Non dovremmo mai
stancarci di riproporre tale domanda, di “ricominciare da Dio”, per ridare all’uomo la totalità delle sue dimensioni, la sua piena dignità [cioè lo scopo è questo, non essere più pio]. Infatti, una mentalità che è andata diffondendosi nel nostro tempo, rinunciando a ogni riferimento al trascendente, si è dimostrata incapace di comprendere e preservare l’umano [cioè di mantenere l’umano nella sua dignità, senza che venga meno]. La diffusione di questa mentalità ha generato la crisi che viviamo oggi, che è crisi di significato e di valori, prima che crisi economica e sociale.
L’uomo che cerca di esistere soltanto positivisticamente, nel calcolabile e nel misurabile, alla fine rimane soffocato [vi risulta familiare questo?]. In questo quadro, la questione di Dio è, in un certo senso, “la questione delle questioni” [lo abbiamo visto questa sera, è la questione delle questioni per vivere il quotidiano]. Essa ci riporta alle domande di fondo dell’uomo, alle aspirazioni di verità, di
felicità e di libertà insite nel suo cuore, che cercano una realizzazione. L’uomo che risveglia in sé la domanda su Dio si apre alla speranza, ad una speranza affidabile, per cui vale la pena di affrontare la fatica del cammino nel presente (cfr. Spe salvi, 1). Ma come risvegliare la domanda di Dio, perché sia la questione fondamentale? Cari amici, se è vero che “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona” (Deus caritas est, 1), la domanda su Dio [cioè il senso religioso] è risvegliata dall’incontro con chi ha il dono della fede, con chi ha un rapporto vitale con il Signore. Dio viene conosciuto attraverso uomini e donne che lo conoscono: la strada verso di Lui passa, in modo concreto, attraverso chi l’ha incontrato. Qui il vostro ruolo di fedeli laici è particolarmente importante. […] Siete chiamati a offrire una testimonianza trasparente della rilevanza della questione di Dio in ogni campo del pensare e dell’agire. Nella famiglia, nel lavoro,
come nella politica e nell’economia, l’uomo contemporaneo ha bisogno di vedere con i propri occhi e di toccare con mano come con Dio o senza Dio tutto cambia.
Ma la sfida di una mentalità chiusa al trascendente [cioè chiusa al senso religioso] obbliga anche gli stessi cristiani a tornare in modo più deciso alla centralità di Dio. A volte ci si è adoperati perché la presenza dei cristiani nel sociale, nella politica o nell’economia risultasse più incisiva, e forse non ci si è altrettanto preoccupati della solidità della loro fede [perché altrimenti non apriamo bocca,
diventiamo come tutti], quasi fosse un dato acquisito una volta per tutte. In realtà i cristiani non abitano un pianeta lontano, immune dalle “malattie” del mondo, ma condividono i turbamenti, il disorientamento e le difficoltà del loro tempo. Perciò non meno urgente è riproporre la questione di Dio anche nello stesso tessuto ecclesiale. Quante volte, nonostante il definirsi cristiani, Dio di fatto
non è il punto di riferimento centrale nel modo di pensare e di agire, nelle scelte fondamentali della vita. La prima risposta alla grande sfida del nostro tempo sta allora nella profonda conversione del nostro cuore, perché il Battesimo che ci ha resi luce del mondo e sale della terra possa veramente trasformarci». Come vediamo, è una conferma della portata del cammino che stiamo facendo. Per questo abbiamo preparato un volantino con queste parole del Papa: prima di tutto per noi e poi per
diffonderlo a tutti.
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Sul prossimo numero di Tracce abbiamo deciso di pubblicare, come Pagina Uno, l’assemblea fatta con gli universitari di Scienze a Milano dopo la morte del nostro amico Bizzo, perché ci sembra un’utile testimonianza della verifica del cammino che stiamo facendo: infatti se possiamo dire che la realtà è positiva davanti alla morte, lo possiamo dire dappertutto e in qualsiasi altra circostanza.
Su questo numero troverete anche altri interessanti articoli, come quello che ho letto sulla crisi.
Il libro del mese per dicembre e gennaio è Una certezza per l’esistenza.
Il libro raccoglie alcuni tra i più importanti incontri del Meeting di Rimini di quest’anno. Lo proponiamo perché il valore di quanto accaduto al Meeting quest’estate non rimanga solo alla provocazione del momento, ma possa essere ripreso da noi per una consapevolezza maggiore, e possa essere offerto anche ad altri.
Veni San
cte Spiritus

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