venerdì 7 maggio 2010

«Può un uomo nascere d inuovo quando è vecchio?»




Esercizi spirituali Della Fraternita di Comunione e Liberazione
(Rimini, 23-25 aprile 2010)




Libretto degli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione

Città del Vaticano, 20 aprile 2010
Reverendo
Don Julián Carrón
Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione
Occasione Esercizi spirituali Fraternità di Comunione e
Liberazione sul tema «Può un uomo nascere di nuovo quando
è vecchio?» Sommo Pontefice rivolge ai partecipanti affettuoso
pensiero e mentre auspica che provvido incontro susciti rinnovata
fedeltà a Cristo unica fonte di speranza per una fervorosa
testimonianza evangelica invoca copiosa effusione lumi celesti
e invia a Lei ai responsabili Fraternità e convenuti tutti speciale
benedizione apostolica.
Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità


Venerdì 23 aprile, sera
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Sinfonia n. 8 in si minore, D 759, “Incompiuta”
Carlos Kleiber − Wiener Philharmoniker
“Spirto Gentil” n. 2, Deutsche Grammophon

IN TRODUZIONE
Julián Carrón
Tutti siamo arrivati più o meno consapevolmente spinti da un
desiderio, da un’attesa, da una urgenza che qualcosa accada nella nostra
vita, che la rinnovi, che la faccia ripartire se è ferma, che vinca quello
scetticismo che si insinua dentro di noi paralizzandoci, che introduca un
respiro che ci liberi dal soffocare nelle circostanze.
Noi sappiamo bene che l’unico che ha introdotto questa novità nella
storia è Cristo. Veniamo qui tutti mossi da quella speranza che Lui un
giorno ha suscitato in noi, in te, in me, da quel sussulto da cui ci siamo
sentiti percuotere e che ci sentiamo addosso da quando ci è capitato. Ma
quanti aspetti della nostra persona, della nostra vita aspettano di essere
cambiati da Lui!
Per questo invochiamo lo Spirito affinché Cristo penetri sempre
più dentro ogni fibra del nostro essere, ci renda sempre più partecipi
di quella commozione dell’Essere, che il Mistero – «La fonte è in Te
dell’essere» – si è degnato di condividere con noi.
Discendi Santo Spirito
Incomincio leggendo il telegramma che ci ha inviato il Santo Padre:
«Occasione Esercizi spirituali Fraternità di Comunione e Liberazione sul
tema “Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?” Sommo Pontefice
rivolge ai partecipanti affettuoso pensiero e mentre auspica che provvido
incontro susciti rinnovata fedeltà a Cristo unica fonte di speranza per una
fervorosa testimonianza evangelica invoca copiosa effusione lumi celesti e
invia a Lei ai responsabili Fraternità e convenuti tutti speciale benedizione
apostolica. Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato di Sua Santità».
Saluto ciascuno di voi e tutti gli amici che sono collegati con noi da
tanti Paesi.
Venerdì sera
Cristo è risorto! Questo è l’annuncio che instancabilmente, da secoli,
la Chiesa ci rivolge. Questo è l’avvenimento che domina la storia, un
evento che nessuno sbaglio nostro o dei nostri fratelli può far fuori e
che tutto il male che possa capitare non può cancellare. Questo fatto è il
motivo della nostra speranza; è dunque questo fatto che deve dominare
in noi dal primo istante di questi giorni: la Sua presenza risorta. Non
sarebbe adeguato a tutti i fattori del reale, ora, uno sguardo sulla
nostra vita, sul sentimento di noi stessi, sul reale e sul mondo che non
cominciasse da questo riconoscimento; sarebbe menzognero, perché
mancherebbe il fattore decisivo di tutta la storia. Non c’è una novità più
grande, non c’è mai stata una novità più grande che il fatto che Cristo è
risorto. Per questo, nella misura in cui ci lasciamo invadere totalmente
da questa Presenza viva, ci lasciamo dominare da questa verità – che
è un fatto, non un pensiero creato da noi, ma un evento successo nella
storia –, noi vediamo cambiare il sentimento che abbiamo di noi stessi.
Ci ritroviamo insieme questi giorni per viverli sotto la pressione di
questa commozione, sotto l’onda tutta carica di questa commozione:
Cristo è morto e risorto per noi. Vi prego di lasciarGli spazio, cioè di
lasciarci trascinare da questo evento; non consentiamo che resti in noi
soltanto una parola. È successo: che luce, che respiro, che speranza
porta alla vita questo fatto! È il segno più evidente e più potente della
tenerezza del Mistero per ciascuno di noi, di questa carità sconfinata di
Dio per il nostro niente (compreso il nostro tradimento).
È la Sua presenza vittoriosa in mezzo a noi che ci spinge a continuare
il nostro percorso per cercare di superare sempre più la frattura tra il
sapere e il credere, affinché questo fatto riconosciuto dalla fede determini
la vita più di tutto il resto. Se invece questo fatto rimanesse soltanto a
livello pio o devoto, sarebbe come se non ci fosse stato, come se non
avesse tutta la densità di realtà per cambiare la vita, per incidere sulla
vita; e allora resteremmo determinati da tutto il resto, che ci travolge, che
ci confonde, che ci scoraggia, che ci impedisce di respirare, di vedere, di
toccare con mano la novità che Cristo risorto ha introdotto e introduce
nella nostra vita.
Siamo partiti due anni fa dalla fede, che ha come origine – ricordate
tutti – «una partenza fuori di noi»: l’imbattersi in una Presenza
eccezionale. La fede è il riconoscimento di questa Presenza eccezionale,
oggi resa carnalmente presente dai testimoni, dal popolo cristiano, dalla
«Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede», Esercizi della Fraternità di Comunione
e Liberazione, inserto Tracce-Litterae Communionis, n. 6, giugno 2008, p. 13.
Esercizi della Fraternità
Chiesa, che sarebbe impossibile se Lui non la generasse costantemente.
Ma l’anno scorso abbiamo approfondito che, malgrado tanti fatti
eccezionali che abbiamo visto, malgrado tanti testimoni che abbiamo
davanti, spesso dopo un istante ci sembra che tutto svanisca; e abbiamo
identificato la ragione in quella frattura tra il sapere e il credere che si
manifesta nella riduzione della fede a proiezione di un sentimento, a
un’etica o a una forma di religiosità estranea e opposta alla conoscenza.
La riduzione sta in ciò: la fede non viene più concepita e vissuta come
un percorso di conoscenza di una realtà presente, e questo ci rende
deboli e confusi come tutti. Una fede che non è conoscenza, che non è
il riconoscimento di una Presenza reale, non serve alla vita, non fonda
la speranza, non cambia il sentimento che noi abbiamo di noi stessi,
non introduce un respiro in ogni circostanza. E l’aspetto cruciale della
difficoltà l’avevamo identificato nella mancanza dell’umano: «Ciò che
manca oggi tra noi non è la Presenza (siamo circondati da segni, da
testimoni!); manca l’umano. Se l’umanità non è in gioco, il cammino
della conoscenza si ferma. Amici, non manca la Presenza, manca
il percorso», il percorso introdotto dalla curiosità davanti a questa
Presenza, con la quale vogliamo entrare sempre di più in una conoscenza
approfondita.
Dopo un anno ci sono segni che rendono evidente che la frattura tra
sapere e credere non è ancora superata.
Il primo è che non si capisce il nesso tra l’avvenimento cristiano e
l’umano: si continua a percepirli come estrinseci l’uno all’altro. Mesi
fa, di fronte alla mia insistenza sul lavoro da fare, sull’esperienza, una
persona mi aveva detto che all’inizio il movimento l’aveva colpita come
incontro con qualcosa di oggettivo fuori di sé, per cui non capiva perché
io in quel momento insistessi tanto sul lavoro. Allora le ho dovuto
ricordare da dove eravamo partiti: l’imbattersi in una presenza; dopo di
che tutto svaniva. Se questa difficoltà rimane, vuol dire che non abbiamo
capito il rapporto che c’è tra l’avvenimento cristiano e la messa in moto
dell’io, non si capisce che il segno che ho fatto un incontro è che mi
metto al lavoro, perché il mio umano è ridestato. Il lavoro è il segno più
evidente che il cristianesimo è un avvenimento, cioè che avviene in me
qualcosa che mi ridesta.
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(Si fa riferimento agli Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, dal titolo «Dalla Fede il Metodo», Rimini, 24-26 aprile 2009.
«Dalla Fede il Metodo», Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione, inserto Tracce-Litterae Communionis, n. 5, maggio 2009, p. 21.)
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Venerdì sera
Il secondo segno è che l’avvenimento cristiano non produce una
mentalità nuova. Mi è capitato questa estate di ascoltare alcuni nostri
amici all’estero che dicevano come, davanti a certi fatti, si vedeva che
la mentalità di origine è più determinante, più forte della mentalità che
nasce dall’incontro: davanti agli avvenimenti della vita e del mondo
la reazione di tanti di noi è più consona alla mentalità di tutti che
alla mentalità che il carisma del movimento esprime. Avendo avuto
quest’anno l’opportunità di visitare tante comunità nel mondo, questo
l’ho visto dappertutto.
È come se vedessimo su di noi gli effetti di quello che Charles Péguy
descrive in modo così suggestivo: «Per la prima volta, per la prima volta
dopo Gesù, noi abbiamo visto, sotto i nostri occhi, noi stiamo per vedere
un nuovo mondo sorgere, se non una città; una società nuova formarsi,
se non una città; la società moderna, il mondo moderno; un mondo, una
società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e) ingrandirsi, dopo
Gesù, senza Gesù. E ciò che è più tremendo, amico mio, non bisogna
negarlo, è che ci sono riusciti. [...] È ciò che vi pone in una situazione
tragica, unica. Voi siete i primi. Voi siete i primi dei moderni».
Dopo Gesù, senza Gesù. Non si tratta soltanto di un progressivo
allontanamento da una pratica religiosa; il segno per eccellenza della
emarginazione di Cristo dalla vita è una mortificazione delle dimensioni
proprie dell’umano, una concezione ridotta della propria umanità, della
percezione di sé, un uso ridotto della ragione, dell’affezione, della
libertà, una censura della portata del desiderio. Giussani ha utilizzato
tanti anni fa la metafora dell’esplosione nucleare di Chernobyl, che ha
prodotto questa alterazione nell’animo degli uomini: «L’organismo,
strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso.
Vi è come un plagio fisiologico».
Per questo mi domandavo: il cristianesimo è in grado di colpire il
nocciolo duro della nostra mentalità oppure riesce soltanto ad aggiungere
qualcosa di decorativo, di pio, di moralistico, di organizzativo a un io
già perfettamente costituito, refrattario a qualsiasi ingerenza? Perciò,
durante quest’anno spesso mi è tornato in mente il dialogo tra Gesù
e Nicodemo, da cui proviene il titolo dei nostri Esercizi: «C’era tra i
farisei un uomo chiamato Nicodèmo, un capo dei Giudei. Egli andò da
Gesù, di notte, e gli disse: “Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto
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(Ch. Péguy, «Veronica. Dialogo della storia coll’anima carnale», in Lui è qui, BUR, Milano 1997,p. 126.L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 181.)
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da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui”.
Gli rispose Gesù: “In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto,
non può vedere il regno di Dio”. Gli disse Nicodèmo: “Come può un
uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta
nel grembo di sua madre e rinascere?”». È possibile in questa nostra
situazione la creatura nuova, qualcosa di veramente nuovo? Questa,
secondo me, è la sfida più grande che il cristianesimo ha davanti a sé
adesso: se – nella modalità in cui ci ha persuasivamente raggiunto: il
movimento – è in grado di perforare la crosta del modo con cui ciascuno
sta nel reale o se è condannato a rimanere estraneo, in fondo un’aggiunta.
Se non vi è un cambiamento nel modo di percepire, di giudicare la realtà,
vuol dire che la radice dell’io non è stata investita da alcuna novità, che
l’avvenimento cristiano è rimasto esterno all’io. Anche per noi la fede
può essere una cosa fra le altre, appiccicata, giustapposta, che convive
con il modo di vedere e di sentire di tutti. Diceva anni fa don Giussani
– lo potete leggere nel libro delle équipe del Clu appena pubblicato −:
«Tutto l’argomento della nostra posizione di fede si può ricondurre
esattamente allo sfondamento di questa giustapposizione, perché Cristo,
l’avvenimento cristiano [...] investe e penetra tutto quanto». Senza
sfondare questa posizione, noi non potremo percepire la pertinenza della
fede alle esigenze della vita.
Ciascuno di noi può giudicare il lavoro di quest’anno, e verificare in
che misura questa novità è entrata nella radice del proprio io. Che novità
ha portato? Non sono nostri pensieri, non è una questione di opinioni, di
interpretazioni: se Cristo è entrato come novità nella radice del nostro io
e determina tutto in un modo nuovo, ce lo portiamo addosso nel modo
di vivere il reale. Io ho visto tanti segni di ciò lungo quest’anno, in
tante nostre comunità (allo stesso tempo, c’è ancora tanto lavoro da fare,
come tutti possiamo riconoscere nella nostra esperienza). Tutti questi
segni positivi hanno un denominatore comune: gente impegnata nella
sequela della proposta che ci siamo fatti. Ma in tanti sorge ancora la
domanda: qual è il lavoro che ci aspetta? Tante volte, infatti, ciascuno
riempie la parola lavoro con le proprie immaginazioni.
Per questo vogliamo continuare a chiarire che cosa significa questa
mancanza dell’umano. Quest’anno mi è capitato di dover fare alcune
lezioni su Il senso religioso ai novizi dei Memores Domini, e siccome
ero sotto la pressione del lavoro che stiamo facendo insieme, mi ha
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Gv 3,1-4.
L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 41.
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colpito la modalità con cui ne ho riletto alcuni capitoli: non come avevo
fatto in tante occasioni, cioè come parte del percorso verso la fede; ma
dall’interno della fede. Per questo mi permetterò di riprendere alcuni
capitoli de Il senso religioso per aiutarci a capire come don Giussani ci
guida nel cammino che stiamo facendo.
Ma prima dobbiamo guardare in faccia l’obiezione cui accennavo
prima: a noi avvenimento e lavoro sembrano sempre in contrasto. Questo
è un esempio della distanza che a volte percepisco tra l’intenzione
di seguire don Giussani e il seguirlo veramente. Guardate quel che
dice a tutti quelli che contrappongono cristianesimo e lavoro: «Gesù
Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano [questa
affermazione già basterebbe], all’umana libertà o per eliminare l’umana
prova – condizione esistenziale della libertà –. Egli è venuto nel mondo
per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura
fondamentale e alla sua situazione reale. Tutti i problemi, infatti, che
l’uomo è chiamato dalla prova della vita a risolvere si complicano,
invece di sciogliersi, se non sono salvati determinati valori fondamentali.
Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza
della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della
conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle
cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore),
il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della
giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione nella
storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla
religiosità nel tentativo della propria soluzione (“Chi mi segue avrà la
vita eterna e il centuplo quaggiù”). Non è compito di Gesù risolvere i vari
problemi, ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente
può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta questa
fatica, la cui funzione d’esistenza sta proprio in quel tentativo».
E ancora: «L’insistenza sulla religiosità è il primo assoluto dovere
dell’educatore, cioè dell’amico, di colui che ama e vuole aiutare l’umano
nel cammino al suo destino. E l’umano è inesistente originalmente,
se non nel singolo, nella persona. Questa insistenza è tutto quanto il
richiamo di Gesù Cristo. Non si può pensare di cominciare a capire il
cristianesimo se non partendo dalla sua origine di passione alla singola
persona».
E qualora non fosse abbastanza chiaro, don Giussani osserva che
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L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, pp. 124-125.
Ibidem, p. 109.
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10
il compito della Chiesa è lo stesso: «La Chiesa, dunque, non ha come
compito diretto il fornire all’uomo la soluzione dei problemi che egli
incontra lungo il suo cammino. Abbiamo visto che la funzione che essa
dichiara sua nella storia è l’educazione al senso religioso dell’umanità
e abbiamo visto anche come ciò implichi il richiamo a un giusto
atteggiamento dell’uomo di fronte al reale e ai suoi interrogativi,
giusto atteggiamento che costituisce la condizione ottimale per trovare
più adeguate risposte a quegli interrogativi. Abbiamo anche appena
sottolineato che la gamma dei problemi umani non potrebbe essere
sottratta alla libertà e alla creatività dell’uomo, quasi che la Chiesa
dovesse dar loro una soluzione già confezionata».10
Per questo il migliore omaggio che possiamo offrire a don Giussani
nel quinto anniversario della sua scomparsa è la nostra sequela, non
soltanto intenzionale, ma reale. Potremo vedere così come cinque anni
dopo la sua morte egli continua a esserci padre più che mai e, se noi ci
rendiamo veramente disponibili, a generarci.
Un gesto di queste dimensioni non può stare in piedi senza il contributo
del sacrificio di ciascuno di noi nell’attenzione agli avvisi, al silenzio,
alle indicazioni; questo sacrificio è la modalità della nostra domanda a
Cristo che abbia pietà del nostro niente, che non ci lasci cadere nel nulla
anche in questi giorni. Si tratta della possibilità di creare un clima di
silenzio adeguato perché il seme che piantiamo oggi, quando ascoltiamo
qualcosa, non cada sulla strada non trovando il terreno per germinare.
Perché senza il silenzio tutto si spazza via in mezzo minuto. Sempre mi
impressiona che il silenzio nasce proprio da questo avvenimento: la Sua
parola mi riempie di silenzio. Il silenzio non è soltanto per una questione
di ordine, ma è l’unica risposta adeguata all’avvenimento.
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10 L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, pp. 204-205.
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11
SANTA MESSA
OMELIA DI DON MI CHELE BERCHI
Di fronte alla provocazione di Gesù possiamo essere qui stasera e
in questi giorni con la stessa posizione di Saulo, di Paolo – «Chi sei, o
Signore?» –: lasciarci disarcionare dalla nostra presunzione, dalla nostra
distrazione o dal nostro cinismo e permettere che Qualcuno ci prenda
per mano, come Saulo, e ci conduca perché i nostri occhi si aprano a
Lui, a Lui che noi tutti abbiamo già incontrato sulla nostra via; oppure
possiamo essere qui con la stessa posizione dei giudei, pieni di acredine,
di asprezza.
Sei tu che decidi come stare davanti al Signore che ti dice: «Tu hai
fame di me, tutta la tua vita ha fame e sete di me. Non ti accontentare,
non ti accontentare neanche del miracolo che hanno visto i tuoi occhi».
Lo ha detto a coloro che Lo avevano visto moltiplicare i pani, lo ridice
a noi questa sera: «Non ti accontentare nemmeno della grandezza di
questo gesto, del miracolo che è questo gesto. Tu hai fame di me, della
mia presenza viva. Non è bastata la manna nel deserto ai tuoi padri, non
è bastata la moltiplicazione dei pani, i vostri padri sono morti», così
come a noi non basta questo gesto per vivere. «Se questo gesto non ti
porta a me – ci dice il Signore questa sera –, non serve».
L’unico vero pericolo per noi è stare qui desiderando meno di questo,
meno di Lui, cercando di accontentarci con meno del tutto, quel tutto
che Tu sei, Signore, per noi, quel tutto che è più di quanto riusciamo a
immaginare, quel mare di misericordia per me che Tu sei, Signore.
Domandiamo alla Madonna che ci aiuti a cambiare posizione, se
dobbiamo cambiarla, per non accontentarci mai, soprattutto in questi tre
giorni, di qualcosa meno di Suo Figlio.

12
Sabato 24 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Sonata per arpeggione e pianoforte, D 821
Mstislav Rostropovich, violoncello – Benjamin Britten, pianoforte
“Spirto Gentil” n. 18, �����Decca
Don Pino. Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al
lavoro umano, alla umana libertà, o per eliminare l’umana prova. Egli è
venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni,
alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale.
Angelus
Lodi
PRIMA MEDITAZIONE
Julián Carrón
Solo il divino può “salvare” l’umano
Abbiamo uno scopo chiaro: superare la frattura tra il sapere e il
credere, per poter poggiare tutta la vita su qualcosa di vero, di reale, che
ci consenta di vivere tutto in un modo nuovo. Per tutto quanto abbiamo
detto, per raggiungere questo scopo occorre superare la mancanza
dell’umano.
1. La provocazione del reale
Che cosa mette in moto l’umano? «Se io spalancassi per la prima volta
gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato
dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”».11
Spiega don Giussani: «Innanzitutto è chiaro che lo stupore, di cui
abbiamo detto, costituisce una esperienza di provocazione. Aprendo lo
sguardo alla realtà, ho davanti qualcosa che realizza una provocazione
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11 L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, pp. 139-140.
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di apertura. Il modo con cui il reale si presenta a me è sollecitazione a
qualche cosa d’altro [perciò la realtà suscita in me questa apertura, mi
educa, non con un discorso, non con un comando, non con un appello
morale, ma provocandomi: è il contributo che il reale dà a che il mio
io si apra, spalancandosi continuamente alla totalità]. Lo sguardo alla
realtà non ottiene in me un risultato come su una pellicola fotografica;
non mi “impressiona” della sua immagine e basta. Mi impressiona e mi
muove. Il reale mi sollecita, dicevo, a ricercare qualche cosa d’altro,
oltre quello che immediatamente mi appare. La realtà afferra la nostra
coscienza in maniera tale che questa pre-sente e percepisce qualche cosa
d’altro».12 Immaginiamo che io arrivi a far lezione ai ragazzi portando
con me un apparecchio elettronico che loro non hanno mai visto e che,
quando cerco di attaccarlo alla presa per incominciare a usarlo, mi
renda conto che mi sono dimenticato il cavo nella sala professori. Cosa
succederà se abbandono l’aula per andare a recuperare il cavo? Non
è difficile indovinarlo per chi ha fatto il professore: tutti si alzeranno
e si avvicineranno all’apparecchio per vedere di che cosa si tratta. Se
qualcuno non si alza, per mostrare che lui non fa come tutti, avrà bisogno
di più energia per resistere alla curiosità che non per assecondare la
sollecitazione della presenza dell’apparecchio. Dice María Zambrano:
«L’uomo non si rivolge alla realtà per conoscerla meglio o peggio, se
non dopo, e a partire da, l’averla sentita come una promessa, come una
patria dalla quale in linea di principio ci si attende tutto, nella quale si
crede possibile trovare tutto».13
Per questo, «di fronte al mare, alla terra e al cielo e a tutte le cose
che si muovono in esso, io non sto impassibile, sono animato, mosso,
commosso da quel che vedo, e questa messa in moto è per una ricerca di
qualcosa d’altro».14 Animato, mosso, commosso: «Sono tutto perturbato
da questo rapporto con il reale, e sospinto oltre l’immediatezza».15
Se il reale ha questa capacità di afferrare l’io e di muoverlo così,
immaginate che forza avrà sull’io la Presenza eccezionale, carica di
un’attrattiva così corrispondente al cuore da provocare un attaccamento
senza pari! Perché con il cristianesimo vi è la stessa dinamica che con
il reale, ma ancora più potenziata, perché proprio qui essa si realizza
al massimo grado. «Il loro cuore [quello di Giovanni e Andrea],
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12 Ibidem, p. 153.
13 M. Zambrano, I beati, Feltrinelli, Milano 1992, p. 106.
14 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 153.
15 Ibidem, p. 154.
Sabato mattina
13
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quel giorno, si era imbattuto in una presenza che corrispondeva
inaspettatamente ed evidentemente al desiderio di verità, di bellezza, di
giustizia che costituiva la loro umanità semplice e non presuntuosa. Da
allora, seppur tradendolo e fraintendendo mille volte, non l’avrebbero
più abbandonato, diventando “suoi”».16 È la stessa esperienza che don
Giussani testimoniò in piazza San Pietro nel 1998: «Solo Cristo si prende
tutto a cuore della mia umanità. È lo stupore di Dionigi l’Areopagita (V
secolo): “Chi ci potrà mai parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo,
traboccante di pace?”. Mi ripeto queste parole da più di cinquant’anni!
[...] È una semplicità del cuore quella che mi faceva sentire e riconoscere
come eccezionale Cristo, con quella immediatezza certa, come avviene
per l’evidenza inattaccabile e indistruttibile di fattori e momenti della
realtà, che, entrati nell’orizzonte della nostra persona, colpiscono fino
al cuore».17
Perché l’incontro ha questa presa sull’io? «L’incontro con un
fatto obiettivo originalmente indipendente dalla persona [...] adegua
l’acume dello sguardo umano alla realtà eccezionale cui lo provoca.
Si dice grazia della fede».18 E perché questa realtà eccezionale afferra
così potentemente l’io esaltando la capacità della conoscenza? Per «la
coscienza della corrispondenza tra il significato del Fatto in cui ci si
imbatte e il significato della propria esistenza [le esigenze costitutive
dell’io]».19 Per questo l’esperienza cristiana esalta massimamente la
ragione e la libertà, mette in moto tutto l’io più che nessun’altra cosa,
proprio perché – come dice Edith Stein – «mentre lo comprendo, mi
afferra nel mio centro personale ed io mi tengo ad esso».20
2. Il segno
Quale dinamica genera nell’io l’essere così potentemente afferrato
nel rapporto con il reale? «Una cosa che si vede e si tocca e che nel
vederla e toccarla mi muove verso altro, come si chiama? Segno. [...]
Ed è questo il metodo con cui la natura ci richiama ad altro da sé: il
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16 L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 14.
17 L. Giussani, «Nella semplicità del mio cuore lietamente ti ho dato tutto», in L. Giussani - S.
Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. IV.
18 L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, pp. 130-131.
19 Ibidem, p. 131.
20 E. Stein, Natura Persona Mistica, Città Nuova, Roma 1997, p. 105.

14
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metodo del segno».21 Non un discorso, non un comando: una realtà che
mi muove, mi commuove, mi provoca, mi sospinge. E questa è già la
grande correzione che ci fa don Giussani: non contano i nostri pensieri
e i nostri propositi, ma questa lealtà con il reale. Possiamo incominciare
a identificare dove inizia a mancare l’umano: quando soccombiamo
alla tentazione di arrestare questa mossa. E don Giussani fa alcuni
esempi per facilitarci nel capire che cosa intende dire: «Di fronte a una
indicazione stradale, a un bivio, pretendere di arrestare il senso della cosa
all’esistenza del palo e della freccia sul cartello, negando l’esistenza di
altro cui essi si riferiscano, non sarebbe razionale. Lo sguardo a quel
fenomeno non sarebbe adeguato alla energia con cui l’uomo si pone
e si impatta con quel palo e quella freccia. Non sarebbe umanamente
adeguato partecipare a quel fenomeno esaurendone l’esperienza al suo
aspetto immediato».22 Lo stesso dice dell’impatto che provocano i fiori
regalati: «Non sarebbe infatti uno sguardo umano al fenomeno della
presenza di quel mazzetto di viole, se non accedendo [cioè assecondando]
all’invito che in quel fenomeno è contenuto. E l’invito consiste in una
provocazione a chiedere: “Come mai?”».23 Questo succede con tutta
la realtà: «Analogamente non sarebbe umano affrontare la realtà del
mondo, arrestando la capacità umana di addentrarsi alla ricerca d’altro,
così come in quanto uomini si è sollecitati dalla presenza delle cose.
Sarebbe questo [attenzione!], come già detto, l’atteggiamento positivista:
il blocco totale dell’umano».24 Questa è la mancanza dell’umano: Il
blocco totale dell’umano!
Come Cristo ci viene incontro, non per sostituirsi a noi, ma per
aiutarci? «Per il cristiano compenetrato dalla coscienza della presenza
di Cristo, per l’uomo nuovo, nuova creazione è ogni cosa [ogni cosa è
segno]. Il Vangelo ci documenta in discretissimi cenni lo sguardo con cui
Gesù guardava la natura: come mostrava ai discepoli i fiori del campo,
gli uccelli del cielo, gli alberi di fico e le vigne della sua terra, la vista
della città che amava. In Lui la coscienza del nesso tra l’oggetto del suo
sguardo e il destino, il Padre, era di una trasparenza immediata. In Lui
ogni cosa sorgeva dal gesto creatore del Padre, ed era perciò miracolo.
Così, quanto più uno vive la fede nella presenza di Cristo nella Chiesa,
tanto più lo stupore dei segni di Dio scatterà anche nella situazione
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21 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 155.
22 Ivi.
23 Ibidem, p. 156.
24 Ivi.

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più nascosta, anche nel sorgere del pensiero più recondito. Allora non
occorre uno shock particolare per richiamare la grande origine che
costituisce la vita, basterà la normalità dell’istante. L’occhio, guardando
un punto, è portato ad abbracciare tutto il resto, e solo così quel punto
si proporziona veramente. In un analogo “abbracciare tutto il resto” si
situa la dimensione religiosa della coscienza [per questo Cristo è venuto:
per risvegliare il senso religioso]. Spesso noi viviamo la vita senza tale
visione complessiva, come se avessimo un difetto che parzializza il
nostro sguardo. Mentre la sorgente dell’estetica, dell’ethos, del vero è
la totalità».25
Come sarebbe la vita, amici, se ogni istante, il più nascosto, fosse
riempito di questa intensità! Per questo abbiamo bisogno che Qualcuno ci
liberi da questo difetto che parzializza il nostro sguardo: Cristo è venuto
proprio per liberarci da questo difetto, aprendoci alla totalità. Come?
Incollandoci a Lui, facendo sorgere tutta la nostra affezione, tutta la nostra
libertà e la ragione. «La fede cristiana nasce come attaccamento personale
a questo incontro. Dice Romano Guardini nella sua più bella pagina che
“una certa analogia di tale situazione avverte colui per il quale una persona
acquista un significato essenziale; ciò può avvenire in modo così possente
che tutto il mondo, destino, dovere, si attuano come attraverso una
persona amata: essa è come contenuta in tutto, tutto la fa ricordare, essa dà
senso a tutto. […] Nell’esperienza di un grande amore tutto si raccoglie,
nell’esperienza io-tu tutto ciò che accade diventa un avvenimento dentro
quell’ambito”».26 Avvenimento: ogni cosa è avvenimento perché mi
rapporto con tutto attraverso la commozione della persona amata e allora
tutto incomincia a parlarmi, a sorprendermi, come dice Abraham Heschel:
«Noi non ci avvediamo del mistero soltanto quando siamo giunti al culmine
della riflessione o nell’osservare fatti strani e straordinari, ma piuttosto
nel renderci conto del fatto sorprendente che esistono i fatti».27 Fatti che
prima sembravano scontati e che adesso incominciano a sorprenderci: e la
vita è tutta un’altra cosa, con gli stessi fattori.
È per questo che Lui è venuto: per aiutarci. Ma noi possiamo resistere,
come Gesù rimprovera nel Vangelo: «Diceva ancora alle folle: “Quando
vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così
accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade.
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25 L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., pp. 287-288.
26 L. Giussani, «Comunione e Liberazione oggi», in Quaderni Mazziani, n. 1, pro manuscripto,
Padova 1985-1986 (1986), p. 40.
27 A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Roma 1983, p. 76.

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Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo
tempo non sapete giudicarlo?”».28 Come fanno a non riconoscere i fatti
e i segni che Lui pone loro davanti? Non perché sono scemi. L’accusa
di ipocrisia è adeguata perché la gente ha sufficiente intelligenza per
riconoscere i segni del tempo (la nuvola e lo scirocco), perciò dovrebbe
essere anche capace di riconoscere i segni dell’azione di Dio. Su questo
non abbiamo alibi! Se non lo facciamo, non è perché ne siano incapaci,
ma perché non siamo disponibili a farlo.
3. «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?»È davanti a questa nostra indisponibilità che ci viene spesso la
domanda: dopo tutto quanto ci è accaduto e continua ad accaderci, è
possibile? Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio? Era la
domanda di Nicodemo, il quale riconosce dai segni che Gesù viene da
Dio. Ma dal commento alle parole di Nicodemo si capisce che Gesù
ha colto benissimo dove sta la difficoltà: se uno non si lascia generare
da quello che riconosce, non può vedere il Regno di Dio. È la stessa
condizione che troviamo indicata nel Vangelo di Matteo: «In verità
vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non
entrerete nel regno dei cieli».29
Il problema che si pone è chiaro: è possibile la rinascita dell’io, la
compiuta messa in opera dell’umano nella dinamica del rapporto con
la realtà e con se stessi (che altrimenti viene bloccata, mortificata,
mutilata)? Se il cristianesimo non interviene a questa profondità della vita
del soggetto, vuol dire che non è un avvenimento nella vita dell’uomo;
se è avvenimento, determina una diversità alla sorgente dell’io, che si
esprime innanzitutto nel modo di guardare, di rapportarsi al reale. Qui
si gioca tutta la ragionevolezza, tutta l’utilità, tutta la pertinenza della
fede alla vita. Se, infatti, la fede non produce un cambiamento in grado
di toccare la radice dell’io, non serve.
La risposta di Gesù alla domanda di Nicodemo è esplicita: l’uomo
non può rinascere da solo, è impossibile; può essere fatto rinascere,
può essere generato una seconda volta solo dall’alto, dallo Spirito. Ed è
sintomatico che qui i verbi, nel testo greco, siano tutti al passivo: essere
generati è opera di un Altro, è una grazia.
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28 Lc 12,54-56.
29 Mt 18,3.

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Continua l’episodio evangelico: «Replicò Nicodèmo: “Come può
accadere questo?”. Gli rispose Gesù: “Tu sei maestro in Israele e non sai
queste cose? In verità, in verità ti dico, noi parliamo di quel che sappiamo
e testimoniamo quel che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra
testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come
crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al
cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio
dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”».30 Qui si
mostra in atto tutta la dialettica tra la ragione e la libertà di fronte alla
persona di Gesù. La moralità si gioca nelle cose della terra, nei segni, nei
miracoli, nei fatti che accadono, cioè nell’atteggiamento che si assume
di fronte a una parola o a un gesto di Gesù, così come quello che si
assume di fronte ai segni del cielo che indicano che domani pioverà.
Le “cose del cielo”, attraverso la dinamica dell’Incarnazione, sono
divenute le “cose della terra”, che possiamo toccare con mano, come
dice san Giovanni: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo
udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo
contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della
vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò
rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il
Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi
lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con
noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo».31
In realtà, solamente una persona conosce le cose del cielo, ed è Colui
che è disceso dal cielo, Gesù. Pertanto il discernimento delle cose del
cielo passa attraverso l’atteggiamento che si assume di fronte a queste
cose terrene, che sono i segni e le parole di Gesù. Ma per questo uno
deve essere disponibile: se uno non nasce da acqua e da Spirito, non è
possibile rinascere. Qui troviamo un chiaro riferimento al Battesimo,
quando è incominciata questa rinascita per ciascuno di noi.
L’opera dello Spirito non si esaurisce nel gesto del Battesimo
e negli altri sacramenti, ma continua a operare nella vita. Come? Lo
disse in maniera definitiva Giovanni Paolo II incontrando i sacerdoti
del movimento nel 1985: «[La Grazia sacramentale] trova [...] la sua
forma espressiva, la sua modalità operativa, la sua concreta incidenza
storica mediante i diversi carismi che caratterizzano un temperamento
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30 Gv 3,9-15.
31 1Gv 1,1-3.

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e una storia personale».32 Perciò questa azione dello Spirito continua a
raggiungerci oggi attraverso il carisma, attraverso quello che lo Spirito
compie davanti a noi, sfidandoci in continuazione. È nella risposta a
quello che Lui fa che noi possiamo vedere la nostra disponibilità o meno
a seguire, a lasciarci generare, a lasciarci educare.
4. L’umano all’opera
L’impatto dell’uomo col reale – afferma don Giussani – ci fa
scoprire il «carattere esigenziale dell’esperienza esistenziale».33 Quelle
esigenze che mi costituiscono, il reale fa sì che vengano fuori tutte:
verità, giustizia, amore, felicità. Possiamo riassumere queste esigenze
nella grande domanda: quid animo satis?34 «L’uomo non si è dato da
sé il gusto per l’infinito e l’amore di ciò che è immortale. Questi istinti
sublimi non nascono da un capriccio della sua volontà: hanno il loro
fondamento immobile nella sua natura; esistono malgrado i suoi sforzi.
L’uomo può intralciarli e distorcerli, ma non distruggerli».35
E di nuovo possiamo dire: se è proprio del reale saper destare quelle
esigenze che ci costituiscono, nessun reale le desta così potentemente e
le fa venire a galla così chiaramente come il Fatto cristiano. Scrive don
Giussani che «la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, vale a
dire in una presenza [di una persona o di un gruppo] in cui si imbatte e
che sprigiona un’attrattiva [...] vale a dire provoca al fatto che il cuore
nostro, con quello di cui è costituito, con le esigenze che lo costituiscono,
c’è, esiste».36 Nessun’altra cosa fa venir fuori le esigenze costitutive del
nostro io come l’incontro.
Il cristianesimo è un avvenimento che fa rinascere l’io così, cioè che
fa venire fuori tutte le nostre esigenze, e lo si deve vedere dal modo
con cui noi ci rapportiamo al reale; ciascuno può fare la verifica nel
modo con cui si è mosso o non mosso davanti ai fatti che riempiono i
giornali in questi tempi e che hanno fatto piangere il Papa domenica a
Malta. Tutti, davanti ai dati che continuavano a venir fuori sui giornali,
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32 Giovanni Paolo II, «Discorso ai sacerdoti partecipanti a un corso di Esercizi spirituali promosso da Comunione e Liberazione», Castel Gandolfo - Roma, 12 settembre 1985.
33 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 157.
34 «Che cosa basta all’animo?» Cfr. A. Gemelli, Il Francescanesimo, Edizioni O.R., Milano 1932, cap. XIII.
35 A. de Tocqueville, La democrazia in America, Giulio Einaudi editore, Torino 2006, p. 591.
36 L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), op. cit., p. 182.

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abbiamo sentito l’urgenza di fare i conti con il grido di giustizia riguardo
alla vicenda della pedofilia. Questa, come quella di Eluana, è un fatto
pubblico a cui nessuno può sottrarsi, e che ci ha costretti a reagire, a
rispondere ai colleghi o in casa o a noi stessi. La vita, volenti o nolenti,
fa sempre venir fuori tutte le nostre esigenze, ma in questo caso la portata
della scommessa era ancora più drammatica, perché implicava una
sfida per la fede. Ciascuno può guardare come l’ha affrontata. Questa
è una circostanza che il Mistero non ci ha risparmiato, è un episodio
che, vissuto così, ha un valore educativo. Non pochi sono rimasti
sconcertati, se non addirittura smarriti. Mi ha scritto una persona: «Io
di fronte a questa questione non riesco a starci davanti». E un’altra: «Di
fronte alla provocazione scandalosa di questa vicenda, abbiamo sentito
in qualche modo la tentazione di adeguarci allo scandalizzarsi di tutti,
pur capendo naturalmente da subito quanto di strumentale c’era in tutta
questa vicenda». La vita ci sfida! Per me per primo è stata una sfida
affrontare questa vicenda, che mi ha messo al lavoro; e io sono sempre
più contento che non mi sia risparmiato niente e che debba far fronte alle
stesse vicende di tutti, perché è l’occasione per me della verifica della
fede e di crescere facendo i conti con tutto quello che accade. E l’esito
di questo è stato l’articolo pubblicato su la Repubblica: ho cominciato
riconoscendo che «mai come davanti alla dolorosissima vicenda della
pedofilia tutti abbiamo sentito tanto sgomento. Sgomento dovuto alla
nostra incapacità di rispondere all’esigenza di giustizia che veniva fuori
dal profondo del cuore. La richiesta di responsabilità, il riconoscimento
del male fatto, il rimprovero degli errori commessi nella conduzione
della vicenda, tutto ci sembra totalmente insufficiente di fronte a
questo mare di male. Niente sembra bastare. [...] Tutto questo è servito
per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di
giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della
ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita [è l’esigenza nostra
di giustizia, che è uguale a quella degli altri, e per questo possiamo
condividere con gli altri lo stesso grido]. […] Da questo punto di vista,
gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida
simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto.
Questo non vuol dire scaricarli delle responsabilità, tanto meno della
condanna che la giustizia potrà imporre loro».37 Non basterà neanche
scontare tutta la pena, come diceva il carcerato di Padova, Marino, che
ha partecipato alla Via Crucis: «Pagare non significa soltanto scontare
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37 J. Carrón, «Feriti, torniamo a Cristo», in la Repubblica, 4 aprile 2010, pp. 1.7.

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giorno per giorno una condanna lunga come la vita che hai davanti, vuol
dire anche convivere con un peso sulla coscienza che il trascorrere del
tempo non riesce ad alleviare perché si rinnova ogni giorno e ti insegue
di notte [ecco l’esigenza di giustizia]. Per quello che mi riguarda è come
se io non fossi mai veramente solo, ho la sensazione di vivere con la
persona che ho contribuito a uccidere durante un tentativo di rapina».
Tutti abbiamo avvertito tutta la sproporzione, tutta l’incapacità davanti
all’urgenza di giustizia che sentivamo bruciare dentro di noi; ma quanti
hanno fatto i conti con la sua infinitezza, cioè con il segno costituito dal
fenomeno stesso dell’esigenza? Qui si vede il diverso uso della ragione:
l’alternativa tra una fedeltà alla dinamica originale della ragione davanti
al reale o il tradimento di essa, l’assassinio dell’umano, la mancanza
dell’umano.
Don Giussani ci avverte: «Uno sguardo all’impatto continuo della
coscienza dell’uomo con la realtà che bloccasse la dinamica del segno,
che arrestasse il rimando che costituisce il cuore della esperienza umana,
compirebbe [guardate che cosa dice] un assassinio dell’umano, frenerebbe
indebitamente l’impeto di un dinamismo vivente».38 Bloccare, arrestare,
frenare: sono verbi che indicano sempre questa mancanza dell’umano.
Il problema, allora, è imparare dove mi blocco, dove mi arresto, per
riprendere la strada.
Perché ci fermiamo? Perché arrestiamo l’urgenza, l’esigenza? Per
due motivi: o per preconcetto, cioè riducendo l’esigenza di giustizia a
una propria misura (perché così, oltre che poter continuare ad accusare
l’unico che la affronta veramente, il Papa, si evita di fare i conti con la
propria incapacità di fare veramente giustizia); oppure per impotenza,
cioè per l’incapacità di stare davanti a questa esigenza (percependo una
solitudine che non è altro che l’incapacità di stare davanti al reale).
5. La contemporaneità di Cristo
Allora, che cosa consente di stare davanti a tutta l’esigenza senza
soccombere?
La risposta a questa domanda ce l’ha testimoniata il Papa con la sua
lettera e i suoi gesti. Che cosa ha consentito al Papa di stare davanti a
tutta l’esigenza di giustizia che si sentiva addosso, affrontandola con
coraggio e determinazione? «È proprio il suo riconoscimento della vera
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38 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 160.

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natura del nostro bisogno, del nostro dramma, l’unico modo per salvare
– per prendere sul serio e per considerare – tutta quanta l’esigenza di
giustizia. “L’esigenza di giustizia è una domanda che si identifica con
l’uomo, con la persona. Senza la prospettiva di un oltre, di una risposta
che sta al di là delle modalità esistenziali sperimentabili, la giustizia è
impossibile... Se venisse eliminata l’ipotesi di un ‘oltre’, quella esigenza
sarebbe innaturalmente soffocata” (don Giussani). E come il Papa l’ha
salvata? Appellandosi all’unico che può salvarla. Qualcuno che rende
presente l’aldilà nell’aldiqua: Cristo, il Mistero fatto carne. “Egli stesso
vittima di ingiustizia e di peccato. Come voi, egli porta ancora le ferite
del suo ingiusto patire. Egli comprende la profondità della vostra pena e
il persistere del suo effetto nelle vostre vite e nei vostri rapporti con altri,
compresi i vostri rapporti con la Chiesa”».39
Lo spiega benissimo don Giussani: «Solo il divino può “salvare”
l’uomo, cioè le dimensioni vere ed essenziali dell’umana figura e del suo
destino solo da Colui che ne è il senso ultimo possono essere “conservate”,
vale a dire riconosciute, conclamate, difese».40 Noi possiamo riconoscere
senza spaventarci tutte le nostre esigenze soltanto se Cristo permane
come una esperienza reale nel presente. Se l’io rinasce in un incontro,
abbiamo bisogno della contemporaneità di Cristo nel presente per
scoprire, per stare davanti a tutta la natura dell’io. Il metodo è sempre
lo stesso: è Qualcosa che viene prima, non solo all’inizio, ma in ogni
passo della strada. Se l’avvenimento di Cristo, invece, è cristallizzato in
dottrina, se è ridotto a etica o a spiritualismo, non è più in grado di destare
tutto l’umano, e quindi di reggere davanti alle vere esigenze umane. Se
non fosse per questa sua passione per Cristo, il Papa non sarebbe stato
in grado di guardare in faccia la situazione senza cedere alla paura delle
conseguenze che sarebbero potute venire; l’ha potuta affrontare perché
è certo, perché è sospeso sul pieno della presenza unica di Cristo, che
rende possibile fare così. Noi potremo stare davanti a tutta l’esigenza di
giustizia, a tutte le esigenze del nostro io, senza soccombere a ridurle alle
immagini che possono venire dai mass media, se come lui siamo sospesi
su un pieno, se siamo sostenuti dalla presenza di Cristo. L’esperienza di
Cristo ora – ora! – è decisiva per avere tutto il respiro dell’umano. Ed è
possibile solo perché c’è di mezzo il Mistero. Solo il divino può salvare
l’umano. Allora possiamo percepire anche qui la pertinenza della fede
alle esigenze della vita. «Fare appello a Cristo, dunque, non è cercare un
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39 J. Carrón, «Feriti, torniamo a Cristo», op. cit., p. 7.
40 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 104.

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sotterfugio per scappare davanti all’esigenza della giustizia, ma è l’unico
modo di realizzarla».41 Basta vedere – Tracce ne ha parlato – quello che
hanno scritto i carcerati di Padova o come persone che hanno sofferto
l’ingiustizia (la vedova Coletta o Gemma Calabresi) hanno potuto stare
davanti a questa esigenza di giustizia.
Parafrasando san Paolo, possiamo dire che, dopo la caduta, il dono di
grazia non è solo una restituzione della giustizia, ma una sovrabbondanza:
«La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma
laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia, perché come
il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la
giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore».42
Mi domandava qualcuno: «Sono dieci giorni che mi rigiro tra le mani
questo articolo [de la Repubblica], e voglio capire da dove nasce questo
giudizio». La risposta è semplice: questo giudizio nasce dalla sequela
del carisma. Noi abbiamo davanti uno da seguire, che ci ha insegnato a
lasciarci spalancare dai fatti per allargare la ragione. Io vedo crescere in
me ogni istante una gratitudine sempre più intensa e consapevole a don
Giussani. Dio ha avuto pietà di noi facendocelo incontrare, perché lui
ci ha testimoniato e proposto una strada che ciascuno può decidere se
percorrere o meno.
È possibile rinascere di nuovo quando si è vecchi, se uno è disponibile
a lasciarsi generare dalla potenza dello Spirito, che ci raggiunge in modo
particolare attraverso la grazia del carisma, senza ridurlo alla propria
misura o alla propria immagine. Questa è la contemporaneità di Cristo
per noi, l’unica in grado di consentirci di stare davanti al reale da uomini;
si tratta di un cammino che nella nostra cultura europea si è interrotto
secoli fa, perché molti pensarono di cavarsela da soli ritenendo che
per accedere alla verità la mediazione della tradizione cristiana fosse
qualcosa di esteriore, che imponeva alla ragione una inutile diversione
(non posso, ora, sviluppare questo punto).
Mi interessa sottolineare due corollari decisivi.
a) Esigenza di giustizia e ragionevolezza della fede
È solo prendendo sul serio tutta l’esigenza di giustizia che io capisco
la ragionevolezza della fede, perché è a questa esigenza di giustizia
non ridotta che solo Cristo può rispondere; mentre se è ridotta, non ho
bisogno di Cristo perché penso di riuscire a compierla con le mie mani
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41 J. Carrón, «Feriti, torniamo a Cristo», op. cit., p. 7.
42 Rm 5,20-21.

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(ma poi non siamo in grado di affrontare la vita, quando stringe…).
Perciò solo chi guarda in faccia tutta l’esigenza di giustizia può percepire
la pertinenza della fede alle esigenze della vita; chi invece riduce questa
esigenza, per paura o preconcetto, inevitabilmente percepirà la fede
come appiccicata, non scorgendone la necessità esistenziale.
b) Dignità culturale della fede
Senza un cammino così, non riusciamo ad avere un volto diverso e
originale nella società, ma siamo come tutti, reagiamo come tutti, con gli
stessi criteri di tutti: la mentalità di origine è più decisiva della mentalità
che nasce dall’incontro fatto, e questo ci rende inutili e superflui,
condannati a sparire nel tempo. Di recente il cardinale Angelo Scola ha
ricordato, commentandola, una convinzione di Giussani: «“Mi apparve
allora chiaro che una tradizione, o in genere un’esperienza umana, non
possono sfidare la storia, non possono sussistere nel fluire del tempo, se
non nella misura in cui giungono a esprimersi e a comunicarsi secondo
modi che abbiano una dignità culturale”. Ma questa dignità culturale è
impossibile se non a partire dall’esperienza di un soggetto, personale
e comunitario, ben identificato nei suoi tratti ideali ma inserito nella
storia, che si proponga, con semplicità e senza complessi, all’uomo in
forza delle sue ragioni intrinseche [non del potere]. Un simile soggetto
non teme un confronto a tutto campo».43
Per questo dobbiamo superare questo dualismo, come racconta
uno di voi: «L’altra sera io e mia moglie siamo stati invitati a cena
da degli amici che stanno cominciando ora a lavorare nel mio stesso
campo. Abbiamo discusso del lavoro. Io da parte mia ho dato loro un
mucchio di buoni consigli. Tornando a casa, durante il viaggio in auto
mia moglie mi ha confermato che i miei “consigli tecnici” (così li ha
definiti) erano buoni, ma ha notato che per l’intero corso della serata ci
eravamo mantenuti alla superficie, senza andare alla radice della vita.
Il vero problema, notava mia moglie, era che la circostanza lavorativa
dura, di cui i nostri amici si lamentavano, era un’occasione di verifica
della loro fede, ma di questo nessuno attorno a quella tavola sembrava
essersi accorto. Il punto è che quando mia moglie ha pronunciato le
parole “verifica della fede” per me è stato come ricevere un pugno allo
stomaco, ho avvertito un senso di estraneità. Mi sono reso conto subito
che mia moglie aveva ragione da vendere, ma quel senso di estraneità,
anche se è durato solo un istante, mi ha posto dinanzi l’evidenza che
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43 A. Scola, «La convenienza umana del cristianesimo», in ilsussidiario.net, 22 febbraio 2010.

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ultimamente a prevalere in me è quel dualismo di cui spesso ci hai parlato
in questi anni e che per me era rimasto sempre un concetto fumoso.
Un dualismo nascosto magari sotto le ceneri della devozione, per cui
si prega all’inizio e alla fine della giornata e magari anche durante, ma
ultimamente la fede rimane un volontarismo per cui vale ciò che riesco
a compiere, e Dio resta solo sullo sfondo. So che è il nostro lavoro da
mesi, eppure torno a chiederti una mano su questo, non solo per capire
i termini della questione, ma perché vedo la certezza e la letizia di mia
moglie e di altri amici e desidero per me quella stessa certezza e quella
stessa letizia, che intuisco derivare da una unità, da un attaccamento a
Cristo che io non ho».
Il soggetto nuovo non è dualistico perché il cambiamento riguarda
il modo stesso di guardare, di percepire, di giudicare, di sentire, di
manipolare, di trattare la realtà (personale, sociale, culturale, politica),
perciò la radice dell’io. La fede, amici, non si affianca al modo di
concepire e di affrontare il reale che è proprio di tutti (stabilito dal
contesto, dal preconcetto in voga, dalla moda); non si aggiunge come
un di più di interiorità e di etica a una concezione delle cose già fatta,
no. La fede diventa proprio principio di un modo nuovo − cioè vero −
di prendere coscienza della realtà stessa. Questa è la sfida che abbiamo
davanti: la generazione di un soggetto che non tema un confronto a tutto
campo, perché è questo quello che desideriamo. «Io desidero la certezza
e la letizia di mia moglie»: il cristianesimo si comunica per invidia, è
sempre stato così.
Conclusione: un Tu che domina
Noi possiamo quindi essere diversi e originali, se è un Tu che
domina; e questo è possibile solo se accettiamo di spostare il nostro
centro affettivo. Spostare il nostro centro affettivo significa «spostare il
centro affettivo da sé a un Tu – a un Tu [che opera nel reale, ci stupisce
e ci chiama: altro che spiritualismo]! –, e questo libera e ti rende pieno
di letizia [come diceva il nostro amico descrivendo sua moglie], come il
bambino è pieno di letizia perché c’è sua madre: il suo centro affettivo
è un altro, e allora è a posto, è equilibrato. Se va via sua madre, il centro
affettivo ricade su di sé, il sentimento di sé cambia: piange, è disperato,
o violento, violento nel gioco [o rabbioso]. È questo il messaggio, è
Sabato mattina
25
proprio questo: che l’ultimo aspetto della questione è una presenza
reale, perché Cristo è risorto».44
È quello a cui ci richiama don Giussani mentre ci testimonia Chi
domina in lui: «Per capire cos’è il tradimento, ragazzi, dobbiamo pensare
alla nostra distrazione, perché è un tradimento passare le giornate,
le settimane, i mesi… guardate ieri sera, quando l’abbiamo pensato?
Quando l’abbiamo pensato seriamente, con cuore, nell’ultimo mese,
negli ultimi tre mesi, dall’ottobre fino ad adesso? Mai. Non lo abbiamo
pensato come Giovanni e Andrea lo pensavano mentre lo guardavano
parlare. Se ci siamo fatti delle domande su di Lui, è stata curiosità,
analisi, esigenza di analisi, di ricerca, di chiarificazione, di chiarimento.
Ma che l’abbiamo a pensare come uno, veramente innamorato, pensa
alla persona di cui è innamorato (anche lì capita rarissimamente perché
tutto è calcolato in base al ritorno!), puramente, in modo assolutamente,
totalmente distaccato, come puro desiderio del bene... tanto che se
l’altro non lo riconosce lui alimenta il desiderio del bene dell’altro più
ancora!».45 Si capisce perché un uomo di questa statura può scrivere
«che il primo oggetto della carità dell’uomo si chiama Gesù Cristo».46
È quello che vedo succedere sempre più spesso tra di noi. Questo è
il movimento: persone dominate dal Tu di Cristo; la nostra compagnia
è piena di testimonianze di persone dominate da questo Tu, forse non
appaiono, ma ce ne sono tantissime, come vedo spesso visitando le
comunità. Mi scrive uno: «Parto nel raccontarti cosa in questo periodo
sta accadendo. La cosa che più mi sconvolge è il bene che Cristo ha
per me, è la commozione che Lui ha nei miei confronti prima ancora
della mia commozione. Non mi sento di annullare i miei desideri. Io
chiedo tutto e accetto tutto secondo la modalità che Lui decide, non c’è
condizione oggi che mi determini, mi determina quello sguardo buono
che Lui ha per me anche davanti alla malattia di mia moglie o dei miei
bambini». O un’altra: «Mi sembra di essere rinata: sono lieta, con una
tenerezza per me che non ho mai avuto. La vita ora ha una intensità
che da tempo non conoscevo. Presa da mille cose semplicemente non
mi accorgevo più, commossa, della Sua presenza. Veramente si può
rinascere quando si è vecchi».
Sotto la pressione di questa commozione uno può amare Cristo in
qualsiasi circostanza; perché senza Cristo la circostanza è insopportabile.
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44 L. Giussani, Qui e ora, BUR, Milano 2009, p. 80.
45 L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 329.
46 Ibidem, p. 339.

26
Per questo sentiamo sempre di più l’urgenza, la sete di questo Tu di
cui parla il Salmo: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, / di
te ha sete l’anima mia, / a te anela la mia carne, / come terra deserta,
/ arida, senz’acqua».47 Perché questa sete? Perché questo desiderio?
Perché la Tua grazia vale più della vita, o Cristo. È questo che dobbiamo
domandare sempre allo Spirito, il quale rende sempre presente Cristo,
ce Lo fa riconoscere, ce Lo fa desiderare come ciò per cui vale la pena
vivere, alzarsi la mattina, andare a lavorare o avere dei figli.
Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam, e ridesta in noi questo desiderio
di Cristo perché possiamo conoscerLo sempre di più, non come parola,
ma come esperienza di cui non possiamo fare a meno, tanto diventa
diversa la vita, come intensità, come presenza a noi stessi, alla realtà e alle
persone più care o più estranee, affinché viviamo tutto sotto la pressione
di questa commozione, sotto la carica di questa commozione che Tu,
Spirito, comunichi a noi nella carità del Mistero! Tu sei quell’amore che
si è diffuso nei nostri cuori in modo che possiamo vivere così: l’altro
mondo in questo mondo!
Il Salmo continua: «Così ti benedirò finché io viva, / nel tuo nome
alzerò le mie mani».48 È la gratitudine che invade tutta la persona per
la novità che introduce Cristo. Per questo «nel mio giaciglio di te mi
ricordo, / e penso a te nelle veglie notturne, / a te che sei stato il mio aiuto,
/ esulto di gioia all’ombra delle tue ali. // A te si stringe l’anima mia / e
la forza della tua destra mi sostiene».49 A Te mi stringo con gratitudine:
“incollami” sempre di più a Te, o Cristo! Questo essere incollato a Te è
ciò che dà la forza per essere con tutto me stesso nel reale. Tu sei la mia
forza, non io: l’essere attaccato a Te è la forza.
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47 Sal 63,2.
48 Sal 63,5.
49 Sal 63,7-9.
Sabato mattina
27
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SANTA MESSA
Liturgia della Santa Messa: At 9, 31-42; Sal 115; Gv 6, 60-69
OMELIA DI SUA EMINENZA CARDINALE ANGELO SCOLA
PATRIARCA DI VENEZIA
1. «Dio, nell’acqua del Battesimo hai rigenerato coloro che credono
in te». Così ci ha fatto pregare l’Orazione di Colletta. All’interno di
questi Esercizi spirituali cui prendono parte, in vari modi, membri della
Fraternità di Comunione e Liberazione di numerosi Paesi del mondo,
l’azione eucaristica che stiamo celebrando rende presente l’unico ed
irripetibile evento salvifico di Gesù Cristo. Siccome la rigenerazione che
salva può avvenire solo nel presente, allora l’amata persona di Cristo
Gesù, presente qui ed ora per la potenza del Suo Spirito, sta rigenerando,
sta salvando proprio me, proprio te qui ed ora. Sono io, sei tu il rigenerato,
«l’uomo nuovo di cui Cristo parlava a Nicodemo, l’uomo che nasce
dall’alto: dall’alto, cioè dall’Altro!», dice don Giussani. E continua: «Si
tratta realmente di una “concezione” di sé, di una concezione generata
dal riconoscimento e dall’accettazione dell’Altro come l’attrattiva che
mi costituisce» (cfr. Certi di alcune grandi cose, p. 218).
Don Giussani fa leva sul doppio significato della parola concezione:
nel Battesimo ogni uomo – ognuno di noi lo ha ricevuto – è concepito di
nuovo come figlio nel Figlio e da qui ha origine per lui, per il battezzato,
una nuova concezione di sé. E Benedetto XVI così la descrive, in modo
lapidario: «“Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza
cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro
al tempo, la formula [ecco il presente cristiano,“la risurrezione dentro
al tempo”] la formula – insiste Benedetto XVI – della novità cristiana
chiamata a trasformare il mondo» (Omelia al Convegno ecclesiale di
Verona, 19 ottobre 2006). «Io, ma non più io».
Carissimi amici, io non so per voi, ma per me, anche dopo tanti anni
di cammino cristiano, è impossibile non percepire l’urto, starei per dire
lo sconquasso che queste affermazioni di radice paolina provocano in
noi, se non altro per l’oceano di distrazione in cui normalmente siamo
immersi, forse anche qui, in questo momento.
L’uomo è concepito come cristiano nel Battesimo. Ma, soprattutto
se l’ha ricevuto da bambino, come la quasi totalità di noi, il Battesimo
fiorisce in una nuova concezione di sé e di vita quando per ciascuno di
noi avviene l’incontro personale con Cristo nella Chiesa.
Esercizi della Fraternità
28
Come è stato detto poco fa da don Julián, questo incontro è dovuto
alla grazia del carisma che rende persuasiva la grazia permanente del
Battesimo e dell’istituzione ecclesiale. Lo ha precisato il Venerabile
Giovanni Paolo II – e cito qui una frase appena richiamata, perché è
decisiva –: la grazia sacramentale, oggettiva, indispensabile, sempre
permanente, che scaturisce dal sacramento, dalla Parola di Dio ed è
ultimamente garantita dall’autorità oggettiva della Chiesa, questa grazia
sacramentale e istituzionale permanentemente all’opera – dice il Papa
– «trova la sua forma espressiva, la sua modalità operativa, la sua
concreta incidenza storica mediante i diversi carismi che caratterizzano
un temperamento ed una storia personale» (Discorso ai sacerdoti
partecipanti a un corso di Esercizi spirituali promosso da Comunione e
Liberazione, 12 settembre 1985).
Ognuno di noi, ogni cristiano dovrebbe compiere l’esercizio (uso
la parola come la usava Sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali), di
rinvenire e custodire con precisione nella propria vita il quando ed il
come di questo incontro personale e riandarvi continuamente per restarvi
fedele.
Tutti noi sappiamo che ogni grazia – ciò vale per il sacramento
e vale per il carisma – non può essere posseduta una volta per tutte,
non può essere tenuta nelle nostre impotenti mani come una cosa,
neppure semplicemente una dottrina ben articolata o come una serie di
comportamenti ben regolati, come si possiede un oggetto. Perciò ognuno
di noi, qui ed ora, se appena è autentico, può riconoscersi in Nicodemo,
combattuto tra lealtà e scetticismo. Pensiamo a quante volte si riaffaccia
maligna la nostra misura nell’uso della ragione – «Come può nascere un
uomo quando è vecchio?» (Gv 3,4); o quando la libertà si impunta – ottusa,
o addirittura capricciosa – «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?»
(Gv 6,60). E allora, quando siamo preda di questo scetticismo della
ragione e della volontà, la realtà non ci parla più, ci sfugge come la luce,
se volessimo trattenerla nelle nostre mani impotenti.
2. Chi ci libererà da questa ultima tristezza di vita? Solo il “testimone
fedele” (Ap 3,14). Così l’Apocalisse definisce Gesù. Lui e quanti Lo
seguono, come facciamo umilmente anche noi, come si segue una
presenza che diventa il centro affettivo di tutta l’esistenza. Il carisma
vive nell’incontro storico con il testimone in cui splende la novità del
Risorto. È data così all’uomo la possibilità di ri-nascere come avvenne
fisicamente, in forza del testimone Pietro, per Tabità, la Gazzella
risuscitata della Prima Lettura.

29
Ma la grande parola “testimonianza” va strappata a ogni riduzione
moralistica, non va confinata nel pur necessario buon esempio. La
testimonianza ha da essere, in tutta la sua forza, il metodo di conoscenza
della verità, perché è la modalità adeguata del rapporto dell’io con la
realtà. Metodo di conoscenza della verità è la testimonianza perché è il
modo con cui la verità si comunica, e noi sappiamo bene, per esperienza,
che una verità è conosciuta solo quando è comunicata. La ri-nascita
battesimale consente l’incontro di tutto l’io con tutta la realtà perché
apre ed accompagna la libertà a quella relazione buona, costitutiva per
eccellenza, che è la comunione con l’Altro (con la maiuscola) garantitaci
da Cristo e, in Lui, comunione con tutti i fratelli; con Cristo e, in Lui,
con i fratelli. Il cristianesimo è realmente la nuova parentela, più forte
di quella della carne e del sangue.
Ma la comunione è a tal punto “dall’Alto”, è a tal punto dono che in
mille modi noi le opponiamo resistenza. Pertanto la provocatoria domanda
di Gesù nel Vangelo di oggi: «Volete andarvene anche voi?» poco o tanto
è rivolta a tutti noi, qui riuniti. Il fatto di essere venuti fin qui con tanto
sacrificio potrebbe, a prima vista, esimerci da questa domanda, ma sarebbe
un’ingiustizia ultima verso la nostra sensibilità carica di ragione tesa alla
totalità. La vitalità del carisma, a cinque anni dalla morte di don Giussani,
domanda testimoni tesi ad una umanità riuscita. Il carisma incalza la
libertà di ciascuno dei membri di Comunione e Liberazione perché giunga,
come quella di Simon Pietro, fino alla verifica sulla propria pelle della
convenienza della sequela: la convenienza dell’appartenenza a Cristo
e alla Chiesa attraverso la forma generata dal carisma di don Giussani,
dal movimento di Comunione e Liberazione. E quale fu la verifica di
Pietro? Il Vangelo ce la propone in tutta la sua disarmante evidente forza:
«“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo
creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» (Gv 6,69).
3. Come può credere e riconoscere Cristo come il Salvatore, cioè
rinascere dall’alto, dall’Altro, l’uomo di oggi, l’uomo post-moderno,
tentato di cercare la salvezza nelle strabilianti scoperte delle tecnoscienze
in campo evolutivo, biologico, neuroscientifico, considerando, non
di rado, la fede religiosa al massimo come una soggettiva opportunità
consolatoria?
L’unica condizione, anche nell’attuale frangente storico, resta
l’incontro con testimoni di una umanità redenta, perciò piena e
conveniente, e quindi ben radicata nella post-modernità. Bisogna però
su questo essere chiari.

30
Vivere da uomini redenti non significa essere impeccabili, sarebbe
una mostruosa presunzione, ma – come affermava Agostino – significa
“amare la vita nuova”, la vita secondo Cristo, avere “il pensiero di
Cristo”, cioè pensare come Cristo e pensare Cristo attraverso tutte le
cose, perché siamo amati da Colui che ci ama per primo: «Deus prior
dilexit nos». Afferma Agostino: «Non amiamo se prima non siamo
amati… Cerca – dice al suo interlocutore – per l’uomo il motivo per cui
ama Dio e non troverai che questo: perché Dio per primo lo ha amato»
(Discorso 34,1-3; 5-6).
Percepisci tu questo? È una tua esperienza quotidiana questo dato,
che Deus prior dilexit te, che ti sta amando per primo? È l’orizzonte
della tua coscienza?
Un simile, credibile testimone si riconosce dall’unità della sua
persona. L’unità è il valore su cui si fonda l’esperienza elementare
dell’io. Ma l’unità dell’io si sostanzia di relazioni buone. A partire
da quelle primarie col papà e con la mamma, fino a includere tutte le
relazioni in cui l’uomo ri-nasce scoprendo ogni volta, anche dopo la
caduta o i naufragi, che il disegno buono del Dio amante e fedele non
viene meno, Egli non cessa di rispondere alla promessa di compimento
− a cui devi riandare continuamente − destata dall’incontro con Cristo,
nella compagnia. Questo è il fenomeno dell’autorevolezza, dell’affiorare
della santità, che non può stare e non sta mai senza l’autorità costituita.
L’autorità costituita è la figura umana attraverso la quale si segue con
certezza «il disegno dello Spirito di Dio nella storia e nella nostra vita»
(Don Giussani, Da quale vita nasce Comunione e Liberazione).
Unità dell’io, unità della Chiesa guidata dal Successore di Pietro e dai
successori degli Apostoli. E unità con chi nella compagnia vocazionale,
nata dal carisma a cui si partecipa, ha ricevuto la responsabilità
oggettiva di guida. Unità, quindi, non esteriore, non estrinseca, non
come ossequio formale, neanche in ultima analisi per un calcolo buono
− perché è ovvio che la divisione non è mai foriera di fecondità −, ma
l’unità vissuta come abito permanente e virtuoso, a partire dal tuo cuore,
dalla tua mente, dalla tua azione. Questa unità, che incomincia dall’io
e raggiunge tutte le espressioni ecclesiali e, tendenzialmente, sociali e
civili, dice e manifesta più di tutto il resto la novità dell’uomo redento
ed assicura il permanere della Chiesa nella storia e di ogni carisma nella
Chiesa. È per questo che l’unità non teme mai (mai!) la correzione,
comunque nasca, perché nulla può intaccare il fatto che l’unità, in
quanto donata dall’alto, sempre ci precede, mobilitandoci.

31
4. «Che cosa renderò al Signore per tutti i suoi benefici?» abbiamo
ripetuto col Salmo responsoriale. Come non vedere lo spettacolo di
questa grande assemblea, partecipata da migliaia e migliaia di altre
persone in tutto il mondo, come non vederlo nell’ottica del grande
dono, del grande beneficio che il Signore ci ha fatto? Ebbene, cosa
renderò io, cosa renderemo noi? La preferenza, verso di te, verso
ognuno di noi, dimostrata dal Signore con il dono della fede, il
Battesimo, e con la partecipazione al carisma di don Giussani, rende
più acuta la consapevolezza e più struggente la passione che, come ci
documenta il Libro degli Atti, condusse i primi sulle strade del mondo.
A questo proposito è utile che non ci lasciamo sfuggire quello che solo
apparentemente è un dettaglio della Prima Lettura. Descrivendo la vita
e la missione di Pietro, dice infatti il Libro degli Atti: «E avvenne che
Pietro, mentre andava a far visita a tutti…» (Vangelo).
In questo «far visita a tutti» sono espressi l’orizzonte e la natura
propria della missione della Chiesa e di ciascuno di noi. Non c’è
circostanza – favorevole o sfavorevole che sia –, né situazione (o
rapporto) all’interno dell’umana esistenza che sia estranea al dono
del Risorto. Niente e nessuno: «Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e
Cristo è di Dio» (1Cor 3,22). Per questo la missione chiede un’apertura
alla realtà a tutto campo e assegna a ciascuno di noi una ben precisa,
personale, responsabilità. Nessuno può sostituirti in questo compito: ti
è chiesto, ci è chiesto di assumere, come uomini nuovamente concepiti
e continuamente rigenerati nello Spirito, le circostanze vocazionali
personali e comunitarie, sempre concrete e storicamente situate,
favorevoli o avverse, fatte di tempo e spazio, di stato di vita, di affetti,
lavoro e riposo, di gioie e dolori, di sofferenze, di lutti, di morte, di
prospettiva di eternità, di speranza e di problemi complessi. Tutto, tutto
è vostro per documentare la convenienza suprema dello spendere la
propria esistenza “in Cristo”, come Paolo definisce il cristiano: colui che
esiste in Cristo. La missione si gioca in ogni luogo e in ogni momento e
non potrà mai essere immaginata come la riproposizione meccanica di
formule o iniziative. Rifletti bene, amico mio, la vita ti è data per essere
donata. Se non la doni, il tempo te la ruba.
Unità e missione sono l’espressione della gratitudine al Signore e
a coloro che ci hanno preceduto e accompagnato nella Sua sequela.
Anzitutto al carissimo don Giussani.
5. Affidiamo alla Vergine Maria, Mater Ecclesiae, il nostro cammino,
il futuro carico di speranza affidabile di ciascuno dei membri di

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Comunione e Liberazione e del movimento tutto. Ella è la madre dei
credenti, dei “risorgenti”, dei redenti, perché il Suo “sì” è la sorgente del
mondo trasfigurato, ambiente di vita degli uomini liberi, ma liberi perché
sempre e di nuovo liberati dall’alto. Amen.
PRIMA DELLA BENEDIZIONE
Julián Carrón.
Carissima Eminenza, desidero ringraziarti tantissimo
a nome di tutti perché hai voluto partecipare con noi a questi Esercizi.
Siamo sempre colpiti dalla tua testimonianza di pastore premuroso per
il popolo a te affidato e per il coraggio e l’intelligenza con cui tu segui
il Papa. La tua persona – questa mattina abbiamo avuto l’occasione
di vederlo ancora – è il segno più evidente di come il carisma di don
Giussani sia fattore vivificante di tutta la Chiesa e sorgente di una
umanità sempre nuova. Per questo ti ringraziamo e ti chiediamo di
esserci sempre vicino. Grazie.
Cardinale Scola. Sono io a ridire la mia gratitudine a voi tutti, a don Julián, nel vincolo di affetto con don Giussani, sempre più vivo col passare del tempo, a testimonianza e documento che la comunione dei santi è più forte del semplice pellegrinaggio terreno, perché immette nel tempo l’Eterno, e quindi apre realmente a una speranza affidabile.
Così dobbiamo vivere questo nostro tempo post-moderno. È un tempo
di travaglio, questa è la sua figura più giusta, non tanto di crisi − dal
continuare a parlare di crisi nasce solo il lamento che staticizza −; il
travaglio è una laboriosità che anticipa la vita, anticipa la gioia della
vita.
Sempre, fin dagli inizi, nel ’54, mi pare il don Gius così ha guardato
al tempo, lanciandoci nel mondo in Cristo, per Cristo e con Cristo,
non con le nostre forze, umili eppure “baldanzosi”. Assumiamo questo
nostro tempo come figli suoi, ma soprattutto come figli di Dio, come
gente che sa che deve invocare ogni giorno la rinascita dall’Alto.
Siamo dunque testimoni nel tessuto concreto del quotidiano,
seguendo il carisma in tutta la sua forza, il Papa come garanzia che il
carisma vive nell’istituzione della Chiesa e i vescovi con lui, offrendo,
istante dopo istante, la nostra vita per la gloria dell’umanità di Gesù
Cristo.

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Sabato 24 aprile, pomeriggio
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Quartetto d’archi in re minore, D 810, “La morte e la fanciulla”
Amadeus Quartet
“Spirto Gentil” n. 7, Deutsche Grammophon

SECONDA MEDITAZIONE
Julián Carrón
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3)
Stiamo cercando di descrivere la mancanza dell’umano per poter
colpire la frattura tra il sapere e il credere. Finora abbiamo giocato il
fattore della ragione, della coscienza. Ora dobbiamo affrontare un altro
fattore essenziale alla definizione dell’uomo: la libertà.
1. Attraverso la libertà: l’umano intero«
L’uomo come essere libero non può arrivare al suo compimento,
non può arrivare al suo destino se non attraverso la libertà [...]. Se io
fossi portato al mio destino senza libertà, io non potrei essere felice, non
sarebbe una felicità mia, non sarebbe il destino mio».50 Che esaltazione
unica dell’io! Di fronte alla tentazione sempre in agguato di cercare
«sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere
buono»51 – come dice T.S. Eliot –, Giussani esalta in un modo incredibile
il coinvolgimento dell’io. La ragione è la stessa che aveva già dato
Platone tanti secoli fa durante un suo Dialogo: «“E che vantaggio avrà
[l’essere umano] dal venire in possesso delle cose buone?”. “A questo
– dissi io – mi è più facile fornirti una risposta: sarà felice”. “Infatti – disse
–, è appunto per il possesso delle cose buone che sono felici quelli che
sono felici, e non c’è più bisogno di fare questa ulteriore domanda: Chi
vuole essere felice, a che scopo vuole essere felice? Perché la risposta
ha ormai raggiunto il suo fine”. “Dici il vero”, risposi. “Questa volontà
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50 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 168-169.
51 T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”, BUR, Milano 1994, p. 89.
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e questo amore credi che siano una cosa comune a tutti gli uomini, e
che tutti vogliano possedere? O come dici?”. “Proprio così – dissi –,
che sia una cosa comune a tutti”».52 È comune a tutti gli uomini questo
desiderio di possedere le cose buone, che siano mie. Ma per raggiungerle
occorre amare, aderire, cioè coinvolgere la nostra libertà, e questo a volte
– lo sappiamo bene – vogliamo risparmiarcelo, è una tentazione che sta
sempre in agguato. Scrive Luisa Muraro: «Noi abbiamo sempre voglia di
dare la responsabilità della nostra vita a qualcuno; cerchiamo facilmente
qualcuno a cui dire: “Occupati tu della mia vita, per favore”».53 E state
certi che ci sarà sempre qualcuno così “caritatevole” che è pronto a
prendersela...
Se qualcuno vuole cercare che un altro gli risparmi la libertà – si chiami
direttore spirituale o capo o amico, è lo stesso –, deve aver chiaro che così
non raggiungerà la felicità, che niente diventerà mai suo, perché io non posso
arrivare al mio compimento se non attraverso la mia libertà, altrimenti non
sarà mai mio. E se io questo non lo capisco – come purtroppo tante volte
vedo che non lo capiamo –, cercherò sempre di scaricare il dramma della
mia libertà su un altro. È di quel peso che vuole scaricarci – nella famosa
Leggenda di Fëdor Dostoevskij – il Grande Inquisitore, che rimprovera
Cristo per il dono della libertà. È impressionante rileggerlo: «Invece di
impadronirti della libertà umana, l’hai moltiplicata, e hai oppresso per
sempre col peso dei suoi tormenti il regno spirituale dell’uomo. Tu volesti
il libero amore dell’uomo, volesti che Ti seguisse liberamente, incantato e
conquistato da Te. Al posto dell’antica legge fissata saldamente, da allora
in poi era l’uomo che doveva decidere con libero cuore che cosa fosse
bene e cosa fosse male, e come unica guida avrebbe avuto davanti agli
occhi la Tua immagine: ma è possibile che Tu non abbia pensato che alla
fine avrebbe discusso e rifiutato anche la Tua immagine e la Tua verità, se
lo si opprimeva con un peso così spaventoso come la libertà di scelta?».54
È questo peso che il Grande Inquisitore, ogni Grande Inquisitore, vuole
risparmiarci. Il suo programma sarà quello di alleggerire l’uomo da questo
insopportabile peso sostituendo la libertà con l’autorità. L’umanità sarà
così ridotta a un gregge felice, e la felicità verrà pagata al prezzo della
libertà. Ma una felicità così non sarà mai mia!
A volte ci liberiamo di questo peso e della responsabilità che
impiccia gettando le colpe tutte intorno (sulle circostanze, sugli altri,
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52 Platone, Simposio, 204E-205A.
53 L. Muraro e A. Sbrogiò, (a cura di), Il posto vuoto di Dio, Marietti, Milano 2006, p. 25.
54 F.M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, BUR, Milano 1998, p. 341.
Sabato pomeriggio
35
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sulla compagnia, sulla Fraternità, sul vattelapesca), ma è inutile perché –
sempre mi ha colpito questa frase di don Giussani – «nessun esito umano
può essere imputato esaustivamente a mere circostanze esteriori, poiché
la libertà dell’uomo, pure infragilita [per il peccato originale], resta
contrassegno indelebile della creatura di Dio».55 È davvero commovente
questa affermazione dell’uomo non ridotto ad alcun fattore antecedente
di tipo biologico, psicologico, sociologico, di qualsiasi natura. La libertà
dell’uomo, pur infragilita, resta contrassegno indelebile della creatura
di Dio: questa è la nostra dignità di uomini! «È attraverso la mia libertà
che il destino, il fine, lo scopo, l’oggetto ultimo può diventare risposta
a me [tanto è vero che se io non rischio la verifica di quello che ho
incontrato attraverso la mia libertà, non posso vedere se è risposta a me,
non posso toccare con mano, fare l’esperienza che è risposta a me; e,
senza fare l’esperienza diretta, ciò che mi viene proposto non diventerà
mai mio, ma rimarrà esterno a me: non è che lo metta in discussione, non
è che non ci creda, ma non è mio]. Non sarebbe umano un compimento
dell’uomo, non sarebbe compimento dell’essere umano, se non fosse
libero».56 Di nuovo abbiamo tutti i segni che ci consentono di capire
quando c’è l’umano e quando manca.
«Ora, se il raggiungimento del destino, del compimento deve essere
libero, la libertà deve “giocare” anche nella scoperta di esso. Anche la
scoperta del destino, del significato ultimo, se fosse automatica, non
sarebbe più mia». Questa osservazione di don Giussani è da non dare per
scontata, perché noi di solito pensiamo che la libertà c’entri solo con la
risposta una volta che io ho conosciuto, e non anche con la scoperta. «Il
destino è qualcosa di fronte al quale l’uomo è responsabile; il modo che
l’uomo ha di raggiungere il suo destino è responsabilità sua, è frutto della
libertà. La libertà dunque ha a che fare non solo con l’andare a Dio come
coerenza di vita, ma già con la scoperta di Dio».57 Cioè: pensiamo che
la libertà entri in gioco soltanto dopo che la ragione L’ha scoperto, non
nella scoperta, non nella conoscenza, ma soltanto nell’essere coerente
rispetto a Colui che ho conosciuto. Invece – quanto è decisivo questo!
– non c’è conoscenza, se non entrano in gioco contemporaneamente
ragione e libertà. E così come vorremmo raggiungere il destino senza
la libertà, vorremmo anche una conoscenza che non avesse bisogno di
implicare la libertà.
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55 L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., p. 45.
56 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 169.
57 Ivi.

36
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In questo siamo proprio moderni. La modernità persegue un tipo di
conoscenza così certa che pensa di poterla ottenere solo al prezzo di
lasciar fuori la libertà. Per questo nella conoscenza c’è una frattura tra
ragione e libertà: i “moderni” non riescono a mettere insieme ragione e
libertà. Anche noi tante volte pensiamo che, se entra in ballo la libertà,
la conoscenza non possa essere certa. Per essere affidabile – pensiamo
– la conoscenza deve essere libera dall’influsso della libertà. C’illudiamo
di poter conoscere senza coinvolgerci, rimanendo distaccati, facendo i
giudici di tutto. «Se l’atteggiamento verso la realtà condiziona la sua
conoscenza e perfino, relativamente, la sua presenza effettiva, è perché la
libertà umana si manifesta qui come ovunque [...] potendo dire sì o no di
fronte a essa».58 Tanto è vero che san Gregorio di Nissa diceva che l’uomo
«se mette da parte la libertà, perde all’istante il dono dell’intelligenza».59
È quanto abbiamo sempre imparato da don Giussani: «Vi sono tanti
scienziati che, approfondendo la loro esperienza di scienziati, hanno
scoperto Dio; e tanti scienziati che hanno creduto di eludere o di eliminare
Dio attraverso la loro esperienza di scienza. Vi sono tanti letterati che
attraverso una percezione profonda dell’esistenza dell’uomo hanno
scoperto Dio; e tanti letterati che attraverso l’attenzione all’esperienza
umana hanno eluso o eliminato Dio. Vi sono tanti filosofi che sono
arrivati a Dio attraverso la loro riflessione; e tanti filosofi che attraverso la
riflessione hanno escluso Dio. Allora vuol dire che riconoscere Dio non è
un problema né di scienza, né di sensibilità estetica e neanche di filosofia
come tale. È un problema anche di libertà. Lo riconosceva uno dei più
noti neo-marxisti, Althusser, quando diceva che tra esistenza di Dio e
marxismo il problema non è di ragione, ma di opzione».60 Senza che la
libertà entri in gioco non c’è conoscenza, perché – come afferma Nicolaj
Berdjaev – «la conoscenza non è un processo meramente intellettuale; vi
partecipano tutte le energie dell’uomo, la scelta volontaria, l’attrazione e
la repulsione nei riguardi della verità».61
Che grandezza ci testimonia, ancora, Giussani nel non censurare
nessun aspetto, nessun fattore costitutivo dell’io − ragione e libertà −,
nell’affermare l’uno o l’altro senza escluderli a vicenda, nel cercare di
far capire il nesso tra i due, dal momento che, se togliamo uno o l’altro,
non c’è più conoscenza!
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58 M. Zambrano, Per l’amore e per la libertà, Marietti, Milano 2008, p. 153.
59 Gregorio di Nissa, La grande catechesi, Città Nuova, Roma 1990, p. 11 6.
60 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 169.
61 N. Berdjaev, Regno dello Spirito e Regno di Cesare, Ed. di Comunità, Milano 1954, p. 10.

37
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Ma quanto abbiamo detto solleva un problema che dobbiamo
affrontare: se la questione non è solo di ragione, ma di opzione, qualsiasi
opzione della libertà è ugualmente vera? È una pura arbitrarietà?
Qualsiasi opzione è ugualmente ragionevole? Occorre dimenticare o
eliminare tutto quello che abbiamo detto fino adesso sulla ragione?
Emerge qui la questione di qual è il rapporto tra la libertà e la
ragione nella conoscenza. Per spiegarmi faccio un esempio banale che
utilizzavo coi miei studenti liceali in Spagna. Immaginate due persone
che osservano un ragazzo che regala alla sua fidanzata un oggetto che
hanno visto costare un euro (ci sono negozi con reparti un cui tutto
è venduto a un euro). Uno dice all’altro: «Ma guarda che tirchio: un
euro! Questo è il bene che le vuole? Un euro!». L’altro spettatore
risponde: «Non capisci nulla, perché attraverso questo oggetto, che
pur vale un euro, qui sta succedendo qualcosa in più: le sta dicendo
quanto le vuol bene. Il prezzo non è determinante». Ma l’altro insiste:
«Smettila, l’abbiamo visto tutti e due nel negozio, valeva un euro!
Questo è quello che conta, tutto il resto sono tue elucubrazioni». Qual è
l’opzione che rende più conto di tutti i fattori che si manifestano in quel
gesto? Lo coglie di più chi dice: «Un euro» (che pure è vero), oppure
chi, pur riconoscendo la povertà del dono, sta scoprendo che lì succede
qualcosa in più? Vedete come la libertà gioca nella scoperta, e che c’è
un’opzione? Ma se noi domandassimo direttamente ai due fidanzati
quale delle due interpretazioni esprime meglio quel che sta succedendo
tra di loro, riconoscerebbero come equivalenti le due interpretazioni
degli spettatori? O ce n’è una che esprime quello che sta accadendo
veramente tra di loro? È un problema di opzione, certo: ma un’opzione è
ragionevole e l’altra è irragionevole, una è estranea alla natura di quello
che sta succedendo e l’altra lo spiega in modo esauriente. Se non accetto
di spalancare la ragione fino a capire tutto il significato dei fatti, la mia
opzione è contro l’evidenza di quello che accade, e io non la colgo (tanto
è vero che non tutte le interpretazioni spiegano le cose in modo vero).
Perciò la mossa della libertà non è soltanto dopo, ma è già dall’inizio.
È lo stesso che dice don Giussani rispetto all’esempio della penombra:
«Se voi, nella penombra, volgete le spalle alla luce, esclamate: “Tutto è
nulla, è oscurità, senza senso”. Se volgete le spalle allo scuro, dite: “Il
mondo è il vestibolo della luce, l’inizio della luce”. Questa diversità di
posizione è esclusivamente una scelta. È pur vero che tutto il problema
non è qui. Delle due posizioni, quella di chi volta le spalle alla luce e
dice: “Tutto è ombra”, o quella di chi volta le spalle all’ombra e dice:
“Siamo all’inizio della luce”, delle due posizioni una ha ragione, l’altra
Esercizi della Fraternità
38
no. Una delle due elimina un fattore, sia pure appena accennato: infatti
se c’è la penombra, c’è la luce».62 C’è un’opzione che è secondo la
natura, ed essa evidenzia la ragione; e un’opzione che è contro la natura,
ed essa oscura la ragione. L’opzione è decisiva.
Questa dinamica che accade davanti a tutto il reale, a maggior ragione
accade davanti all’avvenimento cristiano, che, per l’imponenza della
sua eccezionalità, sfida ancora di più la libertà. E non qualsiasi decisione
della libertà è ugualmente ragionevole. «Gesù stava scacciando un
demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le
folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: “È in nome di Beelzebùl,
capo dei demòni, che egli scaccia i demòni”. Altri poi, per metterlo alla
prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo i loro
pensieri, disse: “Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e una casa
cade sull’altra. Ora, se anche satana è diviso in se stesso, come potrà
stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni in nome
di Beelzebùl. Ma se io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri
discepoli in nome di chi li scacciano? Perciò essi stessi saranno i vostri
giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto
a voi il regno di Dio».63 Tale e quale, davanti al regalo come davanti ai
segni che Dio fa accadere tra noi! E tutti sappiamo che questo non è
soltanto una cosa del passato, ma che sta succedendo oggi, ora, davanti
agli stessi segni che il Mistero fa in mezzo a noi: ci sono quelli che
danno la spiegazione ypsilon e altri invece che danno la spiegazione
zeta. Ma qualsiasi sia la spiegazione, Gesù scacciava i demoni; qualsiasi
sia l’interpretazione, il problema è che non ci sarebbe discussione se
non ci fossero dei miracoli che Gesù compie. Per questo, non serve una
qualsiasi interpretazione, ma quella che rende conto di questo fatto in
maniera esauriente. Infatti nel vangelo di Giovanni Gesù li rimprovera
apertamente: «Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun
altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto
e hanno odiato me e il Padre mio. Questo perché si adempisse la parola
scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione».64 Cioè hanno
compiuto un’opzione contro la ragione, perché hanno visto i segni e non
L’hanno riconosciuto. Capite, allora, fino a che punto il dramma della
libertà si gioca ora?
A questo punto don Giussani fa un’affermazione geniale, cui sulle
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62 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 169-170.
63 Lc 11 ,14-20.
64 Gv 15,24-25.

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prime quasi si stenta a credere: «L’uomo, infatti, nella sua libertà afferma
ciò che ha già deciso fin da una recondita partenza»,65 cioè ha deciso
la partita prima di incominciare; possono, poi, succedere tutti i segni
che vogliamo, ma io ho deciso di non lasciarmi colpire. Quando per
la prima volta ho letto questa frase ho pensato: questo è troppo! Fino a
quando questa affermazione me la sono trovata davanti con delle gambe
un giorno, facendo lezione. Stavo per incominciare a leggere i Vangeli e
avevo scritto sulla lavagna la parola “Vangeli”; mi volto e un alunno mi
dice: «Ma non penserà che i Vangeli possano darci una conoscenza di
Gesù: sono stati scritti dai cristiani, figurarsi che conoscenza oggettiva
vera ci possono dare!». Allora gli ho chiesto: «Secondo te, allora, la
posizione più adeguata, la recondita partenza rispetto al reale, è il
sospetto?». «Certo che è il sospetto. È così evidente… Non penserà mica
che sono scemo». «Allora, secondo quanto mi dici, quando stamattina
tua mamma ti ha messo davanti la tazza di caffè per la colazione, hai
detto: “Io non la bevo fin quando non la analizzo chimicamente per
assicurarmi che non ci sia dentro il veleno”». Ancora ricordo la reazione
del ragazzo che, con la faccia arrabbiata, alza le mani e dice: «Ma
sono sedici anni che abito con la mia mamma!». «Ah! Dunque non è
sempre ragionevole partire dal sospetto. Allora qual è la differenza tra
la modalità con cui hai reagito davanti alla parola “Vangeli” e davanti
alla tazza di caffè della mamma questa mattina?». Ma la cosa che mi ha
impressionato di più è la seconda parte dell’episodio. Perché quindici
giorni dopo – quando lui non si ricordava più di quello che era capitato
– stavo leggendo in classe una pagina del Vangelo, per mettere davanti
a tutti l’esperienza dei discepoli di una giornata passata con Gesù: Gesù
va alla Sinagoga e si mette a insegnare, ed erano tutti stupiti perché
insegnava loro come chi ha autorità e non come gli scribi; poi guarisce
un uomo posseduto da uno spirito immondo; va a casa di Pietro e
guarisce la suocera di Simone; alla sera, in città guarisce molti che erano
afflitti da varie malattie; e il giorno dopo, di mattina presto, si alza e va
a pregare. E io finivo invitando i miei studenti a immaginarsi che cosa
avrebbero dovuto provare le persone che seguivano Gesù per giorni,
settimane e mesi, vivendo con Lui giornate così. Domando: «Se a voi
fosse capitato di stare lì, cosa avreste provato?». Il primo a intervenire
fu lo stesso ragazzo. Sapete cosa mi disse? «Io starei attento a non farmi
abbindolare». Allora ribattei: «Ti rendi conto che due settimane fa hai
detto la stessa cosa?». Non se ne era reso conto, restò allibito, proprio
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65 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 170.

40
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allibito. Quel ragazzo viveva il sospetto nei confronti di tutto, davanti a
qualunque fatto veniva fuori di nuovo il sospetto con cui si rapportava
al reale. Aveva già deciso fin da una recondita partenza. Ecco perché
don Giussani ha ragione quando afferma: «La libertà non si dimostra
tanto nella clamorosità delle scelte; ma la libertà si gioca nel primo
sottilissimo crepuscolo dell’impatto della coscienza del mondo [cioè
nell’impatto con il reale]».66
Per questo – dalla prima volta che l’ho sentita – mi ha colpito tanto
questa storia di Elsa Morante: «C’era una SS che per i suoi delitti orrendi
un giorno, sul far dell’alba, veniva portata al patibolo. Gli restavano
ancora una cinquantina di passi fino al punto dell’esecuzione, che aveva
luogo nello stesso cortile del carcere. In questa traversata l’occhio, per
caso, gli si posò sul muro sbrecciato del cortile, dove era sbocciato uno
di quei fiori seminati dal vento, che nascono dove capita e si nutrono -
sembrerebbe - d’aria e di calcinaccio. Era un fiorelluccio misero, composto
da quattro petali violacei e da un paio di pallide foglioline, ma in quella
prima luce nascente la SS ci vide, col suo splendore, tutta la bellezza e
la felicità dell’universo e pensò: “Se potessi tornare indietro e fermare
il tempo sarei pronto a passare l’intera mia vita nell’adorazione di quel
fiorelluccio”. Allora, come sdoppiandosi, sentì dentro di sé la sua propria
voce, ma gioiosa, limpida, eppure lontana, venuta da chissà dove, che gli
gridava: “In verità ti dico: per questo ultimo pensiero che hai fatto sul
punto della morte, tu sarai salvo dall’inferno”. Tutto ciò a raccontartelo
mi ha preso un certo intervallo di tempo, ma là ebbe la durata di mezzo
secondo. Fra la SS che passava in mezzo alle guardie e il fiore che si
affacciava al muro c’era tuttora più o meno la stessa distanza iniziale,
appena un passo. “No! - gridò fra sé e sé la SS, voltandosi indietro con
furia - Non ci ricasco, no, in certi trucchi!”, e siccome aveva le due mani
impedite, staccò quel fiorellino coi denti, poi lo buttò in terra, lo pestò
sotto i piedi e ci sputò sopra».67
Nel primissimo sottilissimo crepuscolo, in un istante, si gioca questo
dramma: «Ed ecco l’alternativa in cui l’uomo quasi insensibilmente si
gioca: o tu vai di fronte alla realtà spalancato, con gli occhi sgranati di
un bambino, lealmente, dicendo pane al pane e vino al vino, e allora
abbracci tutta la sua presenza [della realtà come ti viene data] ospitandone
anche il senso; o ti metti di fronte alla realtà difendendoti, quasi con il
gomito davanti al viso per evitare colpi sgraditi o inattesi, chiamando la
66 Ivi.
67 E. Morante, La Storia, Einaudi, Torino 1974, pp. 604-605.

41
realtà al tribunale del tuo parere, e allora nella realtà cerchi e ammetti
solo ciò che ti è consono, sei potenzialmente pieno di obiezione a essa,
troppo scaltrito per accettarne le evidenze [non quello che non è chiaro,
ma le evidenze] e i suggerimenti più gratuiti e sorprendenti [quando lo
vediamo in atto in noi è veramente patetico: gente che insiste che non ci
sono dei fatti perché non è disponibile a riconoscerli, non perché non ci
siano]. Questa è la scelta profonda che noi operiamo quotidianamente di
fronte alla pioggia e al sole, a nostro padre e a nostra madre, al vassoio
della colazione, al tramvai e alla gente che vi è, ai compagni di lavoro,
ai testi di scuola, agli insegnamenti, al ragazzo, alla ragazza [ciascuno
può aggiungere il resto]. La decisione che ho descritta è di fronte al
reale, tutto. In tale decisione la ragionevolezza, l’umano intero [l’umano
intero!], è chiaro dove stia: in ciò che è aperto [quando non c’è apertura,
manca l’umano] e dice pane al pane e vino al vino. È il povero di spirito,
colui che di fronte alla realtà non ha da difendere nulla».68
Davvero è impressionante rileggere questi capitoli de Il senso
religioso dall’interno del nostro atteggiamento verso i fatti, le presenze
e i testimoni che il Signore ci dà. E se questo è così decisivo per essere
rigenerati, allora – siccome non ce la facciamo da noi stessi, ma solo
attraverso ciò che l’Altro fa nel presente, nelle “cose della terra” –, se
noi non siamo disponibili, non potrà mai avvenire la nostra rinascita;
non perché non possa esserci, bensì perché noi non siamo disponibili,
perché manca l’umano (perché l’umano intero sta in ciò che è aperto).
Prosegue don Giussani: «Se tu sei “morale”, vale a dire, se tu sei
nell’atteggiamento originale in cui Dio ti ha creato, cioè in atteggiamento
aperto al reale, allora capisci, o perlomeno cerchi, cioè domandi. Se
tu invece non sei in quella posizione originale, cioè se sei [guardate,
di nuovo: la mancanza dell’umano] alterato, artefatto, bloccato nel
pregiudizio, allora sei “immorale”, e non puoi capire [la conseguenza
non è che vai all’inferno o che sei incoerente, no: è che non puoi capire!].
È questa la drammaticità suprema della vita dell’uomo».69 In questo
atteggiamento di fronte al reale si gioca tutto, perché siccome non siamo
noi a poterci ridestare, a poterci rigenerare, e dobbiamo accettare di
essere generati da un Altro, tutto dipende dalla nostra capacità di essere
spalancati davanti a questo. Sennò applichiamo come tutti la misura
positivista, e non riusciamo a vedere bene.
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68 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 170-171.
69 Ibidem, pp. 171-172.

42
2. L’educazione alla libertà
Da qui si capisce come è decisiva l’educazione della libertà. Per
questo don Giussani insiste tanto: «Il problema fondamentale di questa
grande avventura del “segno” che è il mondo [...] è l’educazione alla
libertà. Se la realtà chiama l’uomo a qualcosa d’altro, educazione
alla libertà è uguale a educazione alla responsabilità. Responsabilità
deriva da “rispondo”. L’educazione alla responsabilità è educazione a
rispondere a ciò che chiama».70 E come mi chiama? L’abbiamo detto
questa mattina: attraverso il metodo del “segno”, qualcosa nel reale
attraverso cui l’essere mi chiama a rispondere.
Questa educazione alla libertà ha due fattori.
a) Educazione all’attenzione
«Innanzitutto l’educazione alla responsabilità implica una educazione
alla attenzione. Perché [guardate che realismo contraddistingue
don Giussani] l’attenzione non necessariamente ottiene lo spazio
di una libertà impegnata [di nuovo: la mancanza dell’umano]; non è
automaticamente facile fare attenzione [perché l’attenzione è una
tensione, è uno sforzo, una fonte di fatica: per questo non dobbiamo
darla per scontata]. Il preconcetto, comunque venga originato [e qui don
Giussani ci dà un aiuto spettacolare: ognuno si riconosca nelle varie
categorie], impedisce l’attenzione: il prevalere dell’interesse, quindi
distrazione; l’affermarsi di una idea già fatta, quindi snobbamento del
messaggio nuovo; concentrare la sensibilità su quello che piace, perciò
il progredire di una insensibilità a sfumature o a particolari di una
proposta; la goffaggine di una sommarietà, che diventa delitto, quando
si tratti di un problema grave».71 Sono tutte possibilità in cui si verifica
la mancanza dell’umano, perché l’umano intero sta in ciò che è aperto
alla totalità. Per questo insiste su come è importante questa accanita
sottolineatura della totalità. Ciascuno può verificare come sta davanti
ai segni che il Signore ci fa accadere. Come possiamo continuare a dire
che, in fondo, tutta la eccezionalità che vediamo può trovare un’altra
spiegazione che non sia la presenza di Cristo? Come è possibile che
noi continuiamo a dire che il Suo nome è appiccicato? Soltanto per una
mancanza di attenzione oppure per una indisponibilità ad accettarlo.
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70 Ibidem, p. 175.
71 Ibidem, pp. 175-176.

43
b) Educazione alla accettazione
Per questo don Giussani indica un secondo fattore, cioè la
«educazione alla capacità di accettazione. [...] Educare a una attenzione
e a una accettazione [...] è una pedagogia ad aprire le porte già chiuse
prematuramente [...]. [Perciò] assicura la modalità profonda con cui uno
deve atteggiarsi di fronte alla realtà: spalancato, libero, e senza quella
presunzione che chiami la realtà di fronte al proprio verdetto di giudice,
e perciò senza giudicare la realtà in base al preconcetto. Comunque
una educazione della libertà alla attenzione, cioè a uno spalancarsi
verso la totalità dei fattori in gioco, e una educazione alla accettazione,
cioè all’abbraccio consapevole di ciò che viene davanti agli occhi, è
la questione fondamentale per un cammino umano».72 Perché senza
educarci a questa attenzione e a questa accettazione di qualcosa che viene
da fuori di noi, noi soccombiamo.
Perciò, chi segue quello che il Signore fa accadere davanti a noi,
fiorisce; e chi non si lascia generare da quello che accade, marcisce.
Dobbiamo, dunque, tutti allenarci a questo atteggiamento giusto di fronte
alla realtà, a quella posizione originale di cui il Mistero ci ha dotati. E
questa educazione non è – ce l’ha sempre detto don Giussani – una
spontaneità: occorre impegnarsi, occorre un lavoro.
Allora la vera questione è: come si educa la libertà? Rispondendo
alla provocazione del reale: se il reale provoca, l’educazione della libertà
deve essere educazione a rispondere alla provocazione. È semplice: «È
l’educazione ad aver “fame e sete” che rende attenti alle sollecitazioni
che gremiscono il confronto con la totalità del reale [...]. Beati coloro che
hanno fame e sete [è una grazia l’umano che ha questa fame e questa sete:
la vita, così, è una benedizione, perché divento in grado di accogliere
tutto il reale]. Invece maledetti coloro che non hanno fame e sete, coloro
che sanno già, coloro che non si aspettano niente. Maledetti i soddisfatti
a cui la realtà è, caso mai, puro pretesto alle loro agitazioni e non si
aspettano nulla di veramente nuovo da essa [ecco la maledizione]».73 Se
ancora diciamo di non capire cosa vuol dire la mancanza dell’umano,
io una descrizione più impressionante di quella che segue non la trovo:
«Tutti i “ma; se; però; forse...”, con cui si cerca di intaccare la positività
del processo di rapporto io-realtà, sono fuoco di sbarramento, cortina
fumogena per proteggere la ritirata dell’uomo dall’impegno con la realtà
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72 Ibidem, p. 176.
73 Ibidem, p. 177.

44
stessa».74 Non è per un rimprovero, ma per avere tutti gli elementi per
comprendere in che cosa consista il lavoro che ci propone don Giussani,
se vogliamo essere veramente suoi figli, invece di ritirarci come uomini.
3. La condizione della libertà

«Dove sta la vera difficoltà per l’uomo a leggere il nome misterioso
consigliato, segnato da tutto il richiamo che su di lui fa il reale? Dove
sta la vera difficoltà nell’identificare l’esistenza di Dio, l’esistenza del
mistero, del significato che è oltre l’uomo?».75 La vera difficoltà è quella
che don Giussani chiama l’esperienza del rischio; che lui sempre ha
identificato in quell’esperienza che fece quando era fanciullo, durante
una cordata; doveva saltare meno di un metro con sotto un burrone, ma
era spaventato e si è aggrappato in preda al panico a uno spuntone di
roccia, vinto dalla paura. «Io ho capito bene questo concetto ricordando
improvvisamente a tanti anni di distanza un episodio della fanciullezza.
Continuavo a chiedere di essere portato in cordata e: “Sei troppo piccolo”
mi si rispondeva. A un certo punto mi vien detto: “Se sarai promosso a
giugno, andrai a fare la prima cordata”. E così avvenne. Davanti c’era
la guida, poi venivo io, poi due uomini. Avevamo superato la metà del
cammino; a un determinato momento vidi la guida fare un piccolo salto.
Io che stavo a tre o quattro metri di distanza, brandendo la corda con
mano nervosa, mi sento dire dalla guida: “Forza! Salta!”. Mi trovo al
limitare di una cengia e a un metro circa cominciava un’altra cengia, e
sotto vi era un profondo burrone. Io mi sono voltato di scatto, mi sono
abbracciato a uno spuntone di roccia e tre uomini non mi hanno smosso.
E ricordo le voci che mi ripetevano: “Non aver paura, ci siamo noi!”
e io dicevo a me stesso: “Sei stupido, ti portano loro”; e lo dicevo a
me stesso, ma non riuscivo a staccarmi dal mio improvvisato sostegno.
Questo panico eccezionale mi ha fatto capire molti anni dopo che cosa
sia l’esperienza del rischio. Non fu l’assenza di ragioni a bloccarmi; ma
le ragioni erano come scritte nell’aria, non mi toccavano. È analogo a
quando le persone dicono: “Lei ha ragione, ma io non sono persuaso”. È
uno iato, un abisso, un vuoto tra l’intuizione del vero, dell’essere, data
dalla ragione, e la volontà: una dissociazione tra la ragione, percezione
dell’essere, e la volontà che è affettività, cioè energia di adesione
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74 Ibidem, p. 179.
75 Ivi.

45
all’essere (il cristianesimo indicherebbe in questa esperienza una ferita
prodotta dal “peccato originale”). Per cui uno vede le ragioni, ma non si
muove. Non si muove, cioè manca dell’energia di coerenza: di coerenza
[attenzione!], non nel senso etico di comportamento conseguente [non
scivoliamo via subito], ma nel senso teorico di adesione intellettuale al
vero fatto intravedere dalle ragioni».76 Lì ha cominciato a capire in che
cosa consiste veramente la difficoltà: «Quando io sarei stato capace di
staccare le mie braccia da quello spuntone di roccia? Solo con una enorme
forza di volontà. Ma questa forza di volontà non l’avevo: e non sta in
essa la soluzione [...]. Ecco [quindi] la vera definizione dell’esperienza
del rischio: una paura di affermare l’essere, strana, perché è estranea
alla natura, è contraddittoria con la nostra natura».77 La dissociazione
tra la ragione e la volontà, conseguenza del peccato originale, provoca
questa mancanza di energia. Tanto è vero che Hans Urs von Balthasar lo
chiama così: Manko an Gnade. «La decisione di un singolo contro Dio,
e non di uno qualunque, ma del fondatore della famiglia dell’umanità,
ha precipitato tutta questa famiglia non precisamente in peccati
personali bensì in un deficit di grazia [Manko an Gnade] (unitamente
alle conseguenze per la struttura della sua natura)»78. Una mancanza
di grazia, una mancanza di energia per aderire, come se io prendessi
in mano una bottiglia ed essa cadesse perché non ho l’energia per
sostenerla.
Se l’energia non è recuperabile attraverso lo sforzo della volontà,
qual è il rimedio? «C’è in natura un metodo che riesce a darci questa
energia di libertà che ci fa superare, attraversare la paura del rischio. Per
superare il baratro dei “ma” e dei “se” e dei “però” il metodo usato dalla
natura è il fenomeno comunitario. Un bambino corre per il corridoio,
spalanca con le manine la porta sempre aperta di una stanza buia;
impaurito, torna indietro. La mamma si fa avanti, lo prende per mano,
con la mano nella mano di sua madre il bambino va in qualsiasi stanza
buia di questo mondo. È solo la dimensione comunitaria che rende
l’uomo sufficientemente capace di superare l’esperienza del rischio».79
Non qualsiasi compagnia serve, come dimostra lo stesso esempio
di don Giussani. C’è bisogno di una presenza che possa vincere, per
la sua attrattiva, questa frattura tra ragione e affezione, e che mi faccia
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76 Ibidem, pp. 180-181.
77 Ibidem, p. 182.
78 H. U. von Balthasar, Teodrammatica. IV: L’azione, Jaca Book, Milano 1982, p. 169.
79 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 182.

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compagnia fino dentro il buio, una presenza che mi incolli. Tanto è vero
che quando le cose diventano veramente crude – come per gli Apostoli
durante durante la Passione: tutti Lo hanno abbandonato e neanche la
Sua presenza ha potuto evitarlo –, allora occorre una forza più potente.
«Si chiama Cristo risorto e il suo Spirito che domina il mondo, il quale
entra nel mondo innanzitutto attraverso i chiamati – la Pentecoste –, e
poi si diffonde nel mondo: nella Ascensione al cielo va alle radici delle
cose, che sono tutte sue; e le cose non si accorgono di essere brandite,
ma c’è una mano che si stringe attorno ad esse, per cui esse si sentono
sostenute e chiarite nel momento opportuno: si chiama grazia di Cristo.
La grazia. Ed è solo questa che a un certo punto compie ciò che la
compagnia non è riuscita a compiere e ciò che il grande uomo non è
riuscito a compiere».80 Occorreva la potenza dello Spirito, come spiega
san Paolo: «Nessuno può dire “Gesù è Signore” se non sotto l’azione
dello Spirito Santo».81 E, di nuovo – come abbiamo visto questa mattina
–, è la grazia dello Spirito l’unica in grado di vincere ultimamente questa
frattura tra ragione e affezione per poter rinascere di nuovo. Per questo
la prima cosa da fare è domandare questa grazia: Veni Sancte Spiritus,
veni per Mariam.
E come agisce lo Spirito? In un luogo privilegiato – si chiama
“carisma” –, dove noi possiamo essere educati a vincere questa frattura,
se accettiamo di seguire e di accogliere la grazia che lo Spirito Santo ha
dato a don Giussani. Infatti: «La dimensione comunitaria rappresenta
non la sostituzione della libertà, [...] ma la condizione dell’affermarsi di
essa».82 Con questa compagnia, generata costantemente dalla potenza
dello Spirito, possiamo rischiare nell’avventura della vita, essendo
all’altezza della statura dell’uomo. Dobbiamo domandare questa grazia,
dobbiamo andare come poveracci a mangiare di quel pane che si chiama
Eucaristia; non siamo visionari, sappiamo benissimo che abbiamo
bisogno come mendicanti di metterci in coda, e zoppicanti andare a
ricevere quel cibo senza il quale non ce la facciamo (è inutile, fingendo,
illudersi del contrario). Allo stesso modo dobbiamo andare a mendicare
e ricevere la grazia del perdono, nel sacramento della penitenza per
ripartire ogni volta che cadiamo.
La vera questione è quale compagnia è in grado di accompagnarci in
tutte le situazioni. E da questo punto di vista – non posso trattenermi più
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80 L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR, Milano 1996, p. 106.
81 1Cor 12,3.
82 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 182-183.

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– è impressionante la rilettura che don Giussani fa del mito di Ulisse:
«Immaginate quest’uomo con tutti i suoi marinai, sul suo battello,
che vaga da Itaca alla Libia, dalla Libia alla Sicilia, dalla Sicilia alla
Sardegna, dalla Sardegna alle Baleari: tutto il mare nostrum è misurato
e governato, tutto è percorso in lungo e in largo da lui. L’uomo è misura
di tutte le cose. Ma arrivato alle colonne d’Ercole si trova di fronte
alla persuasione comune che tutta la saggezza, vale a dire la misura
sicura del reale, non è più possibile. Al di là delle colonne d’Ercole
non v’è più nulla di sicuro, è il vuoto e la pazzia. Come chi va al di
là di esse è un fantasioso che non avrà più nessuna certezza, così al
di là dei confini sperimentali positivisticamente intesi c’è solo fantasia
o, comunque, impossibilità di sicurezza. Ma lui, Ulisse, proprio per la
stessa “statura” con cui aveva percorso il mare nostrum, arrivato alle
colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che
era anzi come se la sua vera natura si sprigionasse da quel momento. E
allora infranse la saggezza e andò. Non sbagliò perché andò oltre: andar
oltre era nella sua natura di uomo, decidendolo si sentì veramente uomo.
Questa è la lotta tra l’umano, cioè il senso religioso, e il disumano, cioè
la posizione positivista di tutta la mentalità moderna. Essa direbbe:
“Ragazzo mio, l’unica cosa sicura è quella che tu constati e misuri
scientificamente, sperimentalmente; al di là di questo c’è inutile fantasia,
pazzia, affermazione immaginosa”. Ma al di là di questo mare nostrum
che possiamo possedere, governare e misurare che cosa c’è? L’oceano
del significato. Ed è nel superamento di queste colonne d’Ercole che
uno comincia a sentirsi uomo: quando supera questo limite estremo
posto dalla falsa saggezza, da quella sicurezza oppressiva, e si inoltra
nell’enigma del significato. La realtà nell’impatto con il cuore umano
suscita la dinamica che le colonne d’Ercole hanno suscitato nel cuore di
Ulisse e dei suoi compagni, i volti tesi nel desiderio di altro. Per quelle
facce ansiose e quei cuori pieni di struggimento le colonne d’Ercole non
erano un confine, ma un invito, un segno, qualcosa che richiama oltre
sé».83 E chi può arrischiarsi oltre le Colonne, chi può entrare veramente
nel buio, chi può accompagnarci nel momento della difficoltà? Solo chi
vive la vita all’altezza di questa dignità umana: «Questa è la statura
dell’uomo nella rivelazione ebraico-cristiana. La vita, l’uomo, è lotta,
cioè tensione, rapporto – “nel buio” – con l’al di là; una lotta senza
vedere il volto dell’altro».84
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83 Ibidem, pp. 187-188.
84 Ibidem, p. 188.

48
Non chiunque è compagno di strada a questo livello del dramma,
perché «è il rapporto con quell’al di là che rende possibile anche
l’avventura dell’al di qua, altrimenti la noia, origine della presunzione
evasiva, illusiva o della disperazione eliminatrice, domina».85
Allora la vera questione – amici – è se vogliamo essere gente
“sistemata” oppure se vogliamo partecipare a questa avventura; se ci
facciamo il nostro Mediterraneo o se ci lasciamo sfidare dalle Colonne
d’Ercole. Soltanto se è viva questa tensione all’aldilà, l’aldiqua è
sopportabile. L’alternativa non è che vivo più comodo, ma più annoiato,
più disperato, più soffocato. Potremo essere veramente amici soltanto
se ci lasciamo sfidare dalle Colonne d’Ercole, da quell’Oltre. Ma tanti
dicono che è una pazzia andare oltre...
Noi possiamo avventurarci oltre le Colonne d’Ercole senza essere
pazzi perché l’Oltre è diventato compagno, come ci testimonia san Paolo:
«Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla
perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io
sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di
esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso
il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a
ricevere lassù, in Cristo Gesù».86 Se la nostra Fraternità non è di uomini
– zoppicanti quanto vogliamo, perché non è un problema di coerenza
– coi volti tesi nel desiderio di un Altro e coi cuori pieni di struggimento
per Cristo, allora non solo tradiremo il carisma, ma nel tempo non ci
interesserà più. Chiediamo alla Madonna e a don Giussani di aiutarci a
essere persone all’altezza della statura umana.
-------------------------------------------------------------------------------------
85 Ibidem, p. 186.
86 Fil 3,12-14.

49
Domenica 25 aprile, mattina
All’ingresso e all’uscita:
Franz Schubert, Trio con pianoforte n. 2, op. 100, D 929
Eugene Istomin, pianoforte – Isaac Stern, violino – Leonard Rose, violoncello
“Spirto Gentil” n. 14, Sony

Don Pino.
«Beati quelli che hanno fame e sete»
Angelus
Lodi
ASSEMBLEA
Davide Prosperi. Abbiamo raccolto le domande, che sono state
numerosissime, sulle quali, introduttivamente, faccio due osservazioni.
La prima è un giudizio positivo, perché si comincia a vedere, si vede
il frutto del lavoro di questo anno, come capacità di mettere in gioco
l’esperienza personale con la proposta fatta. La seconda osservazione è
che la maggior parte delle domande si riferisce alla seconda lezione, e
questo probabilmente non solo perché era cronologicamente più vicina
al momento dell’Assemblea, ma proprio perché lì si capisce bene che
l’origine della difficoltà nel comprendere il dinamismo della ragione è
chiarito proprio all’interno di tutto il percorso di questi giorni; perché
la libertà non si capisce se è disarcionata dalla traiettoria della ragione
nel rapporto con la realtà come segno. Abbiamo cercato di raccogliere
le domande, dando una prospettiva delle molte questioni che meritano
un approfondimento.
Prima domanda: A me pare che se chiedo la grazia, non mi muovo;
e se lavoro, è come se potessi fare a meno della grazia. Come si
compenetrano le due cose?
Julián Carrón. Questo è un esempio di quello che dicevo già venerdì
sera: facciamo fatica a capire il rapporto che c’è tra la grazia e la libertà.
Non occorre spaventarsi, perché è una delle questioni che ha fatto più
50
discutere lungo la storia, e quindi che facciamo fatica anche noi non è
una sorpresa… Ma occorre approfondire, perché se noi non capiamo il
nesso tra una cosa e l’altra, è come se per affermare l’una dovessimo
negare l’altra. Si potrebbe quasi riscrivere tutta la storia dell’Occidente
come dialettica tra questi due poli.
A noi che cosa interessa? Capire quello che abbiamo cercato di dire
in questi giorni: che l’incontro con Cristo, cioè la grazia, proprio perché
ha la capacità di ridestare l’io (con tutta la sua ragione, tutta la capacità
della sua libertà, tutta la sua capacità affettiva), mette in moto il lavoro.
Perciò, che uno si metta al lavoro è già un segno di grazia, è il primo
segno che nella vita è capitato un fatto che ha mosso qualcosa dentro
di sé. Altro che contrapposizione alla grazia! La grazia è all’origine,
ma la documentazione, il segno più potente che la grazia accade, che è
accaduta, è proprio che mi mette al lavoro.
Ciascuno di noi può benissimo capire questo, perché se io non
sono in grado di usare la ragione in modo più allargato, di usare più
adeguatamente la libertà, rimanendo tale e quale, mi trovo come tutti
a vivere la realtà nella confusione solita. Invece, se la libertà ha questa
capacità di usare la ragione in un modo diverso, possiamo affrontare le
circostanze, la vita, con un respiro, una luce, una novità che altrimenti
non ci sogneremmo. Per questo il primo segno della grazia è che mette
in moto la libertà, ci mette al lavoro.
Prosperi. Questa nuova nascita accade tutta la vita o succede in un
momento? È un istante o è un processo?
Carrón. La nuova nascita – come ci ha spiegato benissimo ieri Sua
Eminenza il cardinale Scola – succede in un momento, nel Battesimo. Ci
ha detto: «Nel Battesimo ogni uomo è concepito di nuovo come figlio nel
Figlio e da qui ha origine per lui, per il batezzato, una nuova concezione
di sé. [Perciò] l’uomo è concepito come cristiano nel Battesimo». È da
lì, è da quell’istante che posso dire – come ha detto il Papa e il cardinale
Scola ce lo ha ricordato –: «Io, ma non più io». Questa è la formula
dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, e questo è successo una
volta per tutte nel Battesimo, tanto è vero che noi diciamo che questo
imprime il “carattere”: è qualcosa che succede nel Battesimo e che
nessuna cosa può cancellare. Perché non lo può cancellare? Perché è un
gesto di Cristo, che mi prende tutto e mi dice, realizzandolo: «Tu sei Mio,
tu Mi appartieni, tu hai deciso, chiedendo il Battesimo, di lasciare la tua
appartenenza per appartenere a Me. Io sono la nuova coscienza di te», e
Domenica mattina
51
questo legame che Cristo genera con me in quell’istante è per sempre.
Ciò è decisivo per la nostra certezza, perché non dipende dal fatto che io
sia più bravo o meno bravo, non dipende da me, dalla mia capacità, ma
è un gesto tutto di Cristo. Per questo anche se io mi dimentico, o me ne
vado, o sbaglio davanti a tutti – come quando, durante le persecuzioni,
i cristiani che rinnegavano Cristo non dovevano ripetere il Battesimo –,
non sono in grado di rompere il legame che Cristo ha stabilito con me,
tanto è potente. Qualsiasi padre può capirlo: cosa può fargli un figlio
perché riesca a far fuori quel legame? Nulla. Non è difficile da capire, e
se questo lo possiamo fare noi che siamo poveracci, immaginiamoci che
cosa può fare Cristo!
Dunque, questo succede una volta per tutte nel Battesimo. E –
continuava il cardinale – se il Battesimo lo si è ricevuto, come per la gran
parte di noi, da bambini, esso fiorisce in una nuova concezione di vita
quando avviene il proprio incontro personale con Cristo nella Chiesa. Che
questa grazia che abbiamo ricevuto nel Battesimo fiorisca e raggiunga
tutta la vita, tutti i particolari della nostra esistenza, questo è un cammino.
Don Giussani ha usato una formula che mi ha sempre colpito: «L’incontro
di Cristo con la nostra vita, per cui Egli ha iniziato a diventare un evento
reale per noi, l’impatto di Cristo con la nostra vita, a partire da cui Egli
si è mosso verso di noi e ha stabilito, come vir pugnator, una lotta per
l’“invasione” della nostra esistenza, si chiama Battesimo».87 Per questo
quel che succede in quell’istante ha tutta la vita come prospettiva.
Guardate che distanza, come coscienza: non che non sia vero che io
– per la grazia, per questo legame che Cristo stabilisce con me – sono di
Cristo, ma che distanza abissale dal vivere con questa consapevolezza!
Basta che uno pensi a quando è stata l’ultima volta che, prendendo
veramente consapevolezza di questo fatto, si è commosso fino al midollo,
per rendersi conto di che razza di distrazione ci invade. E quanto lavoro
resta da compiere affinché questo, che è vero, sia acquisito da noi come
consapevolezza, divenga un giudizio che trascina tutta la mia persona, la
mia coscienza, la mia sensibilità, la mia affezione, tutto.
È per questo che – come abbiamo ricordato – l’incontro, dovuto alla
grazia del carisma, rende persuasiva la grazia del Battesimo e la rende
sempre più nostra attraverso una storia personale: siamo messi insieme
per questo; non c’è un altro scopo per cui noi stiamo insieme, se non
perché ciò che è successo nel Battesimo diventi mio, diventi tuo, diventi
nostro. Per questo apparteniamo alla Chiesa, e per questo lo Spirito Santo
-------------------------------------------------------------------
87 L. Giussani - S. Alberto - J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, op. cit., p. 64.

52
continua a suscitare i carismi, cioè modalità operative che fanno diventare
più persuasiva la grazia di Cristo, affinché possa invaderci sempre di più
la novità che quella grazia ha introdotto nella nostra vita.
Prosperi. Quanto più amo intensamente le cose, la realtà, i segni, tanto
più mi ritrovo in una posizione di difesa per la paura di perderli. Come
l’amare intensamente le cose può essere, invece, un punto di apertura?
Carrón. Perché quanto più ami qualcosa, tanto più desideri di non
perderla. Il punto di partenza è che tu hai qualcosa, che ha un valore che
ti è così caro che desideri di non perderlo; il punto di partenza è che hai
qualcosa di bello che tu ami. La prima mossa è positiva: tu hai qualcosa. La
paura sopraggiunge sempre in un secondo momento: desideri non perdere
qualcosa, se l’hai. Allora non puoi trovare una soluzione adeguata senza
andare fino in fondo all’esigenza di non perderlo. E ti metti in cammino a
cercare: come posso non perderlo? Che significa: chi te lo può conservare
per sempre?
Così uno si trova davanti a un’esigenza a cui – ciascuno ne è ben
consapevole – non può rispondere da solo. E si capisce quello che dicevamo
ieri: che senza la prospettiva di un “oltre”, «di una risposta ultima che sta
al di là delle modalità esistenziali sperimentabili»88 (in quel caso, della
giustizia; adesso, dell’amore), sarebbe impossibile mantenere questa
esigenza. Perciò il pericolo è che io mi fermi a un certo punto, che io non
sia in grado di stare davanti a tutta la profondità dell’esigenza. Perché se
non voglio mollare rispetto alla totalità dell’esigenza, non posso fermarmi,
devo andare sempre oltre. Se invece ci fermiamo, rimaniamo nella paura
e non arriviamo al punto in cui troviamo in quell’“oltre” la risposta che ci
toglie per sempre la paura. «Se venisse eliminata l’ipotesi di un “oltre”,
quelle esigenze sarebbero innaturalmente soffocate».89
Qui si vede impietosamente come ci manca l’idea del Mistero, e si
capisce perché Cristo è venuto per educarci al senso religioso, per farci
capire qual è la natura di questa nostra esigenza, perché altrimenti non
comprenderemmo mai la ragionevolezza di credere in Gesù Cristo. Se io
potessi rispondere da me stesso a queste esigenze infinite, perché mai dovrei
complicarmi la vita con la fede, perché mai dovrei aderire a un’altra cosa?
Io sperimento che a questa mia esigenza di amare quello che amo (e che
quello che amo rimanga per sempre) non posso rispondere da me. Allora
-------------------------------------------------------------------------------------
88 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 160.
89 Ivi.

53
o dico, irragionevolmente, che non c’è risposta, soffocando l’esigenza e
permanendo nella paura; oppure questa esigenza non la riduco, le lascio
tutto il respiro infinito che ha, il bisogno di un “oltre” che ha.
E allora uno festeggia Cristo perché c’è, perché c’è Colui che mi
conserva ciò che veramente amo. Non perché io sono in grado, ma perché
Cristo c’è; Cristo c’è, e allora posso liberarmi di questa paura.
Amici, il segno che Cristo incomincia a essere reale per noi è che
cominciamo a vincere questa paura. Perché il problema è che se non
abbiamo risposta per ciò che amiamo, non abbiamo la risposta per noi:
Cristo è uguale a “niente” e non c’è risposta per la vita. Vale lo stesso per
noi e per ciò che amiamo. Soltanto se noi abbiamo la lealtà di andare fino
in fondo all’esigenza, possiamo capire che razza di grazia è aver trovato
Uno che prende tutta la nostra esigenza di giustizia, di bellezza, di amore
e la compie senza soffocarla.
Prosperi. Hai detto che tutto dipende dalla nostra capacità di essere
aperti davanti al reale, ma come si può sostenere questa posizione di fronte
a una circostanza totalmente negativa, come la violenza sui bambini, o
del tutto banale, come lavare i piatti?
Carrón. Proprio questo è il lavoro da fare, amici: non bloccare la
domanda di fronte ad alcuna cosa, neanche davanti alla violenza odiosa
contro i bimbi. Se io arresto la dinamica dell’esigenza, devo poi fare tutto
in modo moralistico, devo lavare i piatti perché devo lavarli, senza senso,
senza nesso con la mia umanità, e questo vale con qualsiasi cosa. Così,
noi non potremo mai capire veramente che cosa vuol dire Cristo. Per
questo vi raccomando di leggere ogni giorno e imparare a memoria il
paragrafetto iniziale di All’origine della pretesa cristiana: «Non sarebbe
possibile rendersi conto pienamente di che cosa voglia dire Gesù Cristo
se prima non ci si rendesse ben conto della natura di quel dinamismo che
rende uomo l’uomo. Cristo infatti si pone come risposta a ciò che sono
“io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata
di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a
ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù
Cristo diviene un puro nome».90
La questione, perciò, è questa lealtà, questo essere aperti davanti al
reale così come ci viene incontro, bello o brutto; perché il problema non è
che sia bello o brutto, ma che io trovi una risposta adeguata alla domanda!
-------------------------------------------------------------------------------------
90 L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, op. cit., p. 3.

54
E davanti alle cose veramente negative – la violenza sui bambini ne è un
esempio solare – capiamo che cosa può rispondervi. Da questa domanda
è nato l’articolo su la Repubblica: chi risponde a questa esigenza? Perché
se non c’è nessuna possibilità di risposta, non c’è più la giustizia! Allo
stesso modo, non c’è significato nel lavare i piatti, o nell’amare qualcuno!
Sono tutte esigenze che nascono dalle viscere della vita; tutti le abbiamo
anche dopo l’incontro cristiano; anzi, potenziate! Non siamo condannati
a girare la testa dall’altra parte davanti a queste domande. Siamo noi gli
unici a poterle guardare in faccia, e questo solo per l’incontro con Cristo,
perché altrimenti – come tutti – dovremmo fuggire, perché non ce la
facciamo a stare davanti a tutte le esigenze o davanti al male, ai disastri o
a quelle cose di cui non vediamo un senso. Perciò il segno più palese che
stiamo facendo un cammino è che noi siamo in grado di stare davanti a
tutto – tutto! – senza censurare niente – capite? –, niente.
Prosperi. Cosa vuol dire che la libertà si gioca non soltanto nella risposta
alla provocazione del reale, ma anche nella scoperta del destino?
Carrón. Tante volte noi pensiamo che la libertà si giochi dopo:
prima la ragione scopre la realtà e poi la libertà decide se viverla o
meno. Ma questo è non rendersi conto di tutti i fattori che occorrono
nella conoscenza. È nella modalità con cui noi stiamo davanti al reale,
spalancati o meno, che noi possiamo riconoscere la totalità. Don Giussani
ce lo ha sempre insegnato, basterebbe avere presente le tre premesse de Il
senso religioso per capire queste cose: per capire la realtà occorre la realtà
(prima premessa), occorre la ragione che prende consapevolezza di tutto
il reale secondo tutti i fattori (seconda premessa), e occorre la moralità
nella conoscenza che ha come protagonista la libertà (terza premessa).91
Questo è decisivo, perché tante volte noi siamo convinti di descrivere il
reale, mentre quel che descriviamo è già una riduzione del reale (perché
abbiamo deciso in anticipo che certe cose che non entrano dentro la
nostra misura non possono esserci). Don Giussani ci ha sempre ricordato
l’esempio di Pasteur e della sua scoperta dei microorganismi: «Pasteur
ha dovuto ripetere continuamente i suoi esperimenti perché nessuno
sembrava capace di riconoscerne il valore. Gli ultimi a riconoscere la
validità scientifica degli esperimenti di Pasteur sono stati i docenti della
Sorbona che facevano parte della Accademia delle Scienze a Parigi. Per
questi professori ammettere quello che sosteneva Pasteur significava il
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91 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 3-44.

55
E davanti alle cose veramente negative – la violenza sui bambini ne è un
esempio solare – capiamo che cosa può rispondervi. Da questa domanda
è nato l’articolo su la Repubblica: chi risponde a questa esigenza? Perché
se non c’è nessuna possibilità di risposta, non c’è più la giustizia! Allo
stesso modo, non c’è significato nel lavare i piatti, o nell’amare qualcuno!
Sono tutte esigenze che nascono dalle viscere della vita; tutti le abbiamo
anche dopo l’incontro cristiano; anzi, potenziate! Non siamo condannati
a girare la testa dall’altra parte davanti a queste domande. Siamo noi gli
unici a poterle guardare in faccia, e questo solo per l’incontro con Cristo,
perché altrimenti – come tutti – dovremmo fuggire, perché non ce la
facciamo a stare davanti a tutte le esigenze o davanti al male, ai disastri o
a quelle cose di cui non vediamo un senso. Perciò il segno più palese che
stiamo facendo un cammino è che noi siamo in grado di stare davanti a
tutto – tutto! – senza censurare niente – capite? –, niente.
Prosperi. Cosa vuol dire che la libertà si gioca non soltanto nella risposta
alla provocazione del reale, ma anche nella scoperta del destino?
Carrón. Tante volte noi pensiamo che la libertà si giochi dopo:
prima la ragione scopre la realtà e poi la libertà decide se viverla o
meno. Ma questo è non rendersi conto di tutti i fattori che occorrono
nella conoscenza. È nella modalità con cui noi stiamo davanti al reale,
spalancati o meno, che noi possiamo riconoscere la totalità. Don Giussani
ce lo ha sempre insegnato, basterebbe avere presente le tre premesse de Il
senso religioso per capire queste cose: per capire la realtà occorre la realtà
(prima premessa), occorre la ragione che prende consapevolezza di tutto
il reale secondo tutti i fattori (seconda premessa), e occorre la moralità
nella conoscenza che ha come protagonista la libertà (terza premessa).91
Questo è decisivo, perché tante volte noi siamo convinti di descrivere il
reale, mentre quel che descriviamo è già una riduzione del reale (perché
abbiamo deciso in anticipo che certe cose che non entrano dentro la
nostra misura non possono esserci). Don Giussani ci ha sempre ricordato
l’esempio di Pasteur e della sua scoperta dei microorganismi: «Pasteur
ha dovuto ripetere continuamente i suoi esperimenti perché nessuno
sembrava capace di riconoscerne il valore. Gli ultimi a riconoscere la
validità scientifica degli esperimenti di Pasteur sono stati i docenti della
Sorbona che facevano parte della Accademia delle Scienze a Parigi. Per
questi professori ammettere quello che sosteneva Pasteur significava il
-------------------------------------------------------------------------------------
91 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., pp. 3-44.

55
persona, parla con quella persona cinque minuti, si fa una idea: è simpatica,
non è simpatica, è pesante, eccetera. Il giudizio accade in contemporanea.
Il punto non è questo, perché ciò è inevitabile. La questione è che questa
persona, inevitabilmente, nel corso del tempo mi dà ulteriori segni, ma io
non mi smuovo più dal mio pregiudizio, neanche con la gru! Il problema
di quel mio allievo non è che fosse partito col pregiudizio, ma che non
era disponibile a cambiare. E – attenzione! – se non ci fosse la possibilità
del cambiamento, non ci sarebbe la libertà: c’è sempre la possibilità del
cambiamento, c’è sempre la possibilità che io mi arrenda a quello che
vedo, c’è sempre la possibilità che io riconosca quello che vedo, perché
altrimenti saremmo incastrati in un meccanicismo da cui non potremmo
venir fuori. Si tratterebbe della negazione della persona, sarebbe ridurre
di nuovo la persona ai fattori antecedenti di tipo biologico, psicologico o
sociologico. No! La persona «è rapporto diretto con ciò da cui tutto nasce
– col destino, col mistero, con Dio –».93 Neanche il peccato originale
cancella questo: può essere infragilita quanto vogliamo, ma c’è, c’è quella
possibilità! Perciò io posso costantemente educarmi alla libertà, a questa
attenzione e a questa accettazione. Posso educarmi. Se non potessimo
educarci, vorrebbe dire che è inutile stare qua, perché ciascuno sarebbe
già impostato in un certo modo e non sarebbe possibile cambiare proprio
niente. Invece c’è la possibilità per ciascuno di noi – qualsiasi siano stati
la storia, il passato, le circostanze, i fattori che ci hanno generato –, perché
essa fa parte del concetto di persona: che l’io è rapporto col Mistero.
Prosperi. Quello che hai detto nel pomeriggio mi ha fatto pensare ai
miei figli che non vogliono condividere la mia esperienza (lo stesso si
potrebbe dire del marito, della moglie o del collega… insomma, quelli
che stanno a cuore). Ti chiedo: fino a dove arriva la mia responsabilità
verso di loro e cosa vuol dire rispettare la loro libertà?
Carrón. La mia responsabilità verso di loro è vivere io la vita con
tutta la mia intensità, cioè rispondere a Cristo che mi chiama. Vi ho
già fatto altre volte due esempi che a me hanno chiarito per sempre la
questione. Uno riguarda la Madonna. Come la Madonna ha contribuito a
me, al mio destino, al mio bene? Dicendo di sì. Dicendo di sì all’annuncio
dell’Angelo e “immettendo” Cristo nella storia ha contribuito al mio
bene. Mi ha lasciato intatta tutta la libertà di prendere la mia decisione
personale di fronte a Cristo, ma lei come ha contribuito a me? Vivendo
-------------------------------------------------------------------------------------
93 L. Giussani, L’avvenimento cristiano, BUR, Milano 2003, p. 9.
57
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il suo rapporto col Signore. E l’altro esempio palese lo abbiamo davanti
a noi con don Giussani. Che cosa ha fatto don Giussani per ciascuno
di noi? Ha risposto alla grazia che gli era stata data, ha risposto fin
dal seminario a quella intuizione del suo umano, a quella vibrazione
evocata dalle parole di Giacomo Leopardi, che poteva trovare risposta
unicamente nel Verbo fatto carne. E rispondendo a questa grazia ce l’ha
comunicata testimoniandola: ha collaborato alla nostra realizzazione
umana rispettando la nostra libertà. Non che, per rispettare la nostra
libertà, non abbia fatto niente. Al contrario, ha fatto tutto quello che era
nelle sue mani per vivere, per vivere davanti a noi, ma, allo stesso tempo,
senza risparmiarci un millimetro di energia nel porsi, ripetendoci che
«per cinquant’anni ho guardato e ricevuto persone [...] giocando solo
sulla libertà pura – sulla libertà pura!».94
È evidente che, nel caso dei bambini, questo succede in un percorso,
in un cammino: non è lo stesso a otto anni e a sedici. Ma la nostra
responsabilità è davanti a Cristo che ci chiama, perché così possiamo
testimoniare ai nostri figli una modalità intensa di vivere il reale che li
può sfidare attraendo la loro libertà. Come sperimentate con i vostri figli,
non è che ci sia una formula (neanche quando pensate di averla riuscite
a imporla). Perché? Perché c’è di mezzo la dignità, la grandezza della
persona del figlio. E se il Mistero si è piegato a questa modalità mendicando
la nostra libertà, immaginate se noi possiamo fare diversamente! Non sto
qui a dettagliare tutti i particolari, ma secondo me la vera questione non
è organizzare la vita ai ragazzi, quanto anzitutto vivere davanti a loro,
giudicando una notizia vista insieme alla televisione, un insuccesso o un
successo scolastico e nel lavoro, la malattia del nonno, e così via.
Prosperi. Ora due domande sullo spostamento del centro affettivo al
Tu.
La prima: Carrón diceva che «occorre spostare il centro affettivo
da sé al Tu. Ma quando lo pensiamo così Gesù? Quando da ottobre lo
abbiamo pensato veramente così?». Io non riesco neanche a capire che
cosa Carrón voglia dire. Mi sembra di pensare a Cristo spesso, ma mi
pare che qui si parli di un altro livello, che vorrei capire.
Legata a questa, la seconda: Si è detto che è necessario spostare il
nostro centro affettivo da sé a un Tu che opera nel reale. Questo Tu
coincide con la compagnia? Oppure cosa c’entra con essa?
-------------------------------------------------------------------------------------
94 L. Giussani, Avvenimento di libertà, Marietti, Genova 2002, p. 10.

58
Carrón. Il dramma nostro, amici, è quello che esprime la prima
domanda: «Io non riesco neanche a capire che cosa Carrón voglia
dire». Possiamo essere qua, appartenere al movimento e non sapere
che cosa voglia dire. Ebbene, vuol dire quello che dicevamo prima del
Battesimo: «Io non sono più io, il nome mio è il nome di Cristo che è
misericordia».95 E siccome esperienzialmente non sappiamo che cosa sia
questo, allora tante volte lo riduciamo alla compagnia. E allora, in questo
senso, capisco anche la seconda domanda: «Questo Tu coincide con la
compagnia?».
Allora voglio proporvi un testo di don Giussani che chiarisce in
maniera inequivocabile queste domande. Si trova in una casa del Gruppo
Adulto, gli hanno dedicato una canzone e dice: «È proprio molto bella sia
come musica, sia com’è cantata, sia come sentimento umano di amicizia
e di fraternità e di compagnia in una avventura [Giussani riconosce tutto:
la bellezza della musica, l’amicizia, la compagnia in un’avventura di
quelli che stanno insieme]. Eppure, se le cose si potessero elencare così
come le ho elencate io adesso e basta, e fosse dato per scontato qualcosa
d’altro [cioè Cristo] – accettato e riconosciuto (intendiamoci!), ma dato
per scontato –, e non fosse il Suo nome prodotto da un’enfasi di dialogo,
di voglia di farsi sentire, di voglia di sentirlo; se non avesse personalità a
un certo punto autonoma, se non avesse una faccia ultimamente singolare,
dei tratti inconfondibili anche con quelli che Lui stesso ha creati come
segno di sé...».96 Non riduce niente, ma soprattutto non riduce Lui – una
personalità a un certo punto autonoma, una faccia ultimamente singolare,
con tratti inconfondibili – a quello che dovrebbe essere segno di Lui.
Se questo non lo capiamo, noi ritorniamo a ridurre la portata del
segno. Perché don Giussani parla di Cristo – sempre! – come di una
singolarità ultima inconfondibile: «Se non è oggetto pensato (memoria),
detto (invocazione), contemplato con stupore e gusto, tanto che si
traduce in letizia per una presenza – “Il mio cuore è lieto perché Tu vivi”
–; se passano giornate e giornate senza che si dica “Tu” eccetto che nella
frettolosità di formule ripetute»,97 allora uno può vivere un’amicizia
stupenda con delle persone, può avere un lavoro soddisfacente e non
gli basta. Lo ripete dopo: «Con tutto il rispetto, con tutta la devozione,
con tutta, addirittura, l’emozionabilità possibile, con certa tenerezza
-------------------------------------------------------------------------------------
95 L. Giussani, Che cos’è l’uomo perché te ne curi?, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000,
p. 183.
96 L. Giussani, L’attrattiva Gesù, BUR, Milano 1999, p. 148.
97 Ivi.
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59
che a volte si può provare... ma ciò che prevale è quello che dovrebbe
essere provvisorio anticipo analogico [quello stare insieme, quella
compagnia]».98
E poi ci dice: «Stiamo attenti che Gesù tra noi può essere l’origine
di tutto il mondo di umanità, pieno di letizia e di amicizie, di ragioni
formalmente ineccepibili e di aiuto formalmente, ma anche materialmente
concreto che è pronto a darci [...], però Gesù potrebbe essere ridotto al
“ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della
medesima”».99 Gesù per noi può essere questo, anche stando insieme; e
allora è chiaro che non sapremo che cosa vuol dire che Egli ha una faccia
singolare, dai tratti assolutamente inconfondibili. Non che Lo si neghi,
per carità; ma ciò che prevale è un appiattimento sul segno.
Invece: «Non posso voler bene senza che questa notifica, memoria
e adorazione e ubbidienza e discepolanza e sequela e sguardo avido di
imparare e volontà di sacrificio fino alla morte con cui ti penso, ti guardo,
ti seguo, senza che tutto questo diventi concreto, così concreto che tu
sia, o Signore, colui che amo: Tu sei, Signore, colui che amo. “Che cosa
più potentemente l’uomo desidera che il vero?” Che cos’è il vero? Un
uomo presente, un uomo presente: non può essere dilapidato o dilavato
dall’affacciarsi bello e lieto della compagnia di volti che di Lui dovrebbe
essere accennato segno! Questo avviene quando gli si dice “Tu” realmente,
con tutta la coscienza dell’io».100
In una conversazione con alcuni novizi del Gruppo Adulto risponde
alla domanda se ci sia coincidenza tra Cristo e la compagnia più
prossima – sta parlando delle nostre comunità, della nostra Fraternità! –:
«Coincidenza, no! Rapporto di tipo strumentale, sì! Cristo per educarvi
usa normalmente la casa [la comunità, il gruppetto di Fraternità] [...]. Ma
riporre la speranza nella casa [nella comunità, nel gruppetto di Fraternità]
è appoggiarsi su qualcosa che può infrangersi e deprimersi da un istante
all’altro, se Cristo non la sostiene. Perciò la mia speranza è in Cristo,
non nella casa [nella comunità, nel gruppetto di Fraternità]».101 E ancora
lo incalzano: ma senza la compagnia non si ritorna all’astrazione? E lui
comincia a perdere la pazienza – e anche io –: «Il paragone più chiaro è
quello del sacramento dell’Eucarestia. In nessun’altra cosa Gesù Cristo
si rende così presente come nel pane consacrato: addirittura si identifica
-------------------------------------------------------------------------------------
98 Ibidem, p. 149.
99 Ibidem, pp. 150-151.
100 Ibidem, pp. 151-152.
101 L. Giussani, La drammaticità della compagnia, in «30Giorni», n. 6, 1994, p. 42.

60
(dopo la consacrazione “sotto le specie del pane vi è tutto Gesù Cristo
vivente”, come recita la formula del Catechismo). La nostra speranza,
però, non è riposta nelle “specie del pane”: è in Colui che è realmente
presente “sotto le specie del pane”, è in Gesù Cristo nostro Signore. La
nostra speranza è nel mistero di Dio fatto uomo che si rende presente
sotto le specie del pane consacrato».102 Nella Chiesa Cristo non usa nulla
come strumento così come usa il pane consacrato: si identifica. Ma la mia
speranza non è il pane consacrato; Egli si rende presente tra noi nell’ostia
consacrata e questa ostia consacrata – come facevano i primi cristiani che
se la tenevano a casa: pensate che forza di richiamo! – ha una incredibile
forza di memoria. Ma la mia speranza non è lì: è in Colui che è lì.
Prosperi. Come si lega l’aspetto del metodo comunitario con la
necessità del lavoro personale? Hai detto che il fenomeno comunitario
è il metodo per superare il rischio. Nella mia esperienza, invece, sembra
coincidere con una delega alla comunità. Qual è la differenza?
Carrón. La differenza è quella che ci diceva ieri don Giussani, non
trovo una spiegazione più sintetica che quella, cioè che la dimensione
comunitaria rappresenta non la sostituzione della libertà – perciò non
è in contrapposizione al lavoro, esattamente come dicevamo prima del
rapporto tra grazia e libertà –, ma è la condizione perché essa si affermi.
Riprendiamo l’esempio che fa: «Se io metto un seme di faggio sul tavolo,
anche dopo mille anni (posto che tutto rimanga tale e quale) non si
svilupperà niente. Se io prendo questo seme e lo metto dentro la terra,
esso diventa pianta. Non è l’humus che sostituisce l’energia irriducibile,
la “personalità” incomunicabile del seme: l’humus è la condizione perché
il seme cresca. La comunità è la dimensione e la condizione perché il
seme umano dia il suo frutto».103
Noi stiamo insieme proprio per aiutarci a questo. Non diciamo che per
affermare la persona singola non dobbiamo fare gli Esercizi insieme...
No, la questione è che se deleghiamo la vita alla comunità o al gruppo
di Fraternità, allora soccombiamo, non cresciamo, non ci sviluppiamo.
Immaginiamo un ragazzo che va a scuola. La condizione per imparare è
che stia in classe con i compagni e con l’insegnante, ma l’imparare non
è automatico; se non si mette al lavoro (poiché nessuno si può sostituire
alla sua libertà), non imparerà mai, cioè non crescerà. Queste due cose
-------------------------------------------------------------------------------------
102 Ivi.
103 L. Giussani, Il senso religioso, op. cit., p. 183.

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stanno insieme.
La questione è che noi spesso, come dimostrano questa domanda e altre
precedenti, mettiamo in contrapposizione le cose: la grazia e la libertà, l’io
e la comunità, Cristo e la compagnia. Tutto in contrapposizione. È vero
che io non posso mai staccare Cristo dal segno; ma non Lo posso ridurre
al segno, non posso rapportarmi a Lui se non ha una faccia autonoma,
ultimamente singolare, dai tratti inconfondibili. Altrimenti riduciamo
Cristo al nostro stare insieme, e così facendo immaginate dove andiamo
tutti quando la vita ci mette davanti al male o davanti alla morte… Se
Cristo non è una faccia ultimamente singolare, come possiamo rispondere
a tutte le nostre esigenze, per esempio che le cose durino per sempre?
Possiamo col nostro stare insieme rispondere all’esigenza di giustizia, di
bene, di amore? È possibile senza la persona di Cristo risorto?
Prosperi. L’ultimo gruppo di domande è sul significato del seguire.
La prima: Per una disponibilità ad essere rigenerati il sostegno di una
compagnia qualsiasi non basta. In che modo questo interroga lo spessore
dei nostri rapporti di Fraternità?
La seconda: Puoi spiegare meglio che cosa significa sequela del
carisma? Perché è facile farsi delle immagini. Qual è la verifica che si sta
veramente seguendo e che non se ne ha solo l’intenzione?
L’ultima: Quando una sequela rispetto a un’autorità è libera?
Carrón. Qual è lo scopo della Fraternità?
1) Lo scopo della Fraternità è il movimento
Diceva don Giussani in un’assemblea degli Esercizi della Fraternità:
«Io immagino che uno abbia incontrato Comunione e Liberazione e
che in qualche modo percepisca che […] è la modalità con cui Dio ha
chiamato ognuno di noi a vivere la fede […]. Allora la Fraternità è propria
di una persona che ha incominciato a capire in modo maturo [proprio
questo:] che il senso della sua vita è vivere la fede nella Chiesa e in Cristo.
[...] Perciò si unisce ad altri che sentono così maturamente la cosa, per
aiutarsi in un modo preferenziale, eccezionale, come […] segno efficace,
produttivo, pedagogico, di come poi vivere tutta la vita della comunità.
[…] La Fraternità ha lo stesso scopo del movimento, vale a dire, il
maturare il cuore nostro, il maturare la nostra soggettività nella fede, e
cioè nell’umano, nella sua umanità. […] La Fraternità è l’esperienza del
movimento che diventa un ambito di vita che tende a investire tutta la
vita. […] Allora la prima conseguenza della Fraternità è che ognuno che
Esercizi della Fraternità
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vi partecipa senta di più la responsabilità del movimento. [...] Non vuol
dire che tutti debbano fare la diaconia o dedicarsi a questo o a quello del
movimento. Dico che tutti debbono innanzitutto vivere le caratteristiche
fondamentali del movimento […] prendendo spunto da qualsiasi cosa:
dalla malattia di uno come da una notizia del giornale, dal disagio o dalla
gioia di un altro […]. La pratica della vita della Fraternità è una spinta
alla missione, a comunicarvi per comunicare ad altri questa cosa di cui
nessuno sembra accorgersi […] questa è la grande ingiustizia del mondo
“Venne tra i suoi, e i suoi non se ne sono accorti, bussò a casa sua e i suoi
non gli hanno aperto”».104
2) La Fraternità è una
«I singoli accorpamenti in cui questa vasta compagnia si raduna […]
sono gruppi in cui l’unica Fraternità vive. La Fraternità è una [è una sola];
così è stato riconosciuto nel documento ufficiale […] della Santa Sede».105
«Per questo la Santa Sede ha approvato non le singole Fraternità, […]
ma “la” Fraternità di Comunione e Liberazione, perché “la” Fraternità di
Comunione e Liberazione è l’esperienza di appartenenza al Signore […]
che vogliamo […] vivere fino in fondo».106
Ci mettiamo quindi insieme per una scelta libera, per vivere l’esperienza
di Comunione e Liberazione, perché noi non seguiamo degli uomini (Tizio,
Caio, Sempronio), ma un’esperienza che la Chiesa ha riconosciuto. «Lo
scopo di un gruppetto di Fraternità ultimamente è quello di richiamarci
che Cristo è tutto […], è il riconoscimento di Colui che è fra noi, e [di]
aiutarci a vivere questa coscienza […] fino a quando diventi abituale.
[…] La vita di un gruppo di Fraternità è data dal richiamo a questo e
dall’esempio che viene a galla […]. L’esperienza della Fraternità ha i
suoi strumenti: il principale è l’insegnamento […] centrale [della vita]
del movimento, perché è questa l’esperienza a cui vogliamo andare in
fondo; […] soprattutto sono le cose che ci diciamo [negli Esercizi annuali
e nei ritiri]: con quelli bisogna confrontarsi. Poi c’è il lavoro del singolo
gruppo. Ma questo viene da ultimo, perché il singolo gruppo non è la
sorgente del criterio: il criterio è dato dal seguire le norme e le direttive
che vengono dalla vita del movimento nei suoi insegnamenti centrali, le
indicazioni che vengono dalla Diaconia centrale (che è l’unico organo
-------------------------------------------------------------------------------------
104 L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi) 2002, pp. 215.138.167.144.216.
105 L. Giussani, «Il miracolo della Compagnia», in CL-Litterae Communionis, n. 10, ottobre
1992, p. 3.
106 L. Giussani, L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, op. cit., pp.
169-170.

63
autorevole […] riconosciuto dallo Statuto [della Fraternità])»107 e da chi
la presiede.
Guardiamo insieme come don Giussani, con la sua geniale discrezione,
concepisce la vita e la funzione dei gruppetti di Fraternità: «Una
Fraternità si dà una regola […] primo, una preghiera comune; secondo,
una obbedienza al Centro della Fraternità, una sequela; terzo, il fondo
comune; quarto, la collaborazione a un’opera, vale a dire, al movimento,
un servizio al movimento, di qualunque genere».108
3) Il fondo comune è uno
Sul fondo comune voglio fare un approfondimento: da tutto quanto
detto fin qui possiamo comprendere che anche il fondo comune è uno
e la Fraternità lo ha sempre pensato e proposto con questa modalità (la
dettaglio non solo per i nuovi, ma per tutti). Si tratta:
- di un impegno personale;
- con una periodicità mensile (nata sull’idea che il fondo comune
possa essere parte dello stipendio, incidendo quindi sul modo di usare i
beni; povertà);
- con una quota che è libera. Diceva don Giussani: «La partecipazione
al fondo comune è obbligatoria e libera: obbligatoria, perché ognuno vi
deve partecipare; libera, assolutamente libera, come quantità».109
Perciò fissatela con assoluta libertà: non importa se uno dà un euro
perché non può dare di più, lo dico in particolare per le persone che
ci hanno fatto sapere di avere delle difficoltà lavorative e per quei
pensionati che ci hanno scritto o telefonato; vi leggo una lettera come
esempio: «È con grande dispiacere che vi devo comunicare che sono
costretta a diminuire la quota mensile del fondo comune per il 2010.
In questi ultimi tredici anni, da quando è morto mio marito, ho sempre
cercato di far fronte all’impegno preso senza diminuire, nonostante tre
figli da tirare su e far studiare. Ora purtroppo una malattia piuttosto
seria non mi permette di fare ulteriori lavori e vivo della pensione di
reversibilità di mio marito. Vi posso però assicurare che se si dimezza la
quota raddoppia l’affezione e la consapevolezza della Fraternità e che
la Fraternità è il mezzo che il Signore mi ha dato per fare esperienza che
la realtà è tramite e segno di Lui».
Questo impegno viene prima di qualsiasi particolare iniziativa: per la
propria comunità, di tipo caritativo, missionario o altro. Il fondo comune
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107 Ibidem, pp. 216.170.
108 Ibidem, p. 205.
109 Ibidem, p. 11 5.

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della Fraternità è per la costruzione dell’opera comune che è il movimento
e questo – ci è stato insegnato – è molto più a gloria di Dio rispetto a
qualsiasi altro sostegno, pur giusto, a persone o opere particolari. Si tratta
di educarci e spalancarci innanzitutto al giudizio sul criterio con cui
facciamo tutte le cose.
La verifica della verità dell’impegno che liberamente, poi, ci possiamo
prendere per sostenere anche altre iniziative è se ci fa amare e essere più
seri con il fondo comune della Fraternità (questo, tra l’altro, dice anche
della bontà dell’iniziativa o opera che, a sua volta, deve spalancarci di più
all’unica opera); diversamente, si giudica secondo la simpatia o l’istinto.
Vi chiedo perciò di verificare se e come fino ad oggi l’impegno che vi
siete assunti del fondo comune è secondo questi criteri.
Concludo leggendo il telegramma che abbiamo mandato al Papa:
«Santità, “Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?”, questo
interrogativo di Nicodemo ha dato il titolo agli annuali Esercizi spirituali
della Fraternità di Comunione e Liberazione, a cui hanno partecipato
26.000 persone e altre migliaia in collegamento da 74 nazioni. Cristo
risorto è l’unico che rende possibile la rinascita dell’io come un modo
nuovo di guardare, di giudicare e di trattare la realtà. Egli si rende a noi
contemporaneo nella Chiesa per salvare tutto l’uomo, qui ed ora, e per
compiere l’esigenza infinita di giustizia che c’è in ogni cuore. Questo
abbiamo sentito rieccheggiare nella Sua lettera ai cattolici d’Irlanda.
Nella memoria di don Giussani, che ci ha reso familiare la figura di Gesù,
rinnoviamo la nostra sequela al suo carisma che cinque anni dopo la sua
morte continua a generarci nella continua esperienza che Cristo non è
venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro dell’uomo, ma per richiamare
ciascuno di noi alla religiosità vera. Attendendo di stringerci tutti intorno
a Lei il 16 maggio come figli di fronte a un padre umanissimo che piange
per le ferite inferte al corpo di Cristo, come abbiamo visto a Malta, da
Rimini preghiamo per la Sua persona, testimone affascinante dell’uomo
nuovo che nasce dallo Spirito, che con la parola e i gesti ci mostra la
pertinenza della fede alle esigenze della vita, cioè la convenienza umana
dell’avvenimento cristiano, che supera la frattura tra il sapere e il credere.
Domandando alla Madonna di essere sempre di più “incollati” a Cristo
come lo furono Giovanni e Andrea, Le diciamo con tutte le nostre
comunità sparse nel mondo: grazie, Santità!».
65
SANTA MESSA
OMELIA DI DON STEFANO ALBERTO
«Io do loro la vita eterna» (Gv 10,28). In questi giorni sono certo
che per ciascuno di noi questa parola – vita eterna –, che normalmente
vive in una genericità, in una nebulosità, in una genericità di speranza,
come qualche cosa oltre, fuori dalla vita, ha preso forma e consistenza;
perché se è vero che Cristo con questa parola indica il destino buono da
cui nessuno può strapparci se non per una ribellione pervicace, è pur
vero – come sempre ci ha richiamato il don Gius e come vividamente
in questi giorni si è palesato davanti ai nostri occhi – che la vita
eterna non incomincia nell’al di là, ma qui e ora, nell’esperienza della
contemporaneità di Cristo che muove la nostra conoscenza e la nostra
libertà ogni giorno, ogni istante.
L’ultima parola con cui si concludono questi Esercizi è la parola
«Padre»: «Il Padre mio è più grande di tutti». Nessuno può strapparci
dalla mano del Padre. E che questa forza, che questa radicalità di
appartenenza di ciascuno di noi − fragile e peccatore −, sia concreta, lo
si evince dall’ultima frase di Cristo: «Io e il Padre siamo una cosa sola».
Questa unità tra il Padre e Cristo è una realtà personale: lo Spirito, lo
Spirito del nostro Battesimo – lo ha ricordato Julián – per cui «io non
sono più io, ma Tu – o Cristo – che vivi in me». È lo Spirito che nel
carisma prende forma storica, persuasiva, commovente, sommovente,
sovvertente la vita.
Ritorniamo alle nostre case, riprendiamo la vita quotidiana dentro
l’avventura della Chiesa, dentro la vita di questo Paese, così bello e
così martoriato da forze che non desiderano la pace e il bene comune;
la riprendiamo coscienti della nostra responsabilità grande, in letizia,
certi di questa paternità, di questo abbraccio da cui nessuno potrà essere
strappato, e pronti a rendere conto a tutti, nell’offerta della nostra vita,
della speranza, della letizia, della certezza che, nel carisma, Cristo ci
dona e continuamente rinnova.

66
MESSAGGI RICEVUTI
Caro don Julián,
voglio anche quest’anno far pervenire a tutti gli amici della Fraternità
di Comunione e Liberazione riuniti a Rimini per gli Esercizi spirituali
il mio saluto e la mia vicinanza nella preghiera in questo momento
importante della nostra storia.
Auguro che la bellezza e la novità che sto vedendo qui da noi in
Brasile possa estendersi al movimento intero come una grazia che
fiorisce d’improvviso, come un dono.
Già dai tempi di Gs don Giussani aveva guardato al Brasile con
attenzione come il punto in cui potevano concretizzarsi fuori dall’Italia
le dimensioni universali della nostra esperienza. E la promessa del
Signore si compie in modo imprevisto che ci meraviglia e ci sorprende.
Mi commuove quando sento Cleuza Zerbini che mi ringrazia per il sì
che insieme a tanti altri amici abbiamo detto durante tutti questi anni.
In un ultimo incontro di sacerdoti in gennaio, ha ripetuto con una
emozionante gratitudine: «Senza di voi noi non ci saremmo». È la logica
della continuità di una vita, unita alla ammirevole logica del Signore che
è «il nuovo inizio».
Commosso per quanto il Signore opera oggi tra noi, vi invio il mio
saluto insieme alla mia preghiera.
S.E.R. monsignor Filippo Santoro
Vescovo di Petrópolis
Carissimi amici,
noi tutti siamo l’uno per l’altro testimonianza viva che si può
rinascere, si può assistere stupiti al rinnovarsi dell’intelligenza e del
cuore, così che la vita di tutti i giorni, nella varietà delle circostanze
e delle situazioni, diviene occasione per vivere questo cambiamento e
testimoniarlo lietamente agli uomini.
Tutti voi che siete a Rimini – ed io purtroppo quest’anno non posso
67
esserci – sapete che tutto questo è stato possibile per l’incontro con
don Giussani e il suo carisma, al quale siamo chiamati a rimanere
fedeli, nonostante i limiti e le contraddizioni della nostra esistenza. Nel
cambiamento della nostra vita si documenta, carnalmente, la potenza
del Signore risorto.
Con la mia benedizione.
S.E.R. monsignor Luigi Negri
Vescovo di San Marino - Montefeltro
Esercizi della Fraternità
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TELEGRAMMI INVIATI
Sua Santità
Benedetto XVI
Santità, «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?», questo
interrogativo di Nicodemo ha dato il titolo agli annuali Esercizi spirituali
della Fraternità di Comunione e Liberazione, a cui hanno partecipato
26.000 persone e altre migliaia in collegamento da 74 nazioni. Cristo
risorto è l’unico che rende possibile la rinascita dell’io come un modo
nuovo di guardare, di giudicare e di trattare la realtà. Egli si rende a
noi contemporaneo nella Chiesa per salvare tutto l’uomo, qui ed ora,
e per compiere l’esigenza infinita di giustizia che c’è in ogni cuore.
Questo abbiamo sentito rieccheggiare nella Sua lettera ai cattolici
d’Irlanda. Nella memoria di don Giussani, che ci ha reso familiare la
figura di Gesù, rinnoviamo la nostra sequela al suo carisma che cinque
anni dopo la sua morte continua a generarci nella continua esperienza
che Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro dell’uomo,
ma per richiamare ciascuno di noi alla religiosità vera. Attendendo
di stringerci tutti intorno a Lei il 16 maggio come figli di fronte a un
padre umanissimo che piange per le ferite inferte al corpo di Cristo,
come abbiamo visto a Malta, da Rimini preghiamo per la Sua persona,
testimone affascinante dell’uomo nuovo che nasce dallo Spirito, che con
la parola e i gesti ci mostra la pertinenza della fede alle esigenze della
vita, cioè la convenienza umana dell’avvenimento cristiano, che supera
la frattura tra il sapere e il credere. Domandando alla Madonna di essere
sempre di più “incollati” a Cristo come lo furono Giovanni e Andrea, Le
diciamo con tutte le nostre comunità sparse nel mondo: grazie, Santità!
Sac. Julián Carrón
S.E.R. cardinale Tarcisio Bertone
Segretario di Stato di Sua Santità
Eminenza Reverendissima, il messaggio inviato a nome del Santo
Padre ai 26.000 aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione
presenti a Rimini e agli altri in collegamento da 74 nazioni per gli
Esercizi spirituali, ha reso presente la maternità della Chiesa, nella quale
69
incontriamo la persona di Gesù. E ci ha reso più certi che seguire il
carisma di don Giussani è per noi la strada per una immedesimazione
col Mistero di Cristo risorto, inizio della creatura nuova. La Madonna
vigili sulla Sua grave responsabilità di una dedizione totale a Benedetto
XVI in questo momento della storia.
Sac. Julián Carrón
S.E.R. cardinale Angelo Bagnasco
Presidente CEI
Eminenza carissima, gli Esercizi spirituali della Fraternità di
Comunione e Liberazione, a cui hanno preso parte 26.000 persone
insieme ad altre migliaia in collegamento da 74 nazioni, ci hanno visti
meditare intorno all’interrogativo del Vangelo: «Può un uomo nascere
di nuovo quando è vecchio?». La certezza che «è nella comunione della
Chiesa che incontriamo la persona di Gesù Cristo» (Benedetto XVI),
il cui Spirito fa di noi una creatura nuova, ci fa riprendere il cammino
dentro la realtà quotidiana nella sequela al carisma di don Giussani,
desiderosi di testimoniare che Cristo è l’unico che risponde alle esigenze
del cuore e rimette in moto la vita.
Maria non Le faccia mai mancare la sicurezza della Sua protezione.
Sac. Julián Carrón
S.E.R. cardinale Stanisław Ryłko
Presidente Pontificio Consiglio per i Laici
Eminenza carissima, durante gli Esercizi spirituali della Fraternità
di Comunione e Liberazione, a cui hanno preso parte 26.000 persone
insieme ad altre migliaia in collegamento da 74 nazioni, abbiamo fatto
esperienza che Cristo è l’unico che risponde adeguatamente alla domanda
di Nicodemo: «Può un uomo nascere di nuovo quando è vecchio?».
Nell’obbedienza al Santo Padre e nella sequela a don Giussani, che nel V
anniversario della morte continua a generarci nella fede, continuiamo a
vivere come fedeli laici per testimoniare che la creatura nuova che nasce
dal Battesimo vive nella Chiesa l’esperienza della contemporaneità di
Cristo che salva tutto l’uomo.
Sac. Julián Carrón
Esercizi della Fraternità
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L’ARTE IN NOSTRA COMPAGNIA
A cura di Sandro Chierici
(Guida alla lettura delle immagini tratte dalla Storia dell’arte che accompagnavano l’ascolto dei
brani di musica classica all’ingresso e all’uscita)
Le immagini sono tratte dal ciclo di affreschi di Michelangelo
Buonarroti nella Cappella Sistina in Vaticano. Il ciclo si sviluppa sulla
parte centrale della volta (Scene della Creazione e Storie dei progenitori),
nei pennacchi e nelle vele alla base della volta (Profeti e Sibille), nelle
lunette alla sommità delle pareti laterali (Antenati di Cristo), e sulla
parete occidentale (Giudizio Universale).
Le immagini sono state proiettate secondo questa sequenza:
Creazione di Adamo; Creazione di Eva; Peccato originale; Cacciata
dei progenitori; Ebbrezza di Noè; Diluvio universale; Profeta Zaccaria;
Sibilla Delfica; Profeta Gioele; Profeta Isaia; Sibilla Eritrea; Sibilla
Cumana; Profeta Ezechiele; Profeta Geremia; Giona; Maria (?) o la
moglie di Giacobbe; Il Giudizio Universale, insieme; Il gruppo degli
angeli tubicini; La bocca dell’Inferno; La risurrezione dei morti; L’ascesa
degli eletti; Il gruppo dei martiri; Gli eletti: il gruppo detto “ecclesia”;
Gli eletti: il gruppo detto di Disma; I santi ai lati di Cristo; Lunetta di
sinistra: angeli con la croce e la corona di spine; Lunetta di destra: angeli
con la colonna e la canna; Cristo giudice e la Vergine.
L’arte in nostra compagnia
71
Indice
messaggio di sua santità benedetto xvi 3
Venerdì 24 aprile, sera
isnatn rtoa d muzeisosnae – omelia di don michele berchi 1 4
Sabato 25 aprile, mattina
prima meditazione – Solo il divino può “salvare” l’umano 12
santa messa – omelia di s.e.r. cardinale angelo scola patriarca di venezia 28
Sabato 25 aprile, pomeriggio
seconda meditazione – «Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3) 34
Domenica 26 aprile, mattina
assemblea 50
santa messa – omelia di don stefano alberto 66
messaggi ricevuti 67
telegrammi inviati 69
l’arte in nostra compagnia 71
Società Cooperativa Editoriale Nuovo Mondo
Via Porpora 127 – 20131 Milano
Impaginazione: G&C
Stampa: Arti Grafiche Fiorin - Via del Tecchione 36, Sesto Ulteriano (Mi)
Finito di stampare: maggio 2010

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