sabato 1 maggio 2010

Il lavoro è per risuscitare

In una veloce riunione di redazione a ilsussidiario.net facciamo l’ipotesi che l’editoriale di oggi abbia come tema il lavoro, dato che domani è il primo maggio. Comincio a pensarci su mentre vado in biblioteca - un’importante biblioteca pubblica di Milano - per cercare un libro che mi serve, appunto, per il mio lavoro.
Sto compilando i moduli necessari per l’ingresso e l’impiegata che ho di fronte dice, tra l’affranto e l’astioso, alla sua collega: «Non è il lavoro che mi dà fastidio. Sono le persone che mi scocciano». Mi suona falso e riduttivo e vorrei capire perché. Decido che l’editoriale prenderà spunto da qui.
Per prima cosa mi torna in mente che quando, in attesa di un volume, mi è capitato di ascoltare i colloqui degli impiegati in quella biblioteca, l’argomento era spesso il lamento verso qualche collega, assente ovviamente, o capo: quello ha lasciato la postazione in disordine, quell’altra è arrivata in ritardo, il boss ha ingiustamente definito le ferie e via lamentandosi. Ma, tutto sommato, questo mi sembra sufficientemente normale. Ogni convivenza, soprattutto quando non è scelta, ha le sue spine e ruvidezze.
Poi ho pensato che anch’io, come utente, in fondo sono uno che scoccia, perché pongo un problema, ho un’esigenza, interrompo una lettura o un discorso, sono un fattore di disturbo rispetto a un programma stabilito. Ma così si può dire di ogni rapporto lavorativo.
E, se dà fastidio una persona e quindi la si tratta male, immaginiamoci cosa possa succedere con le cose che, a differenza degli uomini, non si lamentano neppure. Capisco bene, allora, da dove deriva la sciatteria di tanti ambienti di lavoro, quel brutto disordine che denota assenza di rispetto per le cose e per la bellezza dei loro equilibrati rapporti.
Torna in mente la grande lezione che François Michelin aveva tenuto al Meeting di qualche anno fa. Il patron della fabbrica di pneumatici aveva stupito tutti esponendo il principio in base al quale faceva tutte le sue scelte economiche e organizzative: il rispetto del dato. Ogni lavoro, diceva, è un rapporto che si prende con qualcosa di diverso da sé, di preesistente alle proprie immaginazioni, calcoli, previsioni.
Lavorare - e avere successo nel lavoro - significa piegarsi a questa irriducibile e feconda alterità: il collega, l’operaio, il fornitore, il cliente. Persino la materia prima; sì, perché l’uomo non è creatore, come Dio, e può modellare la materia secondo i propri scopi solo se ne rispetta le caratteristiche.
È evidente, allora, che la vera difficoltà che spesso troviamo nel lavoro, quell’insoddisfazione che fa da sfondo alle giornate che siamo costretti a dedicargli provengono direttamente dalla non accettazione del dato - persone e cose -, dalla pretesa di avere a che fare solo con una realtà selezionata dai nostri gusti, piaceri, desideri.
E così ci condanniamo alla sterilità di chi non trova mai niente di nuovo. Ci condanniamo a non fare mai l’esperienza descritta dal poeta polacco Kiprian Norwid: «La bellezza esiste per suscitare ammirazione che poi porta al lavoro: il lavoro è per risuscitare».Pigi Colognesi -ilsussidiario

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