domenica 24 gennaio 2010

LA MORTE NON HA PRESO TUTTO È IL MOMENTO DI PUNTARE LO SGUARDO E APRIRE IL CUORE

Haiti vivrà. Può sembrare quasi assur­do dirlo ora, mentre immagini di ogni tipo di scempio continuano ad arrivarci dalla isola tormentata. Ma Haiti vivrà, e la catastrofe non avrà l’ultima parola.
Ora sembra che la rovina e che la dispera­zione coprano tutto l’arco del visibile. Sì, ci riempiono gli occhi, ci tolgono il respiro e le parole dalla bocca. Ma sempre, sempre, anche quando l’inferno sembra dominare in terra, tra morte degli innocenti e scene di ogni indecente ferocia, occorre guarda­re bene. E decidere su che cosa tenere pun­tato lo sguardo. Perché c’è il novantanove per cento di morte e distruzione, ma non il cento per cento. C’è quasi tutto in malo­ra. Ma non tutto. Ad esempio, ben più di cento hanno resistito per giorni sotto le macerie: le hanno sconfitte, e sono vivi. De­cine e decine di migliaia sono morti, e il dolore per tutto questo, lo sgomento e la pena sono una montagna sul petto. Ma c’è chi ce l’ha fatta. E poi ci sono gli occhi dei bimbi: hanno commosso il mondo, che su­bito si è agitato per dare loro una casa in qualche modo. Quegli occhi sono pieni di disperazione, ma sono bambini. Sono cioè luce del futuro.
Haiti vivrà, perché in lei qualcosa ancora vi­ve. Non solo possiamo vedere la grande per quanto confusa macchina – o, meglio, chia­miamolo polmone o anima – degli aiuti che si è mobilitata. Non solo per questa pode­rosa gara di bene e di solidarietà possiamo dire Haiti vivrà, ma lo possiamo, lo dob­biamo dire per la luce di dignità che ve­diamo nei sopravvissuti, e in quei bimbi che saranno i giovani haitiani di domani. Quando ci sono catastrofi così immense, ci si riempiono gli occhi di immagini di morte, e possono sorgere due atteggia­menti prevalenti. Uno è quello di chi si ab­bandona allo sconforto e tira via gli occhi, decide di non guardare. Sa che esiste l’or­rore ma cerca riparo in altre visioni. Sa che l’orrore è grande, e maledettamente vicino in questo mondo che ci ha reso tutti coin­quilini anche se non tutti fratelli. E però appunto decide di girare lo sguardo, di ri­fugiarlo in qualche cosa di carino, di con­solante, di tranquillo. E poi ci può essere l’atteggiamento di chi, preso dallo sconfor­to e pur sinceramente commosso da quan­to accaduto, si pasce per così dire di tutto questo dolore.
C’è nell’uomo, lo sappiamo, un sinistro pia­cere del dolore, una possibile tendenza a fa­re pasto di ciò che fa pena. Come se a furia di ingurgitarne a grandi dosi se ne dimi­nuisse il sapore amaro, e si potesse sop­portare, anestetizzare un po’. Ci sono que­sti due atteggiamenti, in maggioranza. Li vediamo intorno a noi, li sentiamo nei commentatori tv, li sorprendiamo in noi stessi a volte.
Ma c’è anche un’altra possibilità: puntare lo sguardo a ciò che non è stato vinto dal­­l’orrore, a ciò che non è distruzione ed è scampato alla furia della strage, o è stato più forte di lei. Anche nell’inferno di Haiti ( ma no, non chiamiamolo più così, si ab­bia almeno questo rispetto delle parole) anche nella distruzione di Haiti c’è qual­cosa che non è sottomesso alla parola fine. Gli scampati, i ragazzini che hanno futuro. Haiti vivrà. Dipende dagli haitiani come vi­vrà. E dipende anche da noi. Chi guarda la distruzione ma non solo la distruzione sen­te una doppia responsabilità. Stare vicino ad Haiti ora, perché lotti con la prova im­mensa a cui è sottoposta. E stare con Hai­ti già puntando sul suo futuro, perché la morte ha colpito duro, ha colpito forte, ma non ha preso possesso di tutto. Ci sono quei sopravvissuti, e quei bambini...
Davide Rondoni

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