Haiti vivrà. Può sembrare quasi assurdo dirlo ora, mentre immagini di ogni tipo di scempio continuano ad arrivarci dalla isola tormentata. Ma Haiti vivrà, e la catastrofe non avrà l’ultima parola.
Ora sembra che la rovina e che la disperazione coprano tutto l’arco del visibile. Sì, ci riempiono gli occhi, ci tolgono il respiro e le parole dalla bocca. Ma sempre, sempre, anche quando l’inferno sembra dominare in terra, tra morte degli innocenti e scene di ogni indecente ferocia, occorre guardare bene. E decidere su che cosa tenere puntato lo sguardo. Perché c’è il novantanove per cento di morte e distruzione, ma non il cento per cento. C’è quasi tutto in malora. Ma non tutto. Ad esempio, ben più di cento hanno resistito per giorni sotto le macerie: le hanno sconfitte, e sono vivi. Decine e decine di migliaia sono morti, e il dolore per tutto questo, lo sgomento e la pena sono una montagna sul petto. Ma c’è chi ce l’ha fatta. E poi ci sono gli occhi dei bimbi: hanno commosso il mondo, che subito si è agitato per dare loro una casa in qualche modo. Quegli occhi sono pieni di disperazione, ma sono bambini. Sono cioè luce del futuro.
Haiti vivrà, perché in lei qualcosa ancora vive. Non solo possiamo vedere la grande per quanto confusa macchina – o, meglio, chiamiamolo polmone o anima – degli aiuti che si è mobilitata. Non solo per questa poderosa gara di bene e di solidarietà possiamo dire Haiti vivrà, ma lo possiamo, lo dobbiamo dire per la luce di dignità che vediamo nei sopravvissuti, e in quei bimbi che saranno i giovani haitiani di domani. Quando ci sono catastrofi così immense, ci si riempiono gli occhi di immagini di morte, e possono sorgere due atteggiamenti prevalenti. Uno è quello di chi si abbandona allo sconforto e tira via gli occhi, decide di non guardare. Sa che esiste l’orrore ma cerca riparo in altre visioni. Sa che l’orrore è grande, e maledettamente vicino in questo mondo che ci ha reso tutti coinquilini anche se non tutti fratelli. E però appunto decide di girare lo sguardo, di rifugiarlo in qualche cosa di carino, di consolante, di tranquillo. E poi ci può essere l’atteggiamento di chi, preso dallo sconforto e pur sinceramente commosso da quanto accaduto, si pasce per così dire di tutto questo dolore.
C’è nell’uomo, lo sappiamo, un sinistro piacere del dolore, una possibile tendenza a fare pasto di ciò che fa pena. Come se a furia di ingurgitarne a grandi dosi se ne diminuisse il sapore amaro, e si potesse sopportare, anestetizzare un po’. Ci sono questi due atteggiamenti, in maggioranza. Li vediamo intorno a noi, li sentiamo nei commentatori tv, li sorprendiamo in noi stessi a volte.
Ma c’è anche un’altra possibilità: puntare lo sguardo a ciò che non è stato vinto dall’orrore, a ciò che non è distruzione ed è scampato alla furia della strage, o è stato più forte di lei. Anche nell’inferno di Haiti ( ma no, non chiamiamolo più così, si abbia almeno questo rispetto delle parole) anche nella distruzione di Haiti c’è qualcosa che non è sottomesso alla parola fine. Gli scampati, i ragazzini che hanno futuro. Haiti vivrà. Dipende dagli haitiani come vivrà. E dipende anche da noi. Chi guarda la distruzione ma non solo la distruzione sente una doppia responsabilità. Stare vicino ad Haiti ora, perché lotti con la prova immensa a cui è sottoposta. E stare con Haiti già puntando sul suo futuro, perché la morte ha colpito duro, ha colpito forte, ma non ha preso possesso di tutto. Ci sono quei sopravvissuti, e quei bambini...
Davide Rondoni
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