venerdì 1 gennaio 2010
RINGRAZIARE COME FANNO I PICCOLI TE DEUM, PERCHÉ IL CASO NON HA MANI
Te Deum laudamus. Inizia così la preghiera di fine anno. Si ringrazia, si loda Dio per l’anno passato. Te Dominum confitemur. Ti proclamiamo Signore del tempo che è passato. E che sta per venire. E ogni anno così. Con un gesto quasi rivoluzionario, rispetto a tutti gli altri gesti e le altre parole. Le più diffuse sono quelle di chi si lamenta. E non ringrazia, nemmeno d’esser vivo. Che invece è una gran cosa. O le altre parole, quelle di chi fa analisi, e magari stila classifiche: uomo dell’anno, goal dell’anno, star dell’anno, etc etc. Invece noi ridiciamo Te Deum.
Ringraziando, anche con tutti i magoni che ci vengono a pensare ai giorni passati. Ringraziando d’esser vivi, e qui, a dire il nome più alto di tutti nomi. E a dire i nomi di chi amiamo, o abbiamo amato. A serbare gioia, o ricordo.
Te Deum, anche a denti stretti, a occhi pieni di lacrime. Controvento della gioia, della speranza. Ringraziando per ogni cosa bella. Anche minima. Per ogni notizia minuscola riportata dalle cronache (oppure no) in cui si è testimoniato un bene. Come la dignità di tanti amici carcerati. O poveri. O un martirio. Come quello di tanti fratelli perseguitati, la testimonianza di tanti martiri in terre lontane.
Te Deum, ti ringraziamo per la loro vita. Per quel che ha fatto notizia, e per quel che non fa nessuna notizia.
Per il tanto bene che ci riempie gli occhi, se li teniamo aperti. E ringraziamo per le persone che ci vengono donate.
Te Deum, anche in mezzo al pianto per quelli che non ci sono più. E con la voce che un po’ trema per i troppi orrori che ci è toccato vedere. Per le stragi che ancora hanno eco in noi. Lontane nei mesi, succedute, duramente uguali ormai, notizie di bombe, di autobombe, di massacri in zone che ci sono divenute familiari come nomi di mappe sanguinose.
Te Deum, tremando nell’orrore e nella lontananza. Perché ringraziare per l’anno non è dimenticare l’anno. E alzare il Te Deum non è abbassare la bandiera della memoria delle ingiustizie o delle stragi. Nemmeno di quelle invisibili, dei non nati, dei buttati via. E non è dimenticare i tanti nomi di coloro tra i propri amici che soffrono per mille motivi, e spesso come innocenti.
Alla fine dell’anno più che i bilanci, conta se hai la forza di ringraziare. Più del fatto che tornino i conti (se mai nella vita i conti possano tornare) importa se hai voce per ringraziare l’aeternum Patrem, importa se hai ancora voce per dire: sì, la vita è un dono, e dunque una responsabilità. Ed è di un Altro. Perché le analisi e le partite doppie della contabilità della vita possono interessare gli appassionati di bilanci, e chi vuole chiudere i bilanci. Ma chi è appassionato alla vita e al suo senso, alla fine di un anno cerca dentro di sé e fuori di sé i motivi per ringraziare, che è come dire i motivi per ricominciare.
Anche se la contabilità è in rosso. O se le forze a volte sembrano mancare.
Te Deum, per dire che siamo nelle Sue mani. Che non sono le mani del caso.
Chi pensa di appartenere al caso ringrazia, se gli va tutto bene. Se no, impreca. Chi pensa di appartenere al caso si guarda intorno alla fine dell’anno, e gode se non è stato colpito da sventura. Se no il suo cuore è nell’ombra. Chi dice Te Deum, invece, ringrazia di essere tenuto in quelle mani di Padre, anche se sta conoscendo la difficoltà e la dura prova. Ringrazia, fa la cosa più rivoluzionaria della nostra epoca, ingrata nei grandi rapporti sociali e anche nei piccoli rapporti personali. Ringrazia come fanno i piccoli. E dei piccoli è il segreto del mondo.
Davide Rondoni
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