venerdì 22 marzo 2013

Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 20 marzo 2013



Testo di riferimento: «La dichiarazione esplicita», in All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli,
Milano 2011, pp. 85-97.
Canti :
· Negras ombras
· Noi non sappiamo chi era
Gloria

Ci siamo dati come lavoro per la Scuola di comunità l’inizio del capitolo 
settimo de All’origine della pretesa cristiana, alla luce di quanto è 
accaduto in questo mese,che ci ha costretti a vedere in atto alcune 
delle cose di cui parla il capitolo.Comincio leggendo una domanda che 
mi è arrivata:«Ultimamente, in tutti gli interventi sento parlare di 
contraccolpo in mille modi: per indicarestupore, 
reazione, giudizio sulla realtà. Ne abbiamo parlato anche nel gruppetto 
di Scuola di comunità, ma non mi sembra che il significato fosse 
chiarissimo. Cosa intendi dire esattamente con questa parola?». 
La volta scorsa avevamo usato questo termine per introdurre 
quel che don Giussani chiama «problematicità», cioè che la vita, 
sfidandoci, ci ridesta problemi. Vorrei far raccontare un episodio che 
mi sembra possa aiutare a rispondere a questa domanda.
Ero stato molto provocato dall’ultima Scuola di comunità, quando tu, anticipando
il tema della problematicità della realtà, ci avevi sfidato con queste parole: «Tutto si gioca 
nel primocontraccolpo rispetto al reale, rispetto alle elezioni, rispetto al Papa, 
rispetto alla persona che hai davanti, rispetto al lavoro, rispetto all’attesa, 
cioè rispetto alla vita. Se ciascuno di noi non prende sul serio il dato del reale
e se questo non diventa il punto di partenza, noi siamo già “moderni”, siamo 
già, in fondo, ideologici». E concludevi dicendo: occorre «passare dal 
contraccolpo iniziale all’impegno che questo implica». Il fatto è il seguente. 
Mi chiama un universitario del movimento e mi chiede se possiamo incontrare 
un ragazzo che ha appena conosciuto. Mi incontro con loro, e rimango colpito 
perché quel ragazzo è un rumeno di ventitré anni. Allora chiedo all’universitario:
«Ma dove l’hai incontrato?». E lui: «In metropolitana. Aveva un cartello con 
scritto: “Cerco lavoro”. Quando l’ho visto, io sono passato oltre. Soltanto 
che più camminavo, più nasceva un disagio, più nasceva un’urgenza dentro. 
Ho fatto dieci passi e alla fine mi sono fermato e sono dovuto tornare indietro». 
E io che cosa ho visto in questo fatto? Che veramente tutto si gioca in questo 
impatto iniziale, in questo contraccolpo. È chiaro che questo contraccolpo ti 
sfida (non è l’inno a fermarsi con tutte le persone!), perché non sai dove ti porta. 
E ho capito che questa è proprio la dinamica della realtà tutta, come tu ci avevi 
già ricordato nel libretto degli Esercizi del Clu. Cosa fa il Mistero attraverso 
la realtà? Ridesta tutto il nostro desiderio. E ridestandolo ci mette sempre più 
nelle condizioni di verificare Chi lo compie veramente.
Mi sembra che questo racconto sia utile per cogliere i fattori del reale. 
In tante occasioni non possiamo non sentirci provocati dalla realtà. 
Uno vede una cosa che lo provoca; può lasciarla perdere, ma questo 
succede come se niente fosse: uno percepisce un disagio, sorprende 
dentro di sé un’urgenza a cui può rispondere o non rispondere, ma 
non è uguale a zero. Significa che il contraccolpo non è una questione 
soltanto sentimentale, ma è l’inizio (l’inizio!)
che introduce nella vita quel che don Giussani ci ha detto – lo abbiamo 
citato all’ultima Scuola di comunità – spiegando che cosa è la vita: 
«la vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la 
coscienza producendovi in varia misura problemi. Il problema è 
l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri provocanti. 
E il significato della vita – o delle cose pertinenti e importanti nella 
vita – […] è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la 
problematica totale della vita stessa». Vedete? Giussani 
non dice che il traguardo è possibile per chi riceve il contraccolpo, 
quello lo riceviamo tutti, perché il contraccolpo non ci chiede il 
permesso, succede; ciò che decidiamo noi è se impegnarci con quel 
contraccolpo, con quell’inizio,con quell’attrattiva, con quello stupore (per
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esempio, l’incontro con uno che cerca lavoro, come abbiamo ascoltato), 
un impegno che ci consente di scoprire il significato del reale, della vita. 
«Impegnato» e «totale»: sono due aggettivi decisivi. «Impegnato con 
la problematica totale della vita stessa». Ma attenzione, perché noi 
tante volte riduciamo questo impegno a una sorta di sforzo, a una sorta di 
volontarismo; c’è dentro, evidentemente, come componente di questo 
impegno un coinvolgimento nostro. Ma don Giussani ci aiuta a capire 
qual è la natura di questo impegno, che non è un impegno moralistico: 
«L’insorgere del problema implica la nascita di un interesse, destando 
una curiosità intellettuale». Noi, invece, riduciamo la reazione 
davanti al reale a un problema moralistico (impegnarmi o non 
impegnarmi). In realtà, si tratta di seguire una curiosità 
intellettuale. Non è un problema moralistico,  è un problema conoscitivo. 
Pensate ai vostri figli quando cercano di capire come funziona un 
artefatto:sono entusiasti e curiosi di sapere. Non è che non facciano 
uno sforzo, ma questo sforzo non prende il sopravvento; quello che 
domina è la curiosità, tutta la curiosità (la quale sostiene perfino il loro 
sforzo, tanto che nemmeno si rendono conto di sforzarsi); se non 
è così, è come se tutto diventasse pesante. Lo sappiamo: quando 
nel lavoro o nello studio la curiosità ci prende,  non è che non ci 
impegniamo, ci impegniamo di più! La curiosità e il desiderio 
di sapere, di scoprire il significato, di risolvere l’enigma, di capire 
come funziona il giocattolo, prende il sopravvento sulla pesantezza 
dello sforzo. Ma questa è una decisione che dipende da noi: seguire 
questa curiosità oppure lasciar perdere. 
Per questo l’inizio – l’inizio – della disarticolazione, cioè del dualismo, 
prendereuna strada o prenderne un’altra, è proprio qui: «L’origine 
di [questo] affievolimento di una mentalità organica [cioè di un 
atteggiamento totale di fronte al reale] […] pesca in una possibilità 
permanente dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza 
di impegno autentico [di nuovo, per non ridurlo a moralismo], di 
interesse e di curiosità al reale totale». Il contraccolpo è quell’inizio 
che ci desta l’interesse, che ci desta la curiosità; noi possiamo 
assecondarlo o meno. Per questo non si può opporre il contraccolpo 
iniziale al lavoro. L’abbiamo visto in questi giorni in modo palese di 
fronte a un fatto che tutti abbiamo vissuto. Basta che ciascuno si 
fermi a pensare che cosa ha suscitato in lui la notizia della fumata 
bianca e che cosa è successo dalle sette alle otto di mercoledì, in quale 
atteggiamento eravamo: pieni di questa curiosità. 
Qualcuno se ne è andato via perché il nuovo pontefice tardava ad 
affacciarsi? 
No, eravamo tutti sostenuti nell’impegno con la curiosità che avevamo. 
Obiezione: ma questo impegno è un’aggiunta al contraccolpo? No! Non è 
un’aggiunta al contraccolpo, è la conseguenza normale del contraccolpo. 
Uno avrebbe dovuto fare più fatica per staccarsi dall’attesa che aveva 
suscitato la fumata bianca che per rimanere davanti al televisore ad 
aspettare. Ancora non conoscevamo l’identità del nuovo Papa, ma 
questo non era la cosa decisiva, perché tutto era già lì, nell’Habemus 
Papam. 
Avevamo curiosità perché tutto era già nell’inizio, nel fatto, occorreva 
soltanto aspettare gli sviluppi. Ed è bastato lasciarci provocare, è 
bastato essere leali con quel contraccolpo. Nessuno ha pensato allo sforzo, 
tutti siamo stati impegnati. 
Avete sentito qualcuno che si sia lamentato di quanto tempo stava passando? 
Solamente guardando quel che succedeva nella piazza, abbiamo avuto un 
esempio palese di che cosa vuol dire il contraccolpo e di come assecondare 
questo contraccolpo non è un’aggiunta per i moralisti, non è un’aggiunta per
la gente brava che ha capacità ed energia eroiche. No, nessuno si è sentito eroe 
quella sera per essere rimasto ad aspettare per un’ora, semplicemente era la 
cosa più normale che si potesse fare di fronte all’imponenza del fatto. Ecco, 
quando ci rendiamo conto di questo, cominciamo a comprendere che cosa ci 
dice Giussani quando parla di impegno con la realtà: se noi molliamo la presa, 
allora il significato di quel che è successo non si svela. Per questo opporre il 
contraccolpo a questa curiosità e a questo impegno con la curiosità è soltanto 
un artificio, perché tutti abbiamo avuto l’esperienza indimenticabile di quel 
momento. Per questo uno mi ha scritto: «Sono rimasto colpito 
dall’immediatezza con cui si è presentato papa Francesco. Questo avvenimento 
però mi ha riaperto una domanda su cui ti chiedo un aiuto: come sta insieme 
la semplicità della fede testimoniata dal nuovo Pontefice e il lavoro e il cammino 
che continuamente ci richiami?».
L’abbiamo appena visto: soltanto per la semplicità di ciò che accade abbiamo 
bisogno di cedere e di assecondare la curiosità iniziale, come dice la Scuola di 
comunità. E quanto più uno condivide la vita, condivide i gesti, tanto più 
raggiunge una certezza di conoscenza dell’altro, della persona che
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ha davanti. Tutti eravamo protesi a sapere, alle notizie che arrivavano. Perché? Per la curiosità
incontenibile che avevamo. Se uno se ne fosse andato e non avesse sentito parlare per la prima volta
papa Francesco, se non avesse visto i suoi gesti, se non avesse cominciato quella condivisione di cui
parla la Scuola di comunità, non avrebbe potuto raggiungere una certezza di conoscenza come
quella che adesso abbiamo. È quello che dice oggi la Scuola di comunità: occorre una vera
attenzione. Una vera attenzione: «Quanto più allora uno condivide la vita di una persona [e per
questo occorre darsi tutto il tempo necessario] tanto più è capace di certezza morale a suo riguardo,
perché la congerie di indizi si moltiplica». Perciò non si può vedere o introdurre una
contrapposizione tra il primo inizio e la continuazione, che è semplicemente una coerenza con la
posizione iniziale. La questione è che, tante volte, un istante dopo noi decadiamo e allora non
manteniamo la posizione originale, per ragioni varie. La questione è che una posizione è vera se
mantiene l’atteggiamento iniziale. Perciò prosegue il testo: «Cristo finalmente si presenta come Dio
[…] soltanto quando le coscienze attorno a Lui avevano già assunto posizioni decise nei suoi
confronti». A proposito di questo mi scrive un’altra persona: «Quando nel capitolo settimo ho letto
la frase: “Dio, infatti, tende a valorizzare la situazione in cui la nostra libertà si è precedentemente
messa. Il modo con cui Dio ci tratta asseconda una decisione già presa della nostra libertà”, mi sono
bloccato per due giorni. Mi sembra una frase ingiusta e cattiva perché non dà scampo. E mi veniva
in mente il giovane ricco che era andato da Gesù con una sua idea di conversione e Gesù gliene
aveva proposta una diversa che lui non ha accettato e se ne è andato via triste. Ha avuto la sua
occasione e l’ha persa. Avevo capito così: uno sbaglia ed è finito. Poi ho pensato alla mia
esperienza dove non è così, e che il verbo “tratta” è al presente ed è continuativo, non una volta per
tutte. La nostra libertà è in rapporto a quel che succede in quel momento, non a quello che è stato
cinquant’anni fa. Un esempio: ho organizzato tutto per recarmi all’ultima udienza di Benedetto XVI
a Roma. Per me la questione era finita lì, come fossi andato e tornato, come se non aspettassi niente.
Questa partita, invece, si gioca continuamente di fronte alle cose che il Signore suscita. Ogni istante
si gioca quel rapporto tra Dio che fa accadere delle cose e tu che devi rispondere. E pensare che la
nostra compagnia dovrebbe essere la condizione dove la nostra libertà viene educata ad aprirsi e
non a chiudersi perché ci sfida continuamente». È proprio così. Noi tante volte pensiamo che
l’assecondare da parte di Dio una decisione già presa della nostra libertà, come dice, sia una
condanna: hai avuto l’occasione e l’hai persa. No. Perché anche se l’hai persa, domani mattina
davanti a una bella giornata puoi nuovamente dire «sì» o «no», davanti alla pioggia puoi dire «sì» o
“no”; davanti alla bellezza di un gesto gratuito o a uno sguardo pieno di tenerezza di una persona
amica puoi dire «sì» o «no». Nessuna nostra chiusura può impedire questo, nessuna nostra
posizione può impedire che succedano certe cose e che noi lo sperimentiamo. Anche se eravamo
distratti quando abbiamo sentito annunciare: «Fumata bianca!», nessuno ha potuto evitare, qualsiasi
fosse la situazione in cui si trovava, di alzare la testa per un istante. Nessuno può impedirlo, perché
non è nelle nostre mani decidere che cosa succede; per questo si riapre la partita costantemente.
Quindi non è che noi siamo già condannati per il fatto di avere sbagliato; no, si riapre sempre la
questione, altrimenti il dialogo del Mistero con noi si interromperebbe. Non si interrompe mai
perché costantemente, come abbiamo detto prima, la vita è questa trama di avvenimenti che ci
provocano, la vita è questo dialogo costante del Mistero che attraverso le cose che accadono ci
provoca, ci chiama; sono tutte, come abbiamo detto, per la nostra maturazione. Quindi Lui continua
a chiamare, continua a bussare alla nostra porta, e tutta la chiusura di prima non produce
necessariamente che io sia chiuso anche adesso. Io devo ridecidere. Chi, per esempio, quando è
veramente arrabbiato con la vita e vede una bellissima giornata non è sconvolto di nuovo? Dovete
ridecidere. O davanti a un gesto gratuito, uno potrà essere arrabbiato quanto volete, ma non può
evitare il contraccolpo della sua bellezza. Ciascuno di noi lo sa benissimo, deve ridecidere ogni
volta, perché questa è l’affermazione sostanziale della concezione dell’io che stiamo difendendo
ogni volta che parliamo: altrimenti saremmo incastrati, definiti soltanto dai fattori antecedenti,
qualsiasi fossero, censurando che c’è un io costantemente sfidato. Per questo ogni volta – e questa è
la drammaticità – dobbiamo decidere se assecondare o negare e rifiutare. E per questo, dice la
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lettera ai Romani, siamo colpevoli non una sola volta, perché dobbiamo ridecidere in continuazione
di rifiutare un’iniziativa dopo l’altra del Mistero. Per questo la partita è sempre aperta fino
all’ultimo istante, come vediamo nell’episodio del buon ladrone: può avere rifiutato per secoli e
all’ultimo aprirsi. È la libertà, è l’io. Fa parte della concezione dell’io questa possibilità costante di
aprirsi. Per questo dice ancora il capitolo settimo: «Quando la libertà si dispone in atteggiamento di chiusura [perché lo decide la libertà!], tutto quanto accade la favorisce a chiudersi maggiormente».
È impressionante vederlo accadere drammaticamente nella vita. Per questo Cristo dice che a chi ha sarà ancora dato, perché si trova nella disposizione di ricevere costantemente, mentre a chi si chiude sarà tolto perfino quel che pensava di avere. E non perché il Mistero sia indisponibile o arrabbiato con noi o ce la voglia far pagare… No, ma perché costantemente dobbiamo ridecidere, la questione è sempre aperta.
È tutta sul tema della libertà la domanda che volevo farti, perché ho lavorato tantissimo
sull’affermazione che la libertà è una cosa molto discreta. Questa cosa mi aveva fatto arrabbiare,
perché avevo avuto una discussione al lavoro con un collega: succedevano delle cose e io andavo
a dirgliele. Alla fine ci siamo irrigiditi sulle nostre posizioni, e lui è arrivato a dare questo giudizio:
«Tu schiacci la mia libertà, non rispetti la mia libertà». Allora dentro di me continuavo a pensare a
questa frase, che la libertà è discreta: probabilmente è questa cosa qua, quindi io schiaccio… Poi
un altro mi diceva: «No, non devi dirmi queste cose, perché non sono nella posizione giusta, devi
rispettare la mia libertà». Però questa libertà discreta in fondo mi sembrava un po’ una
mortificazione di me ed ero andata a riprendermi tutto il capitolo sulla libertà di Si può vivere
così?. E lì diceva che è una decisione, che i fatti ci sono e tu devi decidere ogni istante se cedere o
no, come dice qui, a far entrare il Mistero.
Eh, sì.
Perché, allora, conclude dicendo che la libertà non si gioca anzitutto di fronte a grandi scelte? Mi
sembra invece la scelta più grande se cedere in ogni istante a Lui.
Perché davanti alle scelte grandi, come dici, quello che viene fuori è l’atteggiamento che
assumiamo di fronte alle scelte piccole, alle scelte normali. Per questo mi avete sentito citare
parecchie volte il passaggio del Vangelo che tanto mi piace: «A chi paragonerò questa generazione?
Assomigliano a questi bambini nella piazza che hanno deciso di non lasciarsi colpire. Abbiamo
suonato il flauto e non avete ballato. Abbiamo cantato una canzone triste e non avete pianto». Senza
dare nessuna spiegazione, è questo che mi colpisce, Gesù dice letteralmente, con questo esempio,
quello che dice Giussani. «Poi è venuto Giovanni Battista e voi avete detto che era un indemoniato
per la vita che faceva, per il modo di vestire strano, lo avete liquidato come problema, come
provocazione. È venuto il Figlio dell’uomo, cioè Io, che è il contrario, che vive una vita normale:
mangia, beve, lo invitano a pranzo e accetta. E dite: “Mangione e beone, amico dei pubblicani e dei
peccatori”». Il suono del flauto e il Figlio dell’uomo: l’atteggiamento non è diverso, perché è un
atteggiamento di fronte al reale. E questo dice come il Mistero ci ha fatto. Siccome noi siamo fatti
così bisognosi, non sappiamo da dove può venire la risposta a quello di cui abbiamo bisogno. Non
sapevate il volto della persona amata, non sapevate qual era il volto con cui il Mistero aveva deciso
di salvarci; Giovanni e Andrea non lo sapevano in anticipo; nessuno sapeva. L’unica possibilità per
cogliere la modalità con cui il Mistero ci raggiunge è questo atteggiamento aperto di fronte al reale.
Per questo la vera decisione è rispetto al reale, a qualsiasi modalità con cui il reale ci colpisce. Non
è che abbiamo un atteggiamento quando partecipiamo a questo gesto e un altro davanti al sole o alle
montagne. È lo stesso, tanto è vero che quando siamo incastrati ci arrabbiamo allo stesso modo con
il testimone e con le montagne; con il marito a cui vogliamo bene e con la pioggia perché ci
disturba. L’atteggiamento è lo stesso perché è una posizione davanti al reale.
Tornando sulla questione della libertà, che questa volta mi ha colpito come tema sotteso a tutto il
capitolo, il groppo alla gola e al cuore si ripresenta sempre. Ma se il Mistero asseconda sempre
l’opzione della libertà originale del nostro cuore, e se tutto si spalanca perché originariamente
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aperto, e tutto invece si oscura per chi, come primo impeto, ha la chiusura, è già tutto scritto?
Nella mia vita vedo che la libertà non è una volta per sempre, ma è di ogni giorno, quasi di ogni
istante, se la coscienza di me mi è usuale. Ma se la posizione primitiva è quasi nativamente rivolta
su me stesso e non al Mistero, può la ragione, che interviene subito dopo, convertirla? Ha la
ragione la forza necessaria nel tempo a convertire questa scelta originale della libertà, oppure è
pura grazia? È a questo livello che finalmente il Mistero mi attende per farmi corrispondere in
verità al Suo amore che mi fa? E se invece fosse pura grazia, potrei mai amarLo veramente, in
libertà? A me capita proprio qui di fare esperienza del mio “sì”, e da qui nasce l’impeto che
vorrebbe poi investire ogni azione. Ma questo ripresentarsi continuo del mio istintivo egoismo mi
lavora ai fianchi, risuggerendomi quasi quotidianamente il dubbio che in fondo l’interpretazione
vera di quello che dice Giussani sia proprio che tutto è già scritto in quella scaturigine di istintivo
egoismo, tanto sembrerebbe dominare. È una lotta quotidiana, supplicando la grazia e la
compagnia del Mistero, che usa i miei amici per rimettermi di fronte a Lui dentro questa quotidiana
vertiginosa scelta della libertà. Ma quanta invidia della chiarezza del “sì” di Maria rimostratomi
oggi nel “sì” di tanti testimoni! Quale profonda nostalgia di un rapporto con il Mistero così
permeato nella coscienza di sé, così reale e così semplice come questi testimoni. Nell’ultima
confessione mi è stato detto: «Resisti, lotta, vivi, ridicendo sempre a Lui: “Mi basta la Tua
grazia”», e, ben felice, abbraccio questa indicazione. Ma è giusto domandare un passo più
profondo della libertà che porti alla pace del figliol prodigo ai piedi del padre? La scelta della
libertà, dono inimmaginabile da parte nostra per il rapporto con il Mistero, come può arrivare a
essere habitus della coscienza di noi? È una pretesa? Ma se è una pretesa, allora perché questo
ingolosirci, questo assetarci con esempi tanto evidenti?

Dipende da come si concepisce la parola habitus, che potremmo tradurre come familiarità rispetto a
un certo atteggiamento. È un desiderio umanissimo, che tutti abbiamo: che diventi sempre più
familiare questa libertà. Ma la questione è che tante volte noi pensiamo che avere questa familiarità
significhi assenza di libertà, assenza di decisione costante. E questo fraintendimento, secondo me, è
decisivo perché, come abbiamo detto in qualche altra occasione, ti piacerebbe che questa familiarità
fosse così meccanicamente abituale da esonerarti dal dire ai tuoi figli: «Ti voglio bene»? No,
evidentemente. Perché dire: «Ti voglio bene», sarà sempre qualcosa di assolutamente nuovo,
assolutamente unico, che non è frutto di alcun antecedente, di alcun meccanismo. Altrimenti non
sarebbe più tuo in questo momento, come dicevi prima. E questo scaturisce adesso, dalla tua libertà
rispetto all’altro o rispetto a Cristo. Il «sì» della Madonna, come dici, scaturisce costantemente da
questo. È evidente che possiamo educarci a che questo diventi sempre più familiare, ma senza che
questo implichi pensare che questo “abito” coincida col cancellare la libertà. Noi, infatti, vogliamo
che la nostra adesione diventi più stabile, e non che si cancelli! Possiamo dire sinteticamente che
essa diventa più stabile non annullando la libertà, ma esaltando la libertà. Quando la Madonna dice
di sì non è perché riduce la sua libertà, ma perché la esalta; non è perché la cancella sostituendola
con un’abitudine, ma la valorizza sempre di più. Uno è più gioioso di rispondere, di dire alla
persona a cui vuole bene quanto le vuole bene; è una esaltazione della libertà, non è un venir meno
della libertà per evitare di sbagliare. È una concezione della mia libertà, secondo la quale la mia
libertà si compie in questo «sì». Per questo don Giussani ci ha sempre detto che il «sì» non è un
problema di coraggio o di energia, bensì di stupore, di lasciarci invadere da questa assoluta
tenerezza del Mistero: «Ti ho amato di un amore eterno e ho avuto pietà del tuo niente». È da questa
consapevolezza che sorge sempre come gratitudine il «sì», come il «sì» di Pietro davanti allo
sguardo pieno di misericordia di Cristo, come ci ricordava papa Francesco in questi giorni: un «sì»
pieno di tutta la consapevolezza della libertà.
In ditta da me siamo un gruppetto di cristiani di diversa provenienza ecclesiale e ci ritroviamo tutti
i venerdì per un momento di aiuto, di giudizio sulla nostra presenza cristiana. In occasione delle
elezioni è venuto fuori che, naturalmente, la gente aveva percezioni completamente diverse della
situazione, e quindi anche orientamenti politici diversi. Questo per me è sempre stato un po’un
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problema. Ma questa volta c’è stata una novità: come ci siamo aiutati a vivere quest’anno le
elezioni per me è stato una fonte di educazione veramente grandiosa. A un certo punto, i nostri
colleghi laicisti ci hanno obiettato: «Siete tutti cristiani, però alla fine siete divisi». Senza fare
ragionamenti particolari ho detto: «Se pensate che per il fatto che abbiamo la libertà di
confrontarci tra noi su questo, noi siamo divisi, voi perdete l’unica cosa che ci tiene veramente
insieme, che è Cristo e la potenza dello Spirito Santo. E se continuate a leggere quel che succede
dentro la Chiesa a prescindere da questo, voi perdete fondamentalmente i criteri corretti per
giudicare la nostra presenza». Quando ho visto la faccia che ha fatto un collega che appartiene a
un altro movimento – non si era mai sentito dire una cosa del genere –, ho riscoperto un’unità con
lui grandissima, un gusto completamente nuovo di riconoscere che questa unità c’è e che Cristo la
rinnovava continuamente. Io non so dire come mi sia venuta fuori questa cosa, però posso dire che
se il movimento non mi avesse dato questo sprone nel giudizio sulla situazione politica, a me mai
sarebbe venuto in mente. Posso dire che l’esito è un gusto grandissimo che ti convince del fatto che
“rischiare” Cristo nelle cose è sempre più convincente, sempre più attraente; e la volta successiva
l’impeto nasce in maniera ancora più naturale, ancora più semplice, se vogliamo. La libertà è
come educata di volta in volta rischiandola e giocandola.
Grazie.
Vorrei esprimerti tutta la gratitudine di cui sono capace per quanto in questi mesi sta maturando in
me grazie a un costante lavoro personale su tutto quanto ci stai indicando attraverso scritti,
articoli, interviste. Dopo l’ultimo ritrovo del mio gruppo di Fraternità ho sentito l’esigenza di
confrontarmi con un po’ di amici su alcune questioni. Spesso, infatti, tornavo a casa con un senso
di insoddisfazione e talvolta di fastidio, di cui parlavo solo con mio marito, ma che in sostanza
lasciavo passasse senza fare granché. L’impressione è che spesso ci viene indicato di fare un
lavoro su un testo che poco ha poi a che fare con gli interventi che vengono fatti. Mi spiego: non
mettevo in discussione il fatto che le cose indicate venissero lette, ma che nel raccontare le
esperienze non si partisse realmente da lì. Gli stessi interventi avrebbero potuto essere fatti anche
se non si fosse letto il testo. Avverto quindi in molti, me compresa, la difficoltà di un paragone fra
l’esperienza e il testo, come invece da mesi ci chiedi di fare e che il don Gius ha sempre indicato
come la strada da percorrere; ho ritrovato un testo su Litterae Communionis del 1992 dove diceva:
«Come la Scuola di comunità diventa un punto di paragone? Deve essere innanzitutto letta,
chiarendo insieme il significato delle parole. Non una interpretazione, ma la sequela letterale. […]
In secondo luogo, occorre dare spazio alla esemplificazione di un paragone tra ciò che si vive e
quello che si è letto. Bisogna chiedersi come quello che si è letto e cercato letteralmente di capire
giudica la vita». Quindi dopo l’ultimo raduno, invece di tenere per me queste considerazioni, le ho
scritte ad alcuni chiedendo un giudizio ed eventualmente una correzione. Sono rimasta veramente
colpita da quanto la mia mail ha generato: qualcuno ha condiviso le mie parole, qualcuno ha
sottolineato la necessità e il desiderio di aiutarsi maggiormente in un giudizio per un lavoro e
un’amicizia ancora maggiori, qualcuno ha anche sottolineato il rischio di non diventare
presuntuosamente giudicante. Comunque, la cosa interessante, di cui forse per la prima volta ho
fatto veramente esperienza, è stato vedere come, se si va a fondo di un desiderio che nasce da una
mancanza, da un senso di vuoto – che per me è una compagnia costante da quando ho l’uso della
ragione –, questo muove e, muovendo, fa nascere delle cose. Quindi con alcuni ci siamo visti a
cena, con altri sentiti. Con tre amici, per altro di lunghissima data (ci conosciamo da quando siamo
ragazzini), è nata l’esigenza di aiutarsi trovando dei momenti in cui concretamente leggere insieme
quello che di volta in volta viene indicato. Un’ultima cosa. Un’altra esperienza che ho fatto, grazie
soprattutto al lavoro da te proposto riguardo alle elezioni, è stata innanzitutto quella di essermi
sentita valorizzata totalmente come persona, e come persona pensante, e non di avere delle
indicazioni preconfezionate circa il voto. Dopo un primo momento di smarrimento, ciò mi ha
costretto a verificare personalmente lo scenario, così ho semplicemente prestato più attenzione alla
lettura dei giornali, ho letto i programmi dei partiti, ho parlato con amici e colleghi, e ho maturato
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una maggiore consapevolezza, poi, sulla decisione di chi votare. Insomma, ho cercato di fare quel
percorso che ci suggerivi; e devo riconoscere che è stato molto interessante, mi ha costretto a usare
la ragione secondo quel metodo sul quale tanto si insiste e che poi scopro essere valido ogni giorno
in ogni circostanza (perché ogni giorno siamo chiamati a fare delle scelte, piccole o grandi che
siano). In conclusione, non è che sia cambiato qualcosa nella mia vita di tutti i giorni: vado a
lavorare, porto i bambini a scuola, li vado a prendere, li faccio studiare. Ma sta cambiando
totalmente il modo di vivere tutte le circostanze. E questo fa rinascere, per esempio, rapporti e
amicizie di sempre, rinsalda ogni giorno il rapporto con mio marito, con una profondità che ho
sempre desiderato, ma per la quale in realtà stavo ad aspettare la mossa altrui invece che
muovermi io.
Mi sembra significativo come hai concluso, e lo utilizzo per concludere anche io: «Non è che sia
cambiato qualcosa nella mia vita di tutti i giorni […]. Ma sta cambiando totalmente il modo di
vivere tutte le circostanze». Questa è la verifica della fede: uno vede che, facendo una strada,
impara a vivere; uno si rende conto che vivere la vita così è più ragionevole; uno fa l’esperienza
reale di quel che ci siamo detti in questi ultimi tempi, cioè percepisce la fede come pertinente alle
esigenze della vita. Quando noi prendiamo sul serio la proposta che ci facciamo, costantemente
cresce in noi una modalità di stare nel reale molto più vera, molto più intensa, molto più adeguata.
Hai detto che stanno rinascendo rapporti e amicizie di sempre – tutto diventa nuovo! –, con una
profondità che hai sempre desiderato e «per la quale in realtà stavo ad aspettare la mossa altrui
invece che muovermi io». La promessa che fa Gesù, quel «centuplo donato da Cristo a chi lo
accoglie nella propria esistenza», come ha detto papa Francesco nell’udienza a tutti i cardinali due
giorni dopo la sua elezione, è questo: sperimentare che vivendo la fede si moltiplica tutto quel che si tocca, tutto quel che si vive, non perché cambiano esteriormente le cose (le sfide sono le sfide di
sempre, la quotidianità è la quotidianità di sempre), ma perché – diventando ogni circostanza
educativa, accettando la problematicità della realtà, seguendo con curiosità ciò che accade – si
genera un soggetto diverso, un io diverso. E lo si vede nella modalità con cui uno sta nel reale. È
questo, questo cambiamento, questa diversità che sorprendiamo in noi, il contributo che possiamo
dare agli altri testimoniando che cos’è la fede nel quotidiano, qual è la sua pertinenza alle esigenze
del vivere.
Ad aprile ci sono gli Esercizi della Fraternità per cui la prossima Scuola di comunità in
collegamento si terrà mercoledì 29 maggio alle ore 21.30. Riprenderemo insieme la prima parte
degli Esercizi della Fraternità.
Durante la Settimana Santa la Chiesa ci propone dei gesti per mettere davanti ai nostri occhi quello
che Gesù ha vissuto. Mi sembra che il resto del capitolo settimo c’entri abbastanza con quello che
stiamo per celebrare. La lotta che si scatena davanti alla pretesa di Gesù, quanto più emerge, viene a
galla la Sua pretesa, non accade soltanto agli altri, ma anche in noi e porta costantemente a renderci
consapevoli di che cosa è la passione di Cristo per i nostri peccati e per il nostro rifiuto, della
possibilità che Lui ha aperto con la donazione della Sua vita e con la Sua resurrezione. Per questo,
continuare a lavorare su questo capitolo avendo negli occhi quello che celebreremo la Settimana
Santa, ci mostra che non è qualcosa del passato, che possiamo capire, entrare nel Mistero, proprio
vedendo il dramma in cui viviamo oggi, il dramma che ha portato Gesù a dare la vita per noi. E
quindi è con gratitudine che vogliamo celebrarli, questi giorni, con tutto noi stessi, per ringraziare
Cristo della Sua fedeltà e per domandarGli di vincere tutta la nostra testardaggine.
Preghiamo per il nuovo papa Francesco:
Veni Sancte Spiritus
Buona Pasqua a tutti!

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