Buongiorno a don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione. Grazie di essere con noi.
Grazie. È un piacere.
Lei in un articolo su la Repubblica ha dato un po’ il senso del gesto [di Benedetto XVI] parlando di un gesto di libertà, questa è stata la parola chiave del suo commento. Ce la può spiegare?
Il senso mi sembra molto semplice: una cosa così, un gesto di questo calibro, non si può spiegare soltanto per certi fattori che sembrano all’origine di un gesto così: il coraggio, le difficoltà, la situazione della Chiesa, perché non spiegano una cosa: la letizia del volto del Papa. Mi veniva questa idea quando ho visto per l’ultima volta il Papa con il suo volto risplendente prima del chiudersi della porta a Castelgandolfo; possiamo dare tutte le interpretazioni che vogliamo, ma quella faccia lieta resta, e ciascuno deve misurarsi con questo: se qualsiasi interpretazione è in grado di dare ragione adeguata di questa letizia.
E allora qual è il vero senso di questo gesto?
Secondo me soltanto che c’è Qualcuno che riempie il cuore del Papa, che lo fa traboccare di quella gioia che si vede nella faccia. Tutti noi abbiamo esperienza di questo. Non è una strategia, non è qualcosa che possiamo darci noi, non è qualcosa che possiamo raggiungere con qualche percorso molto ben pensato; è qualcosa che ci troviamo addosso quando succede qualcosa di così grande, di così bello che ci riempie, tanto che ci fa risplendere la faccia. È una pienezza all’origine della libertà.
Ratzinger però non ha una personalità particolarmente emotiva, lui stesso dice di sé: «Non sono un mistico». Il suo è stato un percorso molto razionale, molto intellettuale anche.
È per questo che ancora occorre dare una spiegazione adeguata per questo, perché non è una persona in grado di prendere una decisione di questo calibro senza capirne la portata e le conseguenze, non è una persona che fa un gesto non pienamente consapevole. Per questo non si può ridurre a un problema sentimentale questa letizia di cui parlo; è una letizia che ha un’origine talmente profonda, talmente radicata nel profondo dell’essere. Per questo dicevo… mi domandavo: ma qualcuno si domanda che cosa vuol dire Cristo per Joseph Ratzinger, per la sua persona? Perché chiunque lo può vedere, quando ha un’esperienza vera di amore, che quello che riempie la vita non è nessuna strategia, è trovarsi davanti a una presenza che sorprendentemente lo fa risplendere. È soltanto se noi partiamo dall’esperienza elementare del vivere che possiamo capire l’esperienza elementare di un altro. Senza questo rimaniamo nella nostra interpretazione, senza guardare quello che abbiamo davanti; perché se qualcuno ci dice - quando ci vede così contenti fino al punto che si domanda -: «Ma cosa ti è successo?», non è che basti a spiegare [questo] una strategia o un coraggio. «Perché sei venuta contenta a lavorare oggi?», diciamo, «che cosa ti è successo?» È un’altra cosa, è un Altro che è all’origine di quella faccia che uno trova nel collega o nell’amico.
Insomma lei dice: [il Papa] ha riportato la Chiesa a riflettere sulla sua natura, alla fine sul fondo della questione, cioè su Gesù Cristo.
Esatto. Questo è quello che lui ha detto. La questione è che per poter capire questo occorre che le persone che guardano questo gesto senza ridurlo possano aver avuto qualche tipo di esperienza. Perché noi possiamo capire l’esperienza di un altro se in qualche modo noi abbiamo fatto esperienza di quello, altrimenti noi pensiamo di capirlo, ma lo riduciamo, e per questo dobbiamo dare altre interpretazioni. È soltanto una persona per cui Cristo è reale, non soltanto una creazione dell’immaginazione, una autoconvinzione, non soltanto il cristianesimo come un’etica, non soltanto ridotto tutto a organizzazione, ma una vita - come ha detto l’ultima volta parlando ai cardinali: la Chiesa è una vita che sgorga costantemente dalla presenza di Cristo -, che può spiegare una cosa del genere. Capisco che questo per tante persone non è una spiegazione perché, non avendo esperienza di Cristo come qualcosa di reale, pensano che non può essere questa la spiegazione. Io lo capisco, è perfettamente comprensibile, ma è soltanto quando uno fa questa esperienza - come facevano quelli che l’o hanno incontrato [Cristo]: «Mai abbiamo visto una cosa così» - che può capire un’esperienza del genere.
E tuttavia questo gesto comunica anche un’ansia di rinnovamento, di cambiamento, di autoriforma della Chiesa.
Ma questo mi sembra che in tutto quello che lui ha detto dopo è presente, perché è come se nel gesto ci fosse non soltanto il richiamo al rinnovamento, dicendo che cosa è la Chiesa e che cosa è Cristo, ma c’è anche il metodo: guardate che se Cristo non diventa questo per noi, non si può rinnovare la Chiesa con delle strategie, e se non ci convertiamo a Lui, non nel senso tante volte in cui intendiamo questa parola “conversione”, come se fosse di nuovo qualcosa di moralistico; no, se Cristo non diventa per noi la cosa più cara, sarà impossibile il rinnovamento, perché l’uomo ha un desiderio di pienezza: se non la trova in una presenza come Cristo, la cerca altrove, tutti la cerchiamo altrove se non è questo. Per questo non soltanto il gesto di per sé è già un richiamo, ma ci offre anche il metodo e la strada per rispondere a questo richiamo; non è soltanto un richiamo moralista, ci testimonia la strada. Come nel primo incontro che racconta il Vangelo, nel primo incontro c’è la risposta e la strada, quando i due primi, Giovanni e Andrea, hanno incontrato Gesù, hanno incontrato una persona, una presenza così eccezionale che lì c’era la strada, tanto è vero che sono tornati il giorno dopo a cercarLo e sono diventati Suoi per il resto della vita. La questione è se la Chiesa capisce che questo è il metodo; soltanto se la Chiesa diventa una presenza, se ogni cristiano diventa questo tipo di presenza così che, guardandolo, uno vuole tornare a vederlo il giorno dopo perché è decisivo per il vivere.
Ecco, secondo lei quali sono le necessità della Chiesa in questo momento?
La Chiesa necessita di quello che lui ci ha detto con l’indire l’Anno della Fede, cioè la Chiesa ha bisogno, come tutti abbiamo bisogno in ogni momento della nostra vita, di riscoprire che cosa ci è accaduto quando siamo diventati cristiani, riscoprirlo di nuovo come qualcosa di affascinante, di nuovo, di veramente attraente per la vita. Se si riduce questo a una qualsiasi delle riduzioni odierne del cristianesimo: organizzazione, etica, spiritualismo, tutto questo non è in grado di prendere la totalità dell’io, e se non prende la totalità dell’io cerchiamo la soddisfazione altrove. A me piace tantissimo una frase di san Tommaso che riassume bene questo: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente la sostiene, dove trova la più grande soddisfazione». Il problema della vita per ciascuno di noi, credenti o non credenti, è dove trova uno la più grande soddisfazione. La questione è che in tutte le presenze che incontriamo, tutte le persone che incontriamo in un certo momento ci soddisfano e poi tante volte decade. Qui l’unica questione è se c’è una presenza in cui la soddisfazione non solo non decade, ma cresce nel tempo, perché altrimenti la vita perde di significato. Ci troviamo in quella famosa frase di Eliot: «Perdiamo la vita vivendo». Purtroppo questa è l’esperienza di tanti. Invece l’esperienza cristiana ci offre un’altra possibilità: guadagnare la vita vivendo. E tu vedi che questo è vero perché in una persona all’età del Papa tu non vedi che è perdente; vedi che nel massimo della sua maturità, nella faccia tu vedi che questo uomo guadagna la vita vivendo.
Don Julián, le faccio anche una domanda, se vuole, banale, ma realistica. Che identikit può avere il nuovo Papa?
Mi sembra che quello che stiamo dicendo è questo - non è che occorra un identikit particolare -: occorre un cristiano, un credente, una persona che possa testimoniare, come ha fatto Benedetto XVI e prima Giovanni Paolo II – per citare gli ultimi due – la bellezza di Cristo; perché il problema oggi è questo: in un mondo smarrito - abbiamo ben presente la situazione, dove ci troviamo come mine vaganti -, che le persone possano trovare qualcosa a cui ancorarsi, che possa veramente rispondere. E questo non è prima di tutto un’organizzazione, prima di tutto un comitato, è un cristiano – diciamo –, una creatura nuova. Mi sembra che è la scoperta dell’acqua calda dire queste cose, ma è semplicemente quello che tutti desidereremmo trovare accanto, trovare davanti: una persona che, guardandola, ci faccia compagnia nelle cose fondamentali del vivere.
Lei citava prima il poeta inglese Eliot. Ecco, il suo amatissimo predecessore, don Giussani, rispondendo a una domanda, in una delle sue ultime interviste televisive diceva proprio a proposito della famosa frase di Eliot: «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?», lui rispondeva: «Tutte e due» e diceva: «La Chiesa si vergogna di Cristo».
Sì, in un certo modo sì. La questione è: perché ci vergogniamo di Cristo? Perché, non avendoLo scoperto con tutta la nostra umanità, pensiamo che non offriamo a noi stessi e agli altri la cosa più grande che possiamo offrire. Se uno dà un regalo a un altro, lo dà contento, perché considera che gli fa un piacere, che gli dà il meglio che ha, ma per poterlo offrire così, con questa libertà, con questa gioia, con questa letizia, occorre che sia convinto che questo è un bene per l’altro, e fa questo soltanto se ha la convinzione che è un bene per sé. E la questione, allora, diventa sempre la stessa: che cosa abbiamo noi di più caro? Perché se noi non abbiamo di più caro - come diceva il famoso Solov’ev - Cristo, allora è difficile che noi non abbiamo vergogna di proporlo. E quando uno ha questa letizia, questo si vede soprattutto nelle persone che lo incontrano di nuovo, quegli ultimi appena arrivati che sono così traboccanti della letizia di quello che hanno incontrato che non hanno nessuna vergogna di dirlo, tanto sono convinti di offrire agli altri quello che per loro è stata la scoperta della vita, come succedeva all’inizio e come succede adesso nelle persone che lo riscoprono. Il problema è questo: che la Chiesa, che ciascuno di noi come cristiani possiamo riscoprire questo.
Nell’ultimo discorso, ricevendo i preti della diocesi di Roma, Ratzinger ha concluso dicendo: «Cristo vince». In che senso è vera questa affermazione?
È una certezza metafisica e esistenziale. La questione è che, secondo un disegno che non è il nostro, vince in coloro che Lo accettano; a coloro che Lo accettano dà la potestà, il potere, la possibilità di sperimentare che sono figli di Dio, cioè che sono così in grado di poter vivere quella pienezza che Lui dà che allora vince. Perché… perché, cosa è la vittoria? La vittoria è non un potere, non un’egemonia, non una capacità di controllo, di dominio o di possesso dell’altro, è la capacità di conquistare il nostro io fino alla radice, di attirarci così tanto che possa veramente conquistarci. Questa è la vittoria di Cristo. Senza questo il cristianesimo non ha interesse, né per noi né per gli altri.
Grazie. È un piacere.
Lei in un articolo su la Repubblica ha dato un po’ il senso del gesto [di Benedetto XVI] parlando di un gesto di libertà, questa è stata la parola chiave del suo commento. Ce la può spiegare?
Il senso mi sembra molto semplice: una cosa così, un gesto di questo calibro, non si può spiegare soltanto per certi fattori che sembrano all’origine di un gesto così: il coraggio, le difficoltà, la situazione della Chiesa, perché non spiegano una cosa: la letizia del volto del Papa. Mi veniva questa idea quando ho visto per l’ultima volta il Papa con il suo volto risplendente prima del chiudersi della porta a Castelgandolfo; possiamo dare tutte le interpretazioni che vogliamo, ma quella faccia lieta resta, e ciascuno deve misurarsi con questo: se qualsiasi interpretazione è in grado di dare ragione adeguata di questa letizia.
E allora qual è il vero senso di questo gesto?
Secondo me soltanto che c’è Qualcuno che riempie il cuore del Papa, che lo fa traboccare di quella gioia che si vede nella faccia. Tutti noi abbiamo esperienza di questo. Non è una strategia, non è qualcosa che possiamo darci noi, non è qualcosa che possiamo raggiungere con qualche percorso molto ben pensato; è qualcosa che ci troviamo addosso quando succede qualcosa di così grande, di così bello che ci riempie, tanto che ci fa risplendere la faccia. È una pienezza all’origine della libertà.
Ratzinger però non ha una personalità particolarmente emotiva, lui stesso dice di sé: «Non sono un mistico». Il suo è stato un percorso molto razionale, molto intellettuale anche.
È per questo che ancora occorre dare una spiegazione adeguata per questo, perché non è una persona in grado di prendere una decisione di questo calibro senza capirne la portata e le conseguenze, non è una persona che fa un gesto non pienamente consapevole. Per questo non si può ridurre a un problema sentimentale questa letizia di cui parlo; è una letizia che ha un’origine talmente profonda, talmente radicata nel profondo dell’essere. Per questo dicevo… mi domandavo: ma qualcuno si domanda che cosa vuol dire Cristo per Joseph Ratzinger, per la sua persona? Perché chiunque lo può vedere, quando ha un’esperienza vera di amore, che quello che riempie la vita non è nessuna strategia, è trovarsi davanti a una presenza che sorprendentemente lo fa risplendere. È soltanto se noi partiamo dall’esperienza elementare del vivere che possiamo capire l’esperienza elementare di un altro. Senza questo rimaniamo nella nostra interpretazione, senza guardare quello che abbiamo davanti; perché se qualcuno ci dice - quando ci vede così contenti fino al punto che si domanda -: «Ma cosa ti è successo?», non è che basti a spiegare [questo] una strategia o un coraggio. «Perché sei venuta contenta a lavorare oggi?», diciamo, «che cosa ti è successo?» È un’altra cosa, è un Altro che è all’origine di quella faccia che uno trova nel collega o nell’amico.
Insomma lei dice: [il Papa] ha riportato la Chiesa a riflettere sulla sua natura, alla fine sul fondo della questione, cioè su Gesù Cristo.
Esatto. Questo è quello che lui ha detto. La questione è che per poter capire questo occorre che le persone che guardano questo gesto senza ridurlo possano aver avuto qualche tipo di esperienza. Perché noi possiamo capire l’esperienza di un altro se in qualche modo noi abbiamo fatto esperienza di quello, altrimenti noi pensiamo di capirlo, ma lo riduciamo, e per questo dobbiamo dare altre interpretazioni. È soltanto una persona per cui Cristo è reale, non soltanto una creazione dell’immaginazione, una autoconvinzione, non soltanto il cristianesimo come un’etica, non soltanto ridotto tutto a organizzazione, ma una vita - come ha detto l’ultima volta parlando ai cardinali: la Chiesa è una vita che sgorga costantemente dalla presenza di Cristo -, che può spiegare una cosa del genere. Capisco che questo per tante persone non è una spiegazione perché, non avendo esperienza di Cristo come qualcosa di reale, pensano che non può essere questa la spiegazione. Io lo capisco, è perfettamente comprensibile, ma è soltanto quando uno fa questa esperienza - come facevano quelli che l’o hanno incontrato [Cristo]: «Mai abbiamo visto una cosa così» - che può capire un’esperienza del genere.
E tuttavia questo gesto comunica anche un’ansia di rinnovamento, di cambiamento, di autoriforma della Chiesa.
Ma questo mi sembra che in tutto quello che lui ha detto dopo è presente, perché è come se nel gesto ci fosse non soltanto il richiamo al rinnovamento, dicendo che cosa è la Chiesa e che cosa è Cristo, ma c’è anche il metodo: guardate che se Cristo non diventa questo per noi, non si può rinnovare la Chiesa con delle strategie, e se non ci convertiamo a Lui, non nel senso tante volte in cui intendiamo questa parola “conversione”, come se fosse di nuovo qualcosa di moralistico; no, se Cristo non diventa per noi la cosa più cara, sarà impossibile il rinnovamento, perché l’uomo ha un desiderio di pienezza: se non la trova in una presenza come Cristo, la cerca altrove, tutti la cerchiamo altrove se non è questo. Per questo non soltanto il gesto di per sé è già un richiamo, ma ci offre anche il metodo e la strada per rispondere a questo richiamo; non è soltanto un richiamo moralista, ci testimonia la strada. Come nel primo incontro che racconta il Vangelo, nel primo incontro c’è la risposta e la strada, quando i due primi, Giovanni e Andrea, hanno incontrato Gesù, hanno incontrato una persona, una presenza così eccezionale che lì c’era la strada, tanto è vero che sono tornati il giorno dopo a cercarLo e sono diventati Suoi per il resto della vita. La questione è se la Chiesa capisce che questo è il metodo; soltanto se la Chiesa diventa una presenza, se ogni cristiano diventa questo tipo di presenza così che, guardandolo, uno vuole tornare a vederlo il giorno dopo perché è decisivo per il vivere.
Ecco, secondo lei quali sono le necessità della Chiesa in questo momento?
La Chiesa necessita di quello che lui ci ha detto con l’indire l’Anno della Fede, cioè la Chiesa ha bisogno, come tutti abbiamo bisogno in ogni momento della nostra vita, di riscoprire che cosa ci è accaduto quando siamo diventati cristiani, riscoprirlo di nuovo come qualcosa di affascinante, di nuovo, di veramente attraente per la vita. Se si riduce questo a una qualsiasi delle riduzioni odierne del cristianesimo: organizzazione, etica, spiritualismo, tutto questo non è in grado di prendere la totalità dell’io, e se non prende la totalità dell’io cerchiamo la soddisfazione altrove. A me piace tantissimo una frase di san Tommaso che riassume bene questo: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente la sostiene, dove trova la più grande soddisfazione». Il problema della vita per ciascuno di noi, credenti o non credenti, è dove trova uno la più grande soddisfazione. La questione è che in tutte le presenze che incontriamo, tutte le persone che incontriamo in un certo momento ci soddisfano e poi tante volte decade. Qui l’unica questione è se c’è una presenza in cui la soddisfazione non solo non decade, ma cresce nel tempo, perché altrimenti la vita perde di significato. Ci troviamo in quella famosa frase di Eliot: «Perdiamo la vita vivendo». Purtroppo questa è l’esperienza di tanti. Invece l’esperienza cristiana ci offre un’altra possibilità: guadagnare la vita vivendo. E tu vedi che questo è vero perché in una persona all’età del Papa tu non vedi che è perdente; vedi che nel massimo della sua maturità, nella faccia tu vedi che questo uomo guadagna la vita vivendo.
Don Julián, le faccio anche una domanda, se vuole, banale, ma realistica. Che identikit può avere il nuovo Papa?
Mi sembra che quello che stiamo dicendo è questo - non è che occorra un identikit particolare -: occorre un cristiano, un credente, una persona che possa testimoniare, come ha fatto Benedetto XVI e prima Giovanni Paolo II – per citare gli ultimi due – la bellezza di Cristo; perché il problema oggi è questo: in un mondo smarrito - abbiamo ben presente la situazione, dove ci troviamo come mine vaganti -, che le persone possano trovare qualcosa a cui ancorarsi, che possa veramente rispondere. E questo non è prima di tutto un’organizzazione, prima di tutto un comitato, è un cristiano – diciamo –, una creatura nuova. Mi sembra che è la scoperta dell’acqua calda dire queste cose, ma è semplicemente quello che tutti desidereremmo trovare accanto, trovare davanti: una persona che, guardandola, ci faccia compagnia nelle cose fondamentali del vivere.
Lei citava prima il poeta inglese Eliot. Ecco, il suo amatissimo predecessore, don Giussani, rispondendo a una domanda, in una delle sue ultime interviste televisive diceva proprio a proposito della famosa frase di Eliot: «È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?», lui rispondeva: «Tutte e due» e diceva: «La Chiesa si vergogna di Cristo».
Sì, in un certo modo sì. La questione è: perché ci vergogniamo di Cristo? Perché, non avendoLo scoperto con tutta la nostra umanità, pensiamo che non offriamo a noi stessi e agli altri la cosa più grande che possiamo offrire. Se uno dà un regalo a un altro, lo dà contento, perché considera che gli fa un piacere, che gli dà il meglio che ha, ma per poterlo offrire così, con questa libertà, con questa gioia, con questa letizia, occorre che sia convinto che questo è un bene per l’altro, e fa questo soltanto se ha la convinzione che è un bene per sé. E la questione, allora, diventa sempre la stessa: che cosa abbiamo noi di più caro? Perché se noi non abbiamo di più caro - come diceva il famoso Solov’ev - Cristo, allora è difficile che noi non abbiamo vergogna di proporlo. E quando uno ha questa letizia, questo si vede soprattutto nelle persone che lo incontrano di nuovo, quegli ultimi appena arrivati che sono così traboccanti della letizia di quello che hanno incontrato che non hanno nessuna vergogna di dirlo, tanto sono convinti di offrire agli altri quello che per loro è stata la scoperta della vita, come succedeva all’inizio e come succede adesso nelle persone che lo riscoprono. Il problema è questo: che la Chiesa, che ciascuno di noi come cristiani possiamo riscoprire questo.
Nell’ultimo discorso, ricevendo i preti della diocesi di Roma, Ratzinger ha concluso dicendo: «Cristo vince». In che senso è vera questa affermazione?
È una certezza metafisica e esistenziale. La questione è che, secondo un disegno che non è il nostro, vince in coloro che Lo accettano; a coloro che Lo accettano dà la potestà, il potere, la possibilità di sperimentare che sono figli di Dio, cioè che sono così in grado di poter vivere quella pienezza che Lui dà che allora vince. Perché… perché, cosa è la vittoria? La vittoria è non un potere, non un’egemonia, non una capacità di controllo, di dominio o di possesso dell’altro, è la capacità di conquistare il nostro io fino alla radice, di attirarci così tanto che possa veramente conquistarci. Questa è la vittoria di Cristo. Senza questo il cristianesimo non ha interesse, né per noi né per gli altri.
di Alessandro Banfi
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