domenica 31 maggio 2009

Anno Paolino: curarsi della vita nell'aeropago di oggi

Katowice, 30 Maggio 2009
Siamo riuniti qui oggi per una riflessione conclusiva sull’anno di S. Paolo. E vogliamo cominciare questa riflessione dal discorso di S. Paolo all’Aeropago di Atene. Prendiamo in mano il libro degli Atti degli Apostoli e proviamo ad immedesimarci con lo stato d’animo di S. Paolo nel momento in cui sale il colle dell’Aeropago. A destra ed a sinistra, per ogni dove, Saulo di Tarso (per origine familiare e cultura personale un fariseo) vede i templi dedicati agli dei pagani ed il suo animo sussulta di sdegno per la idolatria degli ateniesi. Ogni idolo incorpora una passione dell’anima umana, una circostanza della sua esistenza o una delle forze naturali a cui è affidato il suo destino: la passione amorosa (Venere), la ira furiosa della battaglia (Marte), il timore della morte (Plutone)…
Che ne è, in questo contesto, dell’uomo? L’uomo come tale non esiste o è abbandonato. Egli è il palcoscenico sul quale si sviluppa lo scontro delle passioni e delle circostanze, la lotta fra gli dei diversi che si contendono il dominio su di lui.
Scisso fra queste passioni diverse l’uomo cerca di porre ordine nel caos del destino e in questo tentativo è destinato a soccombere . L’antichità pagana (tranne che nella intuizione di qualche genio filosofico) non è ancora elevata al pensiero di un Dio unico, onnipotente e buono, che ama gli uomini e li regge con una legge di giustizia. Proprio questo scandalizza e deve scandalizzare l’ebreo osservante Saulo il cui cuore sussulta davanti allo spettacolo della idolatria.
I pagani non conoscono Dio e non conoscono la sua legge.
La situazione spirituale che Saulo contempla nella sua salita dell’Aeropago non è molto diversa da quella del mondo di oggi. Non è forse vero che tante voci nel mondo di oggi si levano proprio contro il Monoteismo e contro la Legge?
Si vuole un mondo abitato da un pluralismo delle verità in cui l’uomo sia lasciato libero di seguire ora questa ora quella delle passioni dell’anima. Si identifica la libertà con il dominio delle passioni che si sottraggono alla misura oggettiva del buono e del giusto.
Anche per noi, come per Saulo, è forte la tentazione della recriminazione e della condanna.
Chi sale il colle dell’Aeropago, però, non è solo Saulo il fariseo. E’ anche contemporaneamente Paolo, il discepolo e l’apostolo di Cristo.
Quando parla Paolo non dà voce all’indignazione ed alla condanna. Intona, anzi, in un certo senso un peana di lode. Voi Ateniesi – egli dice – siete un popolo molto religioso e per questo in ogni caso cercate il divino. Investite ogni passione dell’anima con un desiderio di assoluto che vi porta a divinizzarle. Di qui la moltitudine degli dei che adorate. Ogni passione dell’anima, però, alla fine delude e per questo l’uomo non si può fermare presso di essa e passa ad un’altra, e ad un’altra ancora, per sperimentare sempre di nuovo lo stesso entusiasmo e sempre di nuovo la stessa delusione.
Forse, mentre diceva queste cose, sarà venuto in mente a Paolo il salmo che dice “Di ogni cosa perfetta ho veduto il limite, solo la tua Legge, Signore, ha una portata infinita”.
Dietro ognuno degli ideali c’è un desiderio umano di assoluto, il desiderio del divino, di ciò che è eternamente ed infinitamente bello e buono. Proprio questo desiderio ogni idolo illude e poi, alla fine, delude. Proprio per questo l’idolo merita biasimo e condanna. Ma proprio per questo nell’idolatria si legge in trasparenza la grandezza dell’uomo, il suo desiderio di infinito che nessun oggetto è in grado di soddisfare. Paolo parla, oltre gli idoli, a quel desiderio in cui consiste la dignità e la grandezza dell’uomo. Dietro l’idolatria c’è l’uomo che, in forme sempre inadeguate e spesso aberranti, cerca il divino.
Fra i tanti santuari ce n’è uno dedicato “al Dio sconosciuto”. C’è, in questa dedica, come il presentimento di qualcosa che sta dietro la divinità di tutti gli dei, qualcosa che l’uomo cerca attraverso ed oltre la venerazione di ciascuno degli idoli. A questa idea di un qualcosa di divino che sta oltre il Pantheon degli idoli il meglio del pensiero classico (p. es. Platone) già si era avvicinato. Per Platone, però, questo è un qualcosa e non un qualcuno, il divino e non un Dio personale, τό θείον (to theion) e non ό θέος (o theos). E’ qui, verso il culmine della saggezza ellenica che Paolo lancia la sua sfida: quel Dio che voi cercate a tentoni nel buio, quel Dio del quale, quando siete sinceri con voi stessi, sapete solo che non lo conoscete, quel Dio vi è venuto incontro nella forma dell’uomo Gesù di Nazareth.
Io, Saulo, sono venuto ad annunciarvelo. Seguite Lui, insieme con me, e conoscerete la presenza di Dio nella vostra vita, la vita eterna.
La proposta di Paolo non era, in realtà, del tutto estraneo al mondo greco. Platone, nel Fedone, già dice “come sarebbe bello se venisse qualcuno, dall’altro lato del mare della vita, a spiegarci queste cose (le verità ultime sul destino dell’uomo)”.
E lo stesso Platone, nella Repubblica, ci mostra il giusto che viene messo in croce per la sua testimonianza resa alla verità. Il giusto di Platone, però, non risorge. Il Signore di cui parla Paolo parla, invece, Gesù di Nazareth, è risorto dai morti. E’ proprio su questo che i saggi di Atene, che hanno seguito con attenzione la prima parte del discorso di Paolo, si rifiutano di dargli ascolto. Alcuni, però, credettero. Possiamo chiederci “chi credette?”. La risposta non è difficile. Quella di Paolo non è una dimostrazione, è una scommessa. Credettero quelli il cui desiderio di incontrare il divino, di cui tutta la loro cultura in un certo senso, era impregnata, era così forte da fare loro accettare il rischio della fede.
Abbiamo visto come il mondo spirituale a cui Paolo si rivolge non sia poi molto diverso dal nostro mondo di oggi. Anche noi, come Saulo, possiamo rivolgerci a questo mondo rimproverandogli la sua idolatria, la incapacità di osservare la legge, la sua iniquità. Possiamo, e anche dobbiamo farlo. C’è tuttavia un’altra cosa ancora più importante che dobbiamo fare prima di questa.
Dobbiamo rendere omaggio alla dignità della persona umana ed alla grandezza del suo cuore che è fatto per Dio e che non perde nemmeno nell’idolatria e nel peccato il sigillo della propria appartenenza al mistero divino.
Se guardiamo alla predicazione di Giovanni Paolo II vediamo che ciò che la contraddistingue è proprio questa caratteristica paolina. Nessuno può dubitare del fatto che Giovanni Paolo II sia stato esigente nel predicare e nel richiedere l’osservanza della legge morale. Tuttavia il punto di partenza da cui muove non è la Legge ma l’Annuncio della Salvezza. E’ l’incontro con Cristo ciò che cambia il cuore e dà anche la forza di adempiere alla Legge, perché ne fa vedere la bellezza e la congruità con la vera natura dell’uomo. Come Paolo, Giovanni Paolo II non si è scandalizzato per l’impurità dei pagani del nostro tempo ma ha saputo leggere dentro la loro idolatria la ricerca di quella verità che , dal canto suo, si muoveva incontro a loro e che Lui veniva ad annunciare. Ancora oggi, davanti a questo mondo così sconcertante, il rischio della Chiesa è quello di annunciare la Legge piuttosto che il Vangelo o prima la Legge che il Vangelo. Giovanni Paolo II ha riletto il Concilio in questo senso paolino, ed è per questo che tante donne ed uomini del nostro tempo lo hanno amato. Si sono sentiti compresi nell’ansia del loro cuore.
Due sono i rischi della Chiesa nel tempo presente. Uno è quello di lasciarsi scandalizzare dal male e di reagire alla nuova idolatria di massa con la imprecazione e la condanna. E’ il rischio di una certa mentalità “preconciliare”.
L’altro è il rischio di pensare che il riconoscimento della salvezza in Cristo dispensi dalla osservanza della legge e che il Vangelo abolisca la legge invece di perfezionarla e di compierla. Non a caso la lotta contro questo rischio è un tema ricorrente delle lettere paoline.
Per comprendere meglio questo tema dobbiamo tornare al tema paolino della Legge e del Vangelo.
Contro un certo esclusivismo ebraico Paolo afferma che anche i pagani hanno una legge che parla nei loro cuori. La rivelazione di Dio a Mosè è , in un certo senso, la ripetizione e la conferma di ciò che Dio già aveva scritto nella natura di ogni uomo. Questa affermazione implica naturalmente una distinzione all’interno della Legge antica. Esistono precetti legati alla storia di Israele (per esempio determinate prescrizioni rituali ed alimentari) ed esistono invece precetti che hanno una portata ed una validità universale. Solo questi ultimi sono inscritti nel cuore di ogni uomo. Conseguentemente anche la religione dei Pagani non è oggetto di una condanna indiscriminata. In essa va’ salvato ciò che corrisponde alla legge naturale (per ciò che riguarda i precetti morali) ed anche il desiderio di infinito, il desiderio di presenza del divino, di cui già abbiamo parlato quando abbiamo considerato l’altare dedicato al “Dio ignoto”.
La legge, tuttavia, non salva. Non salva la Legge data agli ebrei come non salva la legge scritta nel cuore dei Pagani. Il desiderio,infatti, non conosce legge. Proprio perché desiderio del divino esso non accetta il limite della Legge ed in quel limite sente di tradire se stesso. Qui S. Paolo fa’ propria, in un certo senso, l’anima segreta del platonismo e di tutto il pensiero greco: l’opposizione di περας (peras) ed άπειρον (apeiron), finito ed infinito. Continuamente l’uomo cerca di porre un ordine nel caos del desiderio e cerca di sottometterlo ad una legge (p. es. non desiderare la roba d’altri e non desiderare la donna d’altri). Continuamente il desiderio si ribella a questo limite e cerca di forzarlo. La felicità non risiede in nessun oggetto finito. La legge rende l’uomo consapevole della sua ingiustizia (il desiderio è ingiusto perché non conosce il limite ed il rispetto del diritto dell’altro) ma non lo salva. L’uomo non è però salvato nemmeno dall’andare dietro al desiderio passando da una cosa all’altra, cercando di impadronirsi di tutto. Questa hybris è insieme peccato, condanna e pena. Solo quando l’infinito si fa’ prossimo ed offre se stesso come termine adeguato del desiderio dell’uomo l’osservanza della Legge diviene espressione della natura (redenta) dell’uomo. All’inizio l’uomo ha desiderato di essere come Dio ed ha cercato di diventare come Dio impadronendosi delle cose del mondo. Di Dio l’uomo ha visto l’onnipotenza ed ha così frainteso la natura di Dio. L’uomo Gesù di Nazareth rivela invece la vera natura di Dio, che è l’amore paziente fino alla morte ed alla morte in croce. A chi si pone sul suo cammino Gesù offre la possibilità di diventare come Dio, non attraverso il cammino della potenza e della forza ma attraverso la follia della croce che testimonia l’onnipotenza dell’amore.

La rilettura della teologia paolina che abbiamo tentato dice molte cose anche all’uomo di oggi. Viviamo, lo abbiamo già detto, nel tempo di un nuovo paganesimo. Cosa devono fare i cristiani nel tempo di un nuovo paganesimo? Ce lo ha insegnato con grande semplicità e forza Giovanni Paolo II: devono evangelizzare i pagani, esattamente come fecero a suo tempo i primi cristiani e Paolo, Apostolo delle Genti, primo fra loro. Ci siamo accostati, attraverso Paolo, al mondo spirituale del mondo classico. Nel farlo abbiamo avuto modo di constatare come esso, in realtà, sia diverso dalla immagine che di cristianità e cristianesimo ci ha dato Federico Nietzsche. Parliamo di Nietzsche perché più di ogni altro egli è stato maestro di un ritorno al paganesimo. Egli ha visto nel cristianesimo e nel platonismo la affermazione della legge e la negazione del desiderio. Egli si è opposto ad ogni legge in nome della libertà del desiderare. In questo senso egli è davvero il precursore di quella “liberazione del desiderio” che caratterizza l’epoca nostra. Il desiderio infinto. imprevedibile, mobile, che non può essere imprigionato o costretto in nessuna legge è ciò che rimane al termine dell’opera di decostruzione che è propria di gran parte della filosofia contemporanea. C’è, dietro, questa visione, anche una reminiscenza di un altro grande maestro: Sigmund Freud. In una delle sue opere di metapsicologia, Il Disagio della Civiltà, il fondatore della psicanalisi ci spiega appunto che la civiltà nasce dalla legge, cioè dalla repressione del desiderio. Simmetricamente la liberazione del desiderio deve finire con la distruzione della civiltà, almeno così come noi la conosciamo.
Il cristianesimo di Paolo è lontano dalla ricostruzione di Nietzsche. Per la verità anche il Platone che noi conosciamo (p.es. sulla base delle opere della Scuola di Tubinga e di Reale) è almeno parzialmente diverso dal Platone contro cui si scaglia Nietzsche. Il nostro Platone non riduce tutto a misura ma conosce anche la forza dell’illimitato che sempre sfugge alla misura della legge e la travolge. La figura di Cristo, soprattutto, eccede lo schema di Nietzsche e sorprende la visione di ogni decostruzionismo spiazzandolo. Il desiderio infinito può trovare un oggetto infinito che lo colma ed a partire da questo amore infinito diventa possibile una compassione per il finito che lo riconosce e lo ama nel suo limite, rispettandolo. Il rispetto per il finito, allora, non nasce dalla rinuncia al desiderio ma dal suo appagamento nell’oggetto adeguato che solo può dare pace alla ricerca del cuore umano. Per la verità Nietzsche ha intravisto questa possibilità e ne è stato tentato. Sicuramente la ha vista Hoelderlin, quando identifica il Nazareno con Dioniso. Molta teologia razionalistica ha naturalizzato il cristianesimo ed ha cercato di parlare all’uomo moderno a partire dall’ordine della natura e della legge. La svolta decostruzionistica della filosofia e della mentalità moderna la ha spiazzata. Ad un uomo che rifiuta ogni legge la moderna teologia razionalistica cerca di offrire una legge sempre più leggera, e non capisce che è proprio la legge come tale ad essere rifiutata. La discussione sull’aborto (ma anche quella recente sull’Aids dopo le dichiarazioni di Benedetto XVI nel corso del suo viaggio in Africa) lo mostra nel modo più evidente. In ambedue i casi il presupposto non detto che articola il discorso è la incoercibilità dell’impulso, l’impossibilità di ricondurlo ad una legge. Anche quando la legge viene ricondotta alla norma personalistica fondamentale (non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te) essa non può negare l’impulso o pretendere di regolamentarlo. Dalla innocenza originaria dell’impulso deriva che è violenza ciò che potrebbe imporre uno stile di vita che lo limiti.
E’ molto diversa l’idea di libertà come libertà dell’impulso dalla idea di libertà della persona. La libertà della persona presuppone proprio il controllo della persona sull’impulso (direbbe il filosofo Wojtyla l’autopossesso e l’autodominio) per potere inserire l’impulso dentro un progetto di vita adeguato per la persona e rispettoso della sua dignità (per esempio per potere inserire l’impulso sessuale dentro il progetto di un grande amore interpersonale in cui si assume una responsabilità per il bene dell’altro e dei figli che nascano dal rapporto).
Davanti a questa evoluzione spirituale noi dobbiamo, come Paolo, parlare della legge che è scritta nel cuore di ogni uomo e cercare la risonanza della parola di questa legge nel cuore del nostro interlocutore. E’ questa la sfera della discussione politica, cui è sempre sotteso un dibattito sull’uomo, una visione antropologica.
Non dobbiamo però avere paura di parlare dell’avvenimento cristiano e della salvezza in Gesù Cristo. Questo, va da se, è compito piuttosto che dei politici dei vescovi e dei sacerdoti ma appartiene anche alla vocazione di ogni christifidelis laicus, ogni laico cristiano. E’ difficile che si possa arrivare ad una visione equilibrata della natura dell’uomo se non si da’ contemporaneamente una risposta a quel desiderio di infinito che abita nello spazio più intimo del cuore umano cui S. Paolo ha proposto come risposta l’uomo di Nazareth, Figlio di Dio, morto e risorto per la salvezza degli uomini.
Rocco Buttiglione

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