mercoledì 22 aprile 2009

“Paolo educatore alla libertà”.Don Luigi Giussani nelle parole di don Massimo Camisasca


L’educazione è l’introduzione alla realtà totale». Basterebbe questa sola citazione di don Luigi Giussani per intuire che il suo nome dovrà figurare tra i grandi della pedagogia. Anche se il termine “pedagogo” appare molto riduttivo: Benedetto XVI ha definito l’educatore come «testimone della verità e del bene» (Lettera sul compito urgente dell’educazione). Una distinzione, questa, molto cara anche a san Paolo. Abbiamo chiesto a don Massimo Camisasca – amico di don Giussani, autore di una sua importante biografia e della trilogia dedicata alla storia di Comunione e Liberazione – di raccontarci il rapporto tra l’Apostolo e l’educatore.

«Comunione» e «libertà» sono due termini chiave nell’epistolario paolino. San Paolo occupa un posto particolare nella riflessione e nell’esperienza di don Giussani?

«Penso che, assieme a san Giovanni, san Paolo sia l’autore di tutto il Nuovo Testamento più citato da don Giussani. Non è un caso. Da san Giovanni Giussani traeva la penetrazione del mistero dell’incarnazione; da san Paolo l’identità del cristiano come persona resa nuova dall’immersione nell’evento di grazia della morte e resurrezione di Gesù. Quando si avranno a disposizione le ricorrenze bibliche dell’intera opera di Giussani certamente un posto particolare occuperà la Lettera ai Galati: “Tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28)… “Ciò che conta è l’essere nuova creatura” (Gal 6,15)… “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Gal 2,20). Giussani ha commentato tutto san Paolo, ma questi temi che ho citato sono stati quelli centrali della sua predicazione, soprattutto durante gli anni ’70 e ’80, quando l’ontologia cristiana sembrava dissolversi in un’azione per gli altri che aveva perso le proprie radici. Per questo, giustamente, il nome che il movimento prenderà, dal 1969 in poi, è un’endiadi di due parole paoline. La comunione, affermata come la vera strada per la salvezza dell’uomo, dono di Dio agli uomini, è proprio quell’essere uno in Gesù Cristo di cui parla Paolo. E la liberazione, termine nuovo con cui esprimere la parola salvezza, rivela l’attualità dell’umanesimo cristiano. Come ai tempi di Paolo, anche oggi la libertà è l’esperienza più attesa e interessante per l’uomo».

San Paolo dimostra la ragionevolezza della fede e la necessità di aprirsi all’Altro. Nei tre volumi del PerCorso trovo citati per ben 3 volte questi testi paolini: il discorso all’Areopago e Romani 7,24 («Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?»).

«L’insegnamento e l’opera educativa di Giussani sono tesi a mostrare che la fede è il vertice della conoscenza. Certo, un vertice che è dono di Dio all’uomo, ma che non smentisce in nulla le esigenze della ragione. Le compie soltanto. Anzi, la fede è un rapporto fiduciale con un testimone che mi comunica qualcosa o qualcuno che conosco attraverso di lui. Un testimone a cui debbo fiducia, perché so che non sbaglia e non vuole mentirmi. è l’itinerario della nostra stessa vita quotidiana a essere permeato da questa dinamica. Ecco il cuore dell’insegnamento di Giussani sul senso religioso, sulla moralità nei rapporti umani, sull’educazione che Dio ha operato nel suo popolo d’Israele, e infine su quella che Gesù ha vissuto presso gli apostoli e i discepoli, e più in generale verso coloro che incontrava. È ancora oggi l’educazione di cui la Chiesa si sente responsabile verso gli uomini del nostro tempo. Ripercorrendo e commentando l’episodio del discorso di Paolo all’Areopago, Giussani aveva modo, già durante le lezioni ai liceali del Berchet che ho potuto ascoltare nella mia giovinezza, di mostrare in Paolo i fili di questa pedagogia: “Ciò che voi attendete, anche senza saperlo, io l’ho visto, l’ho incontrato. E voglio testimoniarlo”».

Paolo aggiunge che la ragione – senza la fede – può smarrire se stessa. Ne Il senso religioso, Giussani riprende Rm 1,22-31 dove si afferma che la ragione o giunge naturalmente alla conoscenza di Dio, o si chiude nei «vani ragionamenti» delle idolatrie… ovvero delle ideologie.

«Nel primo capitolo della Lettera ai Romani san Paolo denuncia il pervertimento della ragione andando ben al di là di un’accusa al mondo pagano di allora. Non è un caso che Giussani si appoggiasse proprio a quel testo per mostrare i possibili rischi della ragione che perde il senso del proprio limite e così anche della propria grandezza. La ragione che vaneggia nei suoi ragionamenti, che rifiuta di riconoscere Dio, che non sa più stupirsi di fronte alle sue perfezioni, di fronte alla perfezione delle opere da lui compiute. È ciò di cui parla san Paolo ai cristiani di allora, ma è anche la lettura che Giussani fa della crisi della ragione nell’epoca moderna. C’è una straordinaria continuità tra il discorso giussaniano sulla ragione e quello condotto da Benedetto XVI in questi primi anni del suo pontificato».

San Paolo, uomo sempre aperto al Mistero di una realtà inesauribile, ci sorprende con un’affermazione attualissima: «Se qualcuno crede di conoscere qualche cosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere» (1Cor 8,2).

«Ciò che Paolo vuole colpire è la superbia degli intellettuali. Di coloro cioè che ritengono la conoscenza superiore a ogni carità. Mentre, all’opposto, è soltanto l’amore che conosce. C’è un filone molto importante, anzi decisivo, per comprendere l’animo e il pensiero di don Giussani.

Ed è quello della conoscenza affettiva. Per lui veramente solo l’amore conosce. Da ragazzi ci ricordava questa espressione di sant’Agostino: nemo cognoscitur nisi per amicitiam, nessuno è conosciuto se non attraverso l’amicizia. È l’ipotesi positiva con cui guardare alla vita che abbiamo visto in lui, con cui guardare agli uomini, soprattutto a quelli nuovi, sconosciuti, attraverso cui la novità entra nella nostra esistenza, quel nuovo orizzonte che sa parlarci di Dio. Non dobbiamo dimenticare la definizione di cultura che ha dato don Giussani, tratta proprio da san Paolo: “Vagliate ogni cosa, trattenete il valore” (cfr. 1Ts 5,21)… così lui amava tradurre».

In Filippesi 4,8 Paolo invita a considerare ciò che è «vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato…». Qual è stata la novità pedagogica di don Giussani nel parlare all’uomo contemporaneo?

«L’atmosfera giussaniana è molto vicina a questo versetto della Lettera ai Filippesi, come anche di quelli che lo precedono. Si parla di “gioia nel Signore”, determinata dalla certezza della sua presenza. E non è un caso che Giussani abbia commentato più volte questi testi, proprio nell’imminenza del Natale. In particolare il versetto 8 indica l’apertura dell’animo di Paolo, dell’animo cristiano. Il cristianesimo non è una rinuncia, è un’affermazione. San Paolo – che pure dirà “considero tutto spazzatura di fronte a Cristo” – sa benissimo che quella frase è l’espressione di una positività di tutto, e non di un’esclusione. Proprio perché in Cristo c’è tutto e tutto trova il suo valore, si può rinunciare a ciò che non c’entra con lui. Giussani ha saputo parlare all’uomo contemporaneo innanzitutto perché gli ha mostrato che seguire Cristo è un atto vitale, in cui tutto ciò che è interessante per l’uomo trova la sua pienezza e la sua fioritura. La letteratura – soprattutto la poesia, la pittura, la musica, il cinema, il teatro… tutto l’umano insomma – era oggetto dell’attenzione e dell’interesse di don Giussani. Nulla sentiva estraneo al dialogo fra l’uomo e Cristo. E tutto era espressione dell’uomo che cerca o dell’uomo che infine ha trovato».

Proprio come Paolo, Giussani non è stato solo un “pedagogo” eccezionale, ma un vero “padre in Cristo”. Può darci una sua testimonianza personale?

«L’insegnamento e l’opera educativa sono stati inscindibilmente l’anima di tutta la vita di don Giussani. La sua scuola di religione, come amava dire, prima al Berchet e poi all’Università Cattolica, è stata certamente il fuoco di tutta la sua vita, il luogo da cui tutto è partito. Ma quel fuoco, quelle parole, dovevano poi scendere nell’animo e nella mente dei ragazzi, dovevano diventare giudizio, passione, costruzione. Da qui la sua tensione di educatore, che si sviluppava sia nel dialogo personale, sia – e soprattutto – nella creazione di luoghi umani in cui le persone potessero trovare quella compagnia quotidiana che fa sperimentare le parole nell’impatto con la vita di tutti i giorni. È nella comunità, infatti, che lo Spirito plasma la nostra persona, soprattutto attraverso la docilità a Dio, cioè la preghiera, attraverso la grazia dei sacramenti, attraverso la carità dei fratelli, attraverso la testimonianza di Cristo negli ambienti della vita dell’uomo. Sono rimasto talmente affascinato dall’opera di don Giussani come insegnante ed educatore che ho cercato di mettermi sulle sue tracce. Con lui ho deciso di iscrivermi alla facoltà di Filosofia, dopo la terza liceo. Volevo allora diventare domenicano. Poi ho incominciato a insegnare nei licei e all’università. L’insegnamento nelle scuole è stata una delle passioni della mia vita, purtroppo vissuta solo in modo frammentario. Altre occupazioni, infatti, mi hanno allontanato dalla scuola. Ma, per fortuna, sono sempre state occupazioni legate all’educazione dei ragazzi. Così, anche quando non insegnavo a scuola, ero pur sempre un insegnante per coloro che sceglievano di partecipare alla mia stessa vita. In un libro recentemente pubblicato su don Giussani [Don Giussani. La sua esperienza dell’uomo e di Dio, San Paolo 2009], che è una prima sintesi di tutto il suo pensiero, mi sono permesso di scrivere che l’educazione è la cifra riassuntiva dell’intera esistenza del sacerdote di Desio. E ho invitato a rileggere Il rischio educativo, un libro nato addirittura nel 1960, ma sempre attuale».

…e proprio nell’omonima conferenza del 1985, Giussani affermava che – per lui – la più bella frase della Bibbia è il motto paolino In spe contra spem, riferito alla sempre incerta risposta alla proposta educativa.

«Non è un caso che Giussani abbia intitolato quella raccolta di suoi scritti sull’educazione con un’espressione che coinvolge la parola “rischio”. L’animo battagliero di Giussani si è riconosciuto bene in questa frase di san Paolo: sperare contro ogni speranza, sperare cioè oltre l’apparente fallimento di ogni speranza umana. I francesi hanno due belle parole: espoir e esperance. Noi, in italiano, non abbiamo questa sfumatura. Don Giussani sapeva che il cammino dell’uomo è pieno di cadute, di ribellioni, di drammi, di rivolte, di sangue. Ma sapeva anche molto bene che Dio non viene meno nelle sue promesse. Per questo, allontanato dal suo movimento nel 1965, ha atteso pazientemente il momento e la possibilità di ritornarvi. Criticato da molti, ha visto infine l’abbraccio della Chiesa nel riconoscimento pontificio del 1982. Nel maggio 1998, ormai quasi impossibilitato a muoversi, in Piazza San Pietro a Roma si è inginocchiato davanti al Papa, nel momento conclusivo della sua vita pubblica, quando veniva riconosciuto non soltanto attraverso un decreto della Santa Sede, come 16 anni prima, ma sotto gli occhi di tutto il mondo. Don Giussani ha visto la crisi del proprio movimento, nel 1965-68, ma non ha dubitato che potesse continuare. “La nostra comunione – disse allora – inizia con un inizio che rimane per l’eternità. Dio, infatti, non fa le cose per togliere. L’unico vero delitto, dal punto di vista del comportamento storico, può essere l’impazienza”».

La Fraternità missionaria San Carlo da lei fondata a partire dal carisma di CL è oggi presente in 20 Paesi di quattro continenti. Si parla del problema delle vocazioni… ma lei, quando guarda negli occhi un giovane che dice il suo “Sì!”, cosa vede? cosa fa lasciare tutto per andare in capo al mondo?

«Il problema delle vocazioni è per me unicamente un problema dei responsabili delle comunità. Dio, infatti, chiama ed attrae sempre. Ma chiama attraverso gli uomini e quando gli uomini non sono più credibili il suo richiamo, la sua voce, giunge stentorea, e non affascinante. Per questo, di fronte al bene delle nostre comunità, siamo in campo soprattutto noi, i responsabili, la nostra fede e la nostra carità. Quando arriva un nuovo seminarista nel mio seminario, quando uno di loro conclude il suo itinerario e viene ordinato, quando mi dice “Sì” rispetto a una nuova destinazione missionaria, ciò che vedo è esattamente il mondo nel giorno della Creazione. Ogni sì è il primo sì, quando dal nulla assoluto tutto è uscito, quando nel dialogo misteriosissimo fra il Padre e il Figlio a un certo punto è scaturito l’universo, e in esso l’uomo, la natura, le cose. Penso poi al sì di Maria, che è lo spazio eterno e temporale di ogni sì. Ogni vocazione scaturisce e viene accompagnata permanentemente da quella obbedienza. Anch’io mi chiedo ogni volta, e mi sono chiesto soprattutto quando ho visto partire i primi missionari per la Siberia, e poi quelli per Taiwan: “Che cosa può permettere a un ragazzo di andare così lontano, e per sempre?”. Soltanto la scoperta che egli, in realtà, ha ottenuto una tale pienezza di vita e di doni da non perdere nulla. Da questo punto di vista la vita comune è un grande dono. Nella carità affettiva di una comunità come la nostra non sono eliminate le differenze, né le difficoltà, le tensioni o le liti, ma è assicurato un luogo in cui il cuore può trovare la propria pace. Chi va lontano scopre che questa è la modalità per essere vicino, perché ogni vicinanza è assicurata nel tempo soltanto dal sacrificio».
pubblicata sul decimo numero della rivista “Paulus

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