giovedì 3 dicembre 2009

La vita in carcere?È meglio con Giotto .Così al 'Due Palazzi' di Padova rinasce la speranza



Una cooperativa sociale ha portato nel penitenziario una 'rivoluzione culturale' Laboratori dove si assemblano biciclette, valigie e gioielli e si producono dolci e piastrelle. E rapporti umani che offrono un significato alla vita e alla detenzione. Anche per gli ergastolani
Franco monta selle, manubri e cerchioni sulle biciclette, Ble­dar assembla valigie, Angelo ri­sponde alle telefonate di chi vuole prenotare una visita medica alla Asl di Padova. Lavoratori infaticabili e fieri del mestiere che hanno impa­rato nel luogo dove meno se lo a­spettavano: la prigione. Hanno in co­mune la stessa condanna: ergastolo. O, come si dice in gergo carcerario, fine pena mai. Nella casa di reclu­sione Due Palazzi di Padova sono 80 i detenuti-lavoratori, il 10 per cento del totale, un record nel panorama penitenziario italiano. Altri venti la­vorano all’esterno curando il verde pubblico, i lavori cimiteriali e la pu­lizia delle strade. Tutto grazie all’in­ventiva e all’impegno degli operato­ri della cooperativa Giotto, che dal 1991 ha portato qui dentro una 'ri­voluzione culturale': il lavoro come strumento di riscatto. E così, quello che solitamente è un periodo di ab­brutimento e di degrado, per molti è diventato l’occasione per comincia­re una nuova vita. «Quando sono entrato avevo la neb­bia nel cervello e il cuore carico di rancore – racconta Angelo, ergasto­lano, condanne per omicidio e rapi­na a mano armata –. Non volevo neppure riconoscere di avere sba­gliato, da 12 anni non andavo a mes­sa, al frate che mi confessava dicevo che non ero stato io a uccidere, men­tivo persino con mia moglie. Qui ho incontrato gente che non mi ha chie­sto conto del mio passato, mi ha aiu­tato ad alzare lo sguardo e a metter­mi in azione. Ho fatto il corso per o­peratore di call center, lavoro sette ore al giorno al servizio di prenota­zione delle visite mediche per conto dell’Asl di Padova e per Fastweb. Ma soprattutto ho imparato a ricono­scere i miei errori e a fare pace con me stesso. E ho capito che Dio per­dona e ti dà sempre un’altra possi­bilità. Proprio come hanno fatto con me quelli di Giotto, che mi hanno of­ferto lavoro e amicizia». Come tutto il popolo delle carceri, anche Ange­lo è turbato dalla moltiplicazione dei suicidi di cui si ha notizia in questo periodo. «Certamente il sovraffolla­mento e il degrado in cui vivono tan­ti detenuti può spingere verso gesti estremi. In carcere ci sono tutte le condizioni per andare fuori di testa. Per farcela devi avere qualcosa per cui vale la pena vivere e sperare an­che quando guardi i muri della tua cella. Io questo 'qualcosa' l’ho in­contrato proprio quando avevo toc­cato il fondo». È successo anche a Bledar, albanese di 36 anni, ergastolano pure lui, uno col coltello facile, che per questo è finito dentro sia al suo Paese, sia do­po essere emigrato in Italia, alla ri­cerca di un Eldorado che non ha mai trovato. Furti, rapine, spaccio, sfrut­tamento della prostituzione, fino al- l’omicidio. Quando la polizia lo ha fermato stava correndo a 150 all’ora, imbottito di alcol e droga. «Quei po­liziotti sono stati la mano di Dio che mi ha raggiunto prima che facessi la fine dei miei amici. Nella nostra ban­da eravamo in 12, gli altri 11 sono tutti morti in risse con bande rivali o incidenti stradali. Quando sono ar­rivato al Due Palazzi mi hanno mes­so nello stesso braccio di Franco, che mi ha fatto conoscere quelli di Giot­to. Grazie a loro ho cominciato a la­vorare e soprattutto a sperare». Ma­dre cristiana e padre musulmano, Bledar aveva sempre considerato la religione come un soprammobile, come tutti i giovani cresciuti nell’Al­bania dell’ateismo di stato. In carce­re ha conosciuto gente cambiata dal­l’incontro con Gesù, e anche lui ha cominciato a cambiare. «Ho chiesto il battesimo perché voglio vivere co­me loro, non posso fare a meno di a­mici così». Padre Luigi Caria, cappellano del car­cere, conferma che «anche nei luo­ghi più duri possono cominciare per­corsi di rinascita. I detenuti sono per­sone come noi, anche se nella men­talità comune si pensa che chi varca le porte del carcere diventa automa­ticamente una persona di serie B, un’entità irrecuperabile. Buttiamo via la chiave delle loro celle e li di­mentichiamo. Peccato che dopo un po’ questa gente esce, cerca casa e lavoro, cerca una normalità che le viene negata, e così molti tornano a delinquere».
Le cifre parlano chiaro: il 70% degli ex detenuti, una volta usciti com­mette altri reati. Ma la percentuale si abbassa al 20 per cento tra coloro che hanno usufruito di misure alter­native e scende a meno dell’1 per cento tra quanti hanno iniziato a la­vorare in carcere. «Lavoro vero, però, non lavoro assistito – tiene a preci­sare Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus e pio­niere dell’esperienza al Due Palazzi con la cooperativa Giotto –. In Italia i detenuti ’occupati’ all’interno del­le carceri sono 13mila su 66mila, ma solo 750 lavorano in cooperative so­ciali come la nostra che si muovono secondo logiche di mercato, accet­tando la concorrenza e cercando di realizzare profitti che poi vengono reinvestiti per creare nuova occupa­zione ». È la scommessa del 'privato sociale', che fa i conti con difficoltà burocratiche e diffidenze radicate, ma conta sull’aiuto di aziende che hanno visto ricambiata la loro fidu­cia in termini di qualità e affidabi­lità. I detenuti-dipendenti sono in­quadrati nel contratto delle coope­rative sociali, 900 euro al mese, con cui riescono anche ad aiutare le fa­miglie: una molla in più per 'muo­vere' il cuore e la mente.
La cooperativa, oltre a gestire la ri­storazione interna e un laboratorio di cartotecnica e ceramica, ha por­tato tra le mura del Due Palazzi no­mi importanti: assembla le valigie Roncato, i gioielli di Morellato, le bi­ciclette del gruppo Esperia con i marchi Torpado, Bottecchia e Fon­driest, ha allestito un call center per l’Asl di Padova e per Fastweb, men­tre per Infocert mette a punto le pen­drive col software per la firma digi­tale e cura la digitalizzazione di mi­gliaia di documenti cartacei. Il fiore all’occhiello sono i 'dolci di Giotto', che hanno acquisito notorietà a li­vello nazionale approdando persino nell’appartamento pontificio e sulla tavola dei grandi del G8 a L’Aquila.
Qui dentro Giotto non è solo un no­me, è una presenza: nei laboratori si fabbricano scatole, oggetti di can­celleria e piastrelle in ceramica ispi­rati agli affreschi della Cappella de­gli Scrovegni, il tesoro artistico del­la città. Riproduzioni dei dipinti campeggiano sulle pareti dei labo­ratori, e persino nella mensa è stata riprodotta una copia delle Nozze di Cana del pittore fiorentino. Com­menta Angelo, l’ergastolano addet­to al call center: «La Bellezza aiuta a vivere, ridà speranza. È vero per tut­ti, perché non dovrebbe esserlo an­che per noi?».

il direttore :
«Più lavoro per aprire la strada al recupero dei detenuti»


Il Due Palazzi era stato progettato per ospitare 350 detenuti.
Appena divenuto operativo, nel 1989, ne ha accolti 700. Oggi sono 810. Il direttore Salvatore Pirruccio non si scompone: «È quanto accade in molti altri penitenziari. Il sovraffollamento è un problema endemico».
Cosa si deve fare per ridurlo?
Incentivare le misure alternative: detenzione domiciliare a chi ha pene brevi o è arrivato vicino al 'fine pena', per reati che non siano di grande allarme sociale; affidamento in prova ai servizi sociali; percorsi di studio e di lavoro che offrono chance per il 'dopo' e riducono la recidiva. Ma soprattutto si deve modificare il sistema processuale: in carcere vivono oltre 32mila persone (quasi la metà del totale) in attesa di giudizio. Inoltre si dovrebbe incentivare la possibilità di scontare la pena nei Paesi di origine, qui abbiamo il 40 % di stranieri
Per mettere in pratica l’articolo 27 della Costituzione e promuovere dinamiche di riabilitazione della persona è importante avere a disposizione degli educatori. Quanti sono qui?
Cinque, presto dovrebbero arrivarne altri 4. Vuol dire che ciascuno si dovrebbe occupare di circa 90 detenuti. Troppo pochi, il numero ideale per poter fare un buon lavoro sarebbe 50.
Per l’osservazione scientifica della personalità del detenuto che porta poi alla redazione del programma di trattamento anche ai fini di un programma di riabilitazione, l’ordinamento penitenziario prevede 9 mesi: col personale che abbiamo a disposizione ne impieghiamo 13. Tutto ciò si ripercuote pesantemente sui tempi della riabilitazione.
Questo carcere è un’anomalia: 100 detenuti che seguono corsi scolastici, 20 iscritti all’università, una percentuale che lavora per aziende esterne (10%) ampiamente superiore alla media nazionale. Siete bravi o fortunati?
È il frutto di una sinergia con varie realtà presenti sul territorio: la cooperativa Giotto che promuove possibilità di lavoro dentro e fuori dal carcere in accordo con varie aziende, gli enti locali, la Asl, i magistrati di sorveglianza. Chi lavora percepisce un reddito e acquisisce un metodo che è fatto di professionalità, passione e rispetto delle regole, ingredienti essenziali per quando si esce dal carcere. È un lavoro di rete che si dovrebbe esportare in altre realtà. Il carcere deve dare a tutti almeno una possibilità per ripartire.

«Il segreto del nostro successo? Una sinergia con aziende presenti sul territorio, enti locali e magistrato di sorveglianza»
GIORGIO PAOLUCCI -Avvenire 03/10/09

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