sabato 16 luglio 2011

Un dovere da condividere.La legge sulle Dat è un testo vero, utile, concreto



Oggi, una certa corrente di pensiero ritiene che la vita in certe condizioni si trasformi in un accanimento e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco di opportunità e di percorsi inesplorati prima della malattia. In questi tempi in cui si parla sempre più, con scarsa chiarezza, di diritto alla morte, del principio di autodeterminazione, di autonomia del paziente, si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano che deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano (o diventino) criteri di discriminazione sociale e di emarginazione.

Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: ed è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della nostra professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico.

La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società, forniscono quotidianamente delle risposte ai differenti problemi posti dal dolore e dalla sofferenza: risposte che devono essere implementate e potenziate e che sono l’esplicita negazione dell’eutanasia, del suicidio assistito e di ogni forma di abbandono terapeutico. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive una condizione di malattia: questa idea, infatti, aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie.

La legge sulle Dat, va vista anche come uno strumento che ci porterà a riflettere su temi eticamente sensibili, che stimolerà la cultura verso la malattia, la fragilità, la vulnerabilità, la disabilità. Ma sempre più quando si parla di questa nuova legge su vari quotidiani leggiamo che «la posta in gioco è libertà e dignità della vita» che non vererbbero tutelate... Ed ecco, allora, che – come cittadino, come persona con disabilità, come medico – io dico: diritto di morire o libertà di vivere? Eutanasia o accanimento terapeutico? Autodeterminazione o relazione clinica? Il confronto serio e costruttivo con tutti i protagonisti del dibattito in corso passa da una condizione preliminare: intendersi sulle parole, imbastire sine ira ac studio un lessico condiviso. La sensazione, però, che si stia andando in un’altra direzione. A svolgersi è sempre quello che io chiamo "il tema del benpensante", secondo la cui tesi in determinate situazioni di fragilità o di malattia la vita non è più degna di essere vissuta. I benpensanti perdono di vista il nucleo del problema: la vita umana,l’essere umano, la persona.

Si dovrebbe guardare alla vita umana come mistero non riducibile al suo livello biologico e non manipolabile da nessuno. È una questione totalmente e radicalmente "laica" che ha riguardato e riguarda ognuno di noi. La legge proposta guarda in modo incondizionato al bene del paziente, ribadisce l’inviolabilità e l’indisponibilità della vita umana, il "no" sia all’abbandono sia all’accanimento terapeutico, il "no" all’eutanasia e al suicidio assistito. Ed è necessaria, questa legge, perché il valore della vita e la salvaguardia della libertà e della dignità della persona umana non possono più essere lasciate a una qualche decisione dei giudici. È sbagliato dipingerla come una legge che divide, perché può, anzi deve, diventare uno strumento di condivisione per un obiettivo comune: lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano come punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza.

Un Paese che voglia veramente dirsi civile deve essere in grado di mettere tutti i propri cittadini nella condizione di vivere con dignità anche l’esperienza della malattia e della grave disabilità, promuovendo l’inclusione e non l’esclusione sociale o, peggio ancora, l’isolamento e l’abbandono. Basta nascondersi dietro a falsi ideologismi pregiudiziali sulla definizioni di dignità della vita. La dignità della vita, di ogni vita, è un carattere ontologico che non può dipendere dal concetto di qualità di vita "misurata" in base a un processo utilitaristico. Basta affermazioni del tipo nutrizione e idratazione sono atti terapeutici, artificiali, no, sono semplici strumenti di supporto vitale. Dovremmo però essere anche noi medici a contribuire, assieme alle Istituzioni, a rinsaldare nel nostro Paese la certezza che ognuno riceverà trattamenti, cure e sostegni adeguati.

Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. L’indipendenza e l’autonomia del medico, che è un cittadino al servizio di altri cittadini, potranno garantire che le richieste di cura e le scelte di valori dei pazienti siano accolte nel continuo sforzo di aiutare chi soffre e ha il diritto di essere accompagnato con competenza, solidarietà e amore nel percorso di fine vita.

Mario Melazzini - Presidente nazionaleAssociazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica (AISLAOnlus), Direttore scientifico Centro clinico NeMo-Milano
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