La scomparsa del Cardinale Martini – una figura ascetica e autorevole nella doppia e non divergente fedeltà a Dio e all’uomo, nella sua capacità di dialogo e di accoglienza – ha stimolato riflessioni e commenti, esami di coscienza e testimonianze, che, a loro volta, hanno animato dibattiti, talora pertinenti e adeguati. Anche questa è l’eredità di una grande anima, che ha servito la Chiesa e ha affrontato seriamente i problemi dell’ora presente: sarebbe bello che non la lasciassimo disperdere, travolti dalle false urgenze imposteci dai vortici della cronaca.
I pensieri, di gratitudine e di memoria, che Don Juliàn Carron ha confidato alle pagine del Corriere della sera, ci aiutano a sviluppare alcune considerazioni e provocano a domande che non dovrebbero trovare risposta solo in analisi intellettuali e concettuali, ma potrebbero muovere a un’esperienza vissuta, in quanto uomini e in quanto cristiani. Di Martini si ricorda la capacità di valorizzare tutto il bene e il vero presente in chi si incontra, affinché mai si corra il rischio che qualcosa di positivo vada perduto o che qualcuno non sia raggiunto dallo sguardo che comprende e dall’abbraccio che accoglie. Si apprezza l’urgenza, avvertita sin dagli inizi del suo ministero milanese, di incontrare il bisogno degli uomini, gli ultimi e i reietti, per offrire a tutti il dono della speranza e richiamare tutti alla possibilità della salvezza e di un riscatto. E, con grande onestà, ci si rammarica di non aver forse colto tutte le occasioni di collaborazione, pur non avendo mai fatto mancare l’obbedienza al Vescovo.
Naturalmente queste parole hanno suscitato e susciteranno dibattiti e polemiche sulle diverse anime presenti nella Chiesa e in essa confliggenti, che sarebbero ormai arrivate a determinare un punto di rottura così radicale da mettere forse in pericolo la stessa unità sostanziale della comunione ecclesiale. Credo che un’impostazione di questo tipo, pur ponendo una questione essenziale ed invitando a una chiarificazione opportuna, non sia adeguata a comprendere quella realtà viva e complessa, ma del tutto peculiare, che è la Chiesa. Essendo un organismo, essa è fatta di molte parti, di membra diverse con funzioni e doni, carismi e sensibilità differenti, destinati però a interagire e collaborare all’unità dell’insieme, giacché solo in questa unità ciascuno può pienamente realizzarsi e vivere. Ma anche il paragone con un organismo vivente, analogicamente assai adeguato, può trarre in inganno se si dimentica che pur sempre di un “corpo mistico” si tratta. Un’analisi sviluppata solo con categorie naturali o in una prospettiva meramente politica è riduttiva e fuorviante. La dialettica politica implica un rapporto tra forze, che reciprocamente si escludono e che nel conflitto e attraverso esso pervengono a una sintesi superiore, la quale, come tale, supera e oltrepassa le componenti opposte (è l’immane potenza del negativo, di hegeliana memoria!). E questo superamento, che il conflitto genera, urge a un esito finale che assorbe e annulla le singole parti, nella loro individualità.
Se si interpreta la vita della Chiesa in questi termini, la si snatura, in quanto la si riduce a qualcosa di altro da quello che essa è, o è chiamata ad essere. Nella Chiesa le diverse sensibilità, la varietà dei carismi non si collocano in un rapporto dialettico di forze, ma in una logica di comunione, in cui ciascuno porta un contributo prezioso e insostituibile, che, mentre afferma e realizza se stesso, deve tendere all’unità sinfonica, non monotona, alla reciproca integrazione complementare. In questa tensione unitiva i singoli individui e gruppi non annullano se stessi, smarrendo le loro peculiarità e i loro carismi, perché solo in essa possono farli crescere e rendere fecondi. Il movimento, che qui si determina, ancorché apparentemente affine, è assai diverso rispetto alla dialettica precedentemente ricordata. Qui ognuno deve vivere con intensità totale il proprio carisma e dare il proprio contributo, nella consapevolezza che è unico e irripetibile (come lo è ogni persona umana), ma insieme sa anche di essere un servo inutile e che solo nell’accogliente apertura agli altri egli può fiorire.
Sembra un paradosso: quanto più sono me stesso, tanto più sono capace di accogliere, e viceversa. La logica dell’opposizione viene superata nella logica dell’amore. E questa non è facile: la carnalità e fisicità delle nostre presenze ci rende spesso orgogliosi, spigolosi e scontrosi, invita alla frammentazione, suscita e stimola a contrapposizioni, che non valorizzano il positivo, ovunque esso sia, ma si appagano solo della critica distruttiva. Il compito che il cristiano ha di fronte non solo è difficile, ma sarebbe letteralmente impossibile, se fosse affidato alle sole forze umane e se non giungesse come dono di grazia. L’amore, che lo Spirito suscita nella Chiesa, aiuta a valorizzare i vari carismi nella loro pluralità, che la tensione all’unità esalta e completa. In questo cammino, che è storico – e, come tale, comporta cadute, arretramenti, soste, avanzamenti repentini e inattesi – , ai pastori, cioè ai vescovi in comunione con il Papa, compete la missione di confermare nella fede, cioè di fare sintesi vissuta (e non solo teoricamente affermata) in dimensione orizzontale, diacronica e sincronica, e, soprattutto, in dimensione verticale, guardando a Cristo, che del Corpo mistico è il Capo. E anche una tale sintesi, una tale comunione vissuta accade nella storia e implica complessità; non è un automatismo meccanico, ma ha i tempi, le cadenze, le difficoltà, le gioie e le sorprese della vita. Per questo occorre pregare perché il Signore assista i pastori in un compito che, allo sguardo umano, apparirebbe impossibile o, peggio, si risolverebbe esclusivamente in mediazioni politiche.
Come ricordava Benedetto XVI nella bella omelia, tenuta, lo scorso 2 settembre, al ristretto circolo dei suoi ex-allievi, non abbiamo la verità come nostro possesso, ma siamo dalla verità afferrati: essa ci possiede come qualcosa di vivente. La saggezza, data al cristiano da Dio, non è frutto della genialità umana, ma dono e regalo: ricordando questo, si prova “la gioia umile di Israele”, che rifugge sia dal trionfalismo arrogante, sia dalla deriva della frammentazione autoreferenziale.
Michele Lenoci
http://www.ilsussidiario.net/
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