sabato 21 marzo 2009

Fede e ragione, violenza e libertà: dopo il caso Eluana faccia a faccia a Padova fra il cardinale Scola e il filosofo Severino


La morte contesa

LUIGI GENINAZZI
S e è vero, come ha scritto Adorno, che dopo Auschwitz non ha più senso scrivere poesie, potremmo dire che in Italia, dopo il caso di Eluana Englaro, tutti siamo costretti a parlare della morte in modo diverso da prima. Forse è finita la stagione moderna che ha voluto rimuovere quel che Eliot chiamava «La Straniera», ma il guaio è che il dibattito è diventato sempre più confuso. A riportare la questione nell’ambito strettamente filosofico e teologico ci ha pensato l’università di Padova con il convegno «Morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto», apertosi ieri con una tavola rotonda in cui si sono confrontati il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, ed il filosofo Emanuele Severino. Un incontro culturale d’altissimo livello tra un porporato che ha molto a cuore la questione antropologica ed un pensatore radicalmente anti­cristiano che però cita spesso il Vangelo. Per il cardinale Scola il problema centrale è dato dal «rapporto, a prima vista contraddittorio, tra libertà e morte».
La sua riflessione parte dalla domanda che solitamente il malato fa al medico: «fammi vivere, cioè fammi durare». Ma la durata non è solo quello che intende l’utopia salutista, in realtà «la domanda di salute è domanda di salvezza». In questo senso la morte, ogni morte, suona sempre come «una condanna a morte».
Per Severino non ha senso il gran discutere di queste settimane sull’inizio e sulla fine della vita, «un dibattito dove ci si dimentica che l’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano». Secondo il filosofo che ha legato il proprio nome alla serrata critica dell’intera tradizione metafisica occidentale non ha senso voler stabilire quando finisce la vita altrui perchè non sappiamo chi sia «l’altro» (ed anche per chi lo considera evangelicamente «il nostro prossimo» è qualcosa di creduto, di voluto, e quindi di discutibile). Ed ancor meno possiamo parlare della morte come annientamento, perché di questo non facciamo esperienza.
Chi conosce gli scritti di questo pensatore, complesso e paradossale, non si stupirà di simili affermazioni.
Perentoria la sua conclusione: la ragione e la fede si trovano entrambe accomunate nella visione pessimistica della morte come annientamento. Il concetto cristiano di resurrezione della carne è una metafora del «destino della verità» dell’uomo, ma è una metafora sviante perchè afferma una seconda creazione e così nega «l’incontrovertibile eternità dell’essere». Così parlò il Parmenide del XXI secolo che proprio pochi giorni fa ha compiuto ottant’anni.
Nei confronti dell’anziano professore, di cui è stato giovane allievo alla Cattolica di Milano, Scola si mostra molto deferente. Ma preferisce seguire un’altra strada, quella indicata dal suo vero e grande maestro, il teologo svizzero von Balthasar, per il quale la resurrezione non è certo una metafora. «Valutata in termini umani la morte è un puro e semplice passivo venir portato via. La follia del cristianesimo consiste nel fare di questo confine una specie di centro». Commenta il patriarca di Venezia: «Quella di Gesù Cristo è una forma del tutto speciale di morte che combatte e vince il duello con la forma comune, quella della nostra morte». Ne deriva che «libertà e morte non si escludono più reciprocamente». Concetto provocatorio, in quanto l’esperienza del morire sembra coincidere con l’assoluta impossibilità di scegliere qualcosa d’altro. Ma, spiega il cardinale Scola, «la libertà non si riduce alla semplice capacità di scelta. Ci sono altri due elementi essenziali: la datità delle sue condizioni e l’evento assoluto. Nell’atto della morte la libertà si lascia alle spalle l’imperfetta libertà di scelta per inoltrarsi verso il suo compimento.
Nulla più della mia morte chiama in causa la mia libertà. Nessuno me la può sottrarre, neanche l’uomo­bomba che mi sorprendesse del tutto inatteso mentre bevo un caffè al bar».
E’ chiaro allora che tutte le dispute sul fine-vita (eufemismo per non guardare in faccia la morte) ruotano attorno al concetto di libertà. Se viene ridotta a pura e semplice auto­determinazione allora posso anche decidere della disponibilità o meno della vita. La lotta che si sta ingaggiando su questo terreno, secondo Emanuele Severino, non è altro che «uno scontro tra due forme di violenza», quella che si definisce laica e quella cattolica. Vincerà il più forte, non chi ha ragione. Anche perchè, per il filosofo parmenideo, non ce l’ha nessuno dei due. Pronta la risposta del cardinale: nessuna violenza, solo una posizione di tranquilla e serena ragionevolezza, quella che «in caso di dubbio, privilegia il favor vitae ». Invece gran parte del dibattito sul fine vita si può ricondurre al concetto, già espresso da Nietzsche, del «risentimento», cioè l’insopportabilità di fronte a situazioni di terribile limitazione e gravità. Un turbamento che, confessa il patriarca di Venezia, ha provato lui stesso pochi giorni fa visitando un giovane padre di tre bambini, malato di Sla e accudito amorevolmente dalla moglie. Può muovere solo le palpebre superiori degli occhi coi quali comunica tramite un computer.
«Eminenza, io sono contento di vivere», ha scritto sullo schermo.
Terribile violenza o straordinaria manifestazione di libertà?
Il pensatore parmenideo: «L’esistenza della vita altrui è un arcano, si scontrano due forme di violenza, laica e cattolica». Il patriarca di Venezia: «La libertà non si riduce alla capacità di scelta. C’è un compimento più alto»

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