lunedì 7 ottobre 2013

Immigrati, il problema è da dove fuggono

Lampedusa

 Ascoltando le reazioni alla tragedia di Lampedusa non si può fare a meno di rilevare una ipocrisia così diffusa che finisce per essere una connivenza, una collusione con i responsabili di questa situazione che sembra incredibile in una realtà sociale come quella in cui viviamo.
Come pochi vanno ripetendo da molto tempo, il problema degli sbarchi non è la questione che spiega ciò che è accaduto. In questo senso hanno perfettamente ragione coloro che dicono che queste tragedie si potranno ripresentare a scadenze che sono anche largamente prevedibili sul piano temporale, se non si affronta la questione in tutti i suoi fattori e identificando le responsabilità.

Anzitutto però è doveroso riconoscere che il popolo italiano, in questo caso come in tutti i casi precedenti, ha mostrato una generosità e una capacità di dedizione che fa onore alla nostra etnia; perché il nostro è un popolo coraggioso, generoso, che si assume le responsabilità anche oltre il dovuto. Vedere come questa gente anche in questo caso si è prodigata per ridurre l’entità della strage, è una cosa che ci fa onore. Perciò ben venga un amplissimo riconoscimento a questa popolazione,  come quello del premio Nobel per la pace, che così si riscatterebbe da altre e ben più infelici attribuzioni date in un passato recente, vedi Obama.

Ma la vera questione è guardare da dove queste persone fuggono. Non si può affrontare il problema prendendo in esame solo lo sbarco. Deve essere detto con chiarezza che sono gravissime le responsabilità della comunità internazionale perché queste persone fuggono da Stati dove non c’è libertà, non c’è pane, non c’è giustizia, dove i diritti dell’uomo e della donna vengono sistematicamente calpestati, dove - ci piaccia o no - un’ideologia di carattere religioso copre e giustifica tutto questo, dove esistono satrapie locali intollerabili nel terzo millennio, gente che vive concedendosi un lusso sfrenato depauperando le risorse del popolo e della nazione. E questi regimi sono stati e sono sostenuti non solo dai paesi occidentali, ma anche dalla Russia, dalla Cina. Sono sostenuti per motivi economici o strategici, per accedere a fonti energetiche o per il business della vendita delle armi.

E’ assurdo che la comunità internazionale non riesca a stroncare il traffico di morte di questi scafisti, dietro i quali magari – visti gli interessi economici pazzeschi - si celano organizzazioni insospettabili del mondo occidentale, o dell’Estremo Oriente, o della Russia.

La prima cosa da cambiare è l’atteggiamento verso questi Stati e regimi, che non devono essere più favoriti. Secondo: ci vuole un’azione forte e decisa che stronchi questo indegno commercio di esseri umani che, come ha detto il Papa, vengono spinti dalla fame e dalla mancanza di libertà, vengono da noi in Occidente, nei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo in cerca di vita, di libertà e dignità, e muoiono come animali nei nostri mari.

Bisogna poi chiedersi che senso abbia tutto questo pullulare di commissioni, sottocommissioni, di strutture dell’Onu, dell’Unione Europea che appaiono come  luoghi di enormi vaniloqui, di movimenti di opinione di carattere ideologico che non si misurano mai in maniera positiva e costruttiva con il problema. Centinaia e centinaia di funzionari dell’Onu che passano il tempo a discutere di questi problemi in studi ovattati a migliaia di chilometri dal teatro delle tragedie. E in Europa non si può scaricare il problema sulle legislazioni nazionali: se ci sono 28 diverse legislazioni ciò non impedisce che si arrivi a un minimo di uniformità e di intesa, che ci si assuma delle responsabilità precise, operative ed energiche.

E ancora: il Medioevo cristiano di cui si parla così male perché lo si ignora, ha comunque difeso le identità dell’Occidente; ha difeso la libertà, la cultura e la civiltà dell’Occidente impegnandosi in confronti che hanno avuto qualche volta la caratteristica di uno scontro duro. Non si può affrontare questi problemi senza chiedersi fino a che punto una ideologia di tipo religioso che certamente caratterizza il mondo islamico, o una parte di islam che è certamente determinante sul piano pratico, sia responsabile del fanatismo in parte dei luoghi di partenza, che provoca un esodo di tutti coloro che rischiano di essere schiacciati.

Quando si discute questi problemi non si può semplicemente buttare la responsabilità sulle istituzioni dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, o sull’adeguatezza o meno delle leggi che regolamentano questa materia: si deve aprire il discorso a monte sulla situazione degli Stati da cui questa gente fugge. E su questo punto bisogna che ci sia un atteggiamento non equivoco; non che su una sostanziale connivenza poi si facciano dei distinguo di carattere buonistico e reattivo.

Questo è certamente, come ha ricordato papa Francesco, il momento del dolore; ma un dolore che deve dar luogo a una azione di conoscenza della situazione e a una pressione sulle istituzioni internazionali perché il problema venga affrontato secondo tutta la sua profondità di analisi e soprattutto con la volontà di passare a una soluzione operativa.
Altrimenti gridando, indignandosi, con inutili silenzi o giornate di lutto nazionale, si può rischiare di creare un’ideologia della reazione e dell’indignazione che non dà luogo a nessuna operazione costruttiva.
Come dice l’enciclica di papa Francesco la fede vissuta come esperienza di vita, come criterio di giudizio, come etica nuova e soprattutto come impeto missionario nuovo pone nella società una scia di luce che illumina la vita e le situazioni sociali. Allora è giusto chiedere, non solo ai cattolici ma anzitutto ai cattolici, che la loro sia una presenza intelligentemente motivata e operativamente adeguata; e una assunzione di responsabilità senza cedere ad alcun ricatto, che farebbe diventare conniventi con i responsabili di queste immani tragedie.

Non è l’indignazione a impedire che tali tragedie avvengano. I problemi possono cominciare ad essere avviati a una certa soluzione se tutti – singoli, popoli, gruppi, nazioni e soprattutto istituzioni internazionali – si prenderanno la loro responsabilità.

Mons. Luigi Negri Arvivescovo di Ferrara e Comacchio

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