n. 9, ottobre 2013, pp. I-XVI.
• Marta, Marta
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Gloria
Continuiamo il nostro percorso in questo primo momento di lavoro dopo la Giornata d’inizio anno.
Voglio partire riprendendo il testo da cui abbiamo tratto la domanda per questa estate e che poi
abbiamo ripreso nella Giornata d’inizio, perché dalle testimonianze e dai contributi che sono arrivati si vede qual è la situazione in cui ci troviamo a vivere. Diceva Giussani che «il grande problema del mondo di oggi non è più una teorizzazione interrogativa, ma una domanda esistenziale […]: “Come
si fa a vivere?”», perché «il mondo di oggi è riportato a livello della miseria evangelica». In che
cosa si vede? Che cosa caratterizza l’uomo d’oggi? Dice don Giussani: «Il dubbio sull’esistenza, la
paura dell’esistere, la fragilità del vivere, l’inconsistenza di se stessi» (L. Giussani, in J. Carrón,
«Chi ci separerà dall’amore di Cristo?», suppl. a Tracce-Litterae communionis, n. 5, maggio 2013,
p. 7).
«Ti scrivo perché volevo sottoporti la sfida che sta accadendo in me. Ho ventiquattro anni, è il
primo anno di lavoro, insegno italiano in una scuola media e mi è capitata una classe di terza media
davvero tosta: metà degli studenti sono stranieri scappati con le famiglie da Paesi devastati dalla
guerra o emigrati per cercare una vita migliore in questa che è vista come una società del benessere;l’altra metà classe è invece composta da ragazzi occidentali, svizzeri, cresciuti in un mondo che ha provveduto a rispondere a ogni tipo di bisogno materiale fin dalla nascita, rendendo loro ogni cosa superflua, scontata, e alla fine insopportabile. La cosa più sorprendente è accorgersi che la conseguenza di queste teorie così diverse è per tutti la stessa: un terribile e inattaccabile cinismo. Ti faccio un esempio per capire cosa intendo dire. Ecco il tema – per altro scritto benissimo – di un ragazzino che è arrivato tre anni fa in Svizzera senza genitori (avevo pensato di dar loro una traccia che potesse aiutarli a scoprire un punto positivo della loro vita da cui ripartire). Questo è l’esempio più esplicito, ma quasi tutta la classe ha risposto qualcosa di simile. Hanno tredici anni. Tema in classe: Racconta di qualcosa o qualcuno che ti fa sentire davvero importante. “Niente mi fa sentire davvero importante, perché nessuno a questo mondo è così importante da essere impossibile vivere senza di lui. Io questo mondo lo guardo da un’altra prospettiva: il mondo e la vita me li immagino come un’automobile, e ogni essere umano è un piccolo pezzo di essa; qualunque pezzo manchi alla macchina si potrà sempre sostituire, a partire da una piccola vite, fino al cofano”. Io non voglio raccontarti ogni singolo episodio di quel che mi accade in classe e che la maggior parte delle volte mi fa uscire da lì con le lacrime agli occhi, non tanto perché loro sono così violenti e arrabbiati, disgustati dalla vita e senza alcuna ipotesi positiva per loro; no, ben peggio, perché mi fanno venire il sospetto che sia vero ciò che pensano loro, e cioè che l’amore della mia vita non esista o, comunque, non basti a rispondere a certe esperienze terribili, non basti a scalfire un certo cinismo, non basti veramente al cuore di ognuno. Ti chiedo di aiutarmi in questo lavoro. Lo so che hai affrontato il percorso all’Inizio anno (e per questo ti ringrazio) e che fai sempre con noi il tentativo di ricordarci semplicemente quel che ci è accaduto; solo che in questo momento l’urto delle circostanze è così duro che mi fa mettere continuamente in dubbio quel che è successo, e cioè che Lui, dicendo il mio nome con una intensità affettiva mai vista prima, mi ha fatto scoprire di essere me stessa. Io non so se la Maddalena, nel cercare il corpo di Gesù, sia stata sfiorata dal dubbio che nulla di ciò che aveva vissuto fosse successo veramente. A me ultimamente sembra di essere proprio come lei che Lo cercava nel buio e nella notte, ma con il lieve sospetto che forse fosse tutta
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un’illusione, che non fosse davvero la risposta che regge di fronte a tutte le circostanze della vita».
Questa è la sfida che ciascuno di noi ha davanti, perché quando ci troviamo in situazioni in cui tutto
viene ridotto alla possibilità di scambiare – come vedete – un piccolo elemento dell’automobile con
un altro, non sappiamo più che cosa fare, anzi, ci viene il sospetto che sia tutta un’illusione, tra il
cinismo che ci troviamo davanti e la nostra tentazione di nichilismo: mi volto e dietro le spalle vedo
l’illusione di tutto quel che mi è capitato, come se fosse in fondo niente. Questo ci rende veramente consapevoli di qual è la situazione: che siamo veramente, come dice Giussani, a livello della povertà evangelica più assoluta. Per cui il problema è rispondere alla questione: «Come si fa a vivere?», in modo tale che qualsiasi cosa ci capiti nella vita non possa far entrare il sospetto che alla fine siamo proprio noi (noi che dovremmo «portare» qualcosa agli altri) a essere sconfitti da questa situazione. Per questo è evidente che la fede non può interessare a chi ritiene che tutto sia
intercambiabile, come un pezzo d’auto. Mi colpisce che il Papa, nell’enciclica Lumen Fidei, citi
Nietzsche, secondo il quale il cristianesimo ha svuotato il dramma, sminuendo la portata
dell’esistenza umana. Invece il cristianesimo sarà interessante soltanto per chi non ha svuotato il
dramma della vita, perché chi lo ha fatto si accontenterà di scambiare un pezzo con un altro! Perciò
se a ragazzi come quelli della lettera non abbiamo niente da dire, questo si collega alla seconda
domanda dell’Inizio anno: «Cosa stiamo a fare al mondo?». Perché se non rispondiamo a questa
domanda, nemmeno rispondiamo all’altra; siccome non possiamo essere noi quel pezzettino che
manca, allora ci viene il sospetto, e siamo come smarriti. Ecco perché la società in cui viviamo, con
le sue circostanze, ci rende ancor più consapevoli della sfida; e allora tutto diventa un’occasione per andare a fondo della questione.
Ti volevo raccontare un po’ di cose successe dopo il nostro incontro in Russia, e poi volevo farti
una domanda. Da quando ci siamo incontrati tante cose sono cambiate. Per esempio, di quella sera
in cui ci siamo parlati non ricordo quasi nulla, però l’unica cosa che mi sono portata dietro e che
mi è rimasta incollata è stato il tuo sguardo, lo sguardo che tu avevi su di me. E dopo, con tutto
quel che è successo, ho capito perché mi era rimasto così incollato quello sguardo, perché le cose
che sono successe dopo hanno letteralmente sconvolto tutti i miei piani, ho sperimentato cosa vuol
dire «il vivere che taglia le gambe» (Pavese) e ho pensato proprio di non farcela, più di una volta.
Però la cosa sorprendente, e che posso dirti adesso, è che pian piano la realtà ha cominciato a
svelare che è davvero per me. E questo è sorprendente, perché io mi sono sempre vista solo nella
mia fragilità e nella mia gabbia, ed era sempre stato tutto limitante. Invece la presenza di quello
sguardo mi ha messo alla ricerca dello stesso sguardo in tutte le cose che mi succedevano, senza
dover censurare nulla. E così ho ricominciato a vivere quell’avventura umanamente appassionante
che avevo visto all’inizio. E anche passando attraverso circostanze apparentemente avverse ho
cominciato a sperimentare una pienezza che mi ha riportato all’origine dell’incontro fatto, tanto
che posso ripetere le parole che tu hai detto alla Giornata d’inizio riguardo alla Maddalena: «Ha
potuto capire chi era perché Lui ha fatto vibrare tutto il suo umano fino a farle sentire una tale
intensità, pienezza, sovrabbondanza che non aveva potuto mai immaginare prima, e che poteva
raggiungere solo nel rapporto con Lui». A quel punto mi sono sorpresa anch’io con uno sguardo
cambiato, tutto teso a ricercare quello sguardo, cioè l’amore dell’anima mia. E mi ha sorpreso
ancora di più quando mi sono trovata intorno un movimento tutto nuovo di amici tutti tesi a
guardare quel che mi stava succedendo e che partecipavano di quella stessa pienezza che
sperimentavo io. L’ultima scoperta fatta di questo cammino che è cominciato…
Posso farti una domanda? Non resisto a non fartela: ma questa tua insistenza sullo sguardo non è un po’ sentimentale?
Io non l’ho sentito sentimentale.
Perché?
Perché…
Stai a quel che hai letto e a quel che hai detto: la questione della Maddalena è sentimentale? Perché in fondo, alla fine della fiera, quando ci troviamo davanti alle sfide, è come se quello che ci è
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accaduto non resistesse. Tutto crolla e allora diciamo: ma questo benedetto sguardo non sarà forse sentimentale? Tu cosa hai letto della Giornata d’inizio anno?
«Ha potuto capire chi era perché Lui ha fatto vibrare tutto il suo umano fino a farle sentire una tale
intensità, pienezza, sovrabbondanza che non aveva potuto mai immaginare prima».
Ciò che rende possibile un’esperienza come questa è qualcosa di soltanto sentimentale?
Per me non è stato così, tanto è vero che l’ho sperimentato nel momento in cui mi è passato
praticamente addosso un tir!
Ma se non ce ne rendiamo conto quando succede, domani cambia l’umore o cambiano le
circostanze, e sembra che l’unica cosa accaduta sia stata un semplice contraccolpo sentimentale. Ci
dimentichiamo che non avevamo mai fatto un’esperienza di intensità umana e di pienezza umana
così, cioè che la corrispondenza che abbiamo potuto sperimentare è stata un’esaltazione dell’io che
ci sogniamo di ottenere con un qualsiasi sentimentalismo! Tanto è vero che don Giussani dice che
quando succede questo – altro che sentimentale! –, è il segno del divino. Ma se noi non cogliamo
questo quando succede e lo scambiamo con un qualsiasi sentimentalismo, mettiamo in dubbio quel
che ci è capitato e ci viene il sospetto – come dicevo prima – che sia soltanto una illusione. Ma il
problema non è che ti venga il sospetto che sia un’illusione, perché questo può accadere; che
problema c’è che a uno venga il sospetto che sia un’illusione? Il problema è se uno si è reso così
cosciente di che cosa gli è successo che può risolvere il problema del sospetto e dell’illusione in due battute. Ma siccome tante volte non ce ne rendiamo conto, allora siamo succubi di questa riduzione. Perciò è strada facendo, quando devi affrontare le sfide successive, che capisci che quello sguardo non si esauriva soltanto in una questione sentimentale, ma portava qualcosa d’altro il cui valore si sarebbe visto lungo il cammino.
Siccome questo è un cammino, dopo io quello sguardo l’ho cercato e l’ho trovato in tanti amici che
mi stanno anche vicino tutti i giorni. L’ultima scoperta che ho fatto è stata più o meno di due
settimane fa; dopo tutti questi cambiamenti, tutte queste cose un po’ – diciamo – eccezionali, anche
se magari proprio non desiderabili, però comunque eccezionali, c’è una cosa che mi sta sfidando: è
ricominciata la vita di tutti i giorni, quella che potrebbe diventare una routine, e anche se non ho
perso la coscienza di questa grazia che mi è successa, comunque ho la domanda: «Dov’è l’amore
dell’anima mia?», tutti i giorni. Mi succede come è successo alla Maddalena nel momento in cui
L’ha incontrato risorto e non L’ha riconosciuto perché era tutta persa nel suo pianto. Nel momento
in cui lei si sente chiamare per nome torna tutta vibrante, vive quella vibrazione, ma Gesù le dice:
«Non mi trattenere perché non sono ancora salito al Padre mio». E questo è ciò che mi sta
accadendo ora. Più ti seguo, più seguo il lavoro che ci stai facendo fare, più seguo i miei amici che
hanno uno sguardo così su di me e che vivono così intensamente, e più ti seguirei, però è come se tu
mi stessi dicendo: «Non mi trattenere». Allora mi chiedo: ma è veramente così? E se è così, che
caratteristiche ha l’uomo che è tutto teso a cercare Gesù, ma che non Lo trattiene?
Non trattenere è una modalità nuova di trattare il reale, resa possibile solo dalla presenza di Gesù: si chiama «verginità». Cioè, tu sei così piena di qualcosa, di una presenza che investe la vita, che non hai bisogno di possedere «in un certo modo» la realtà, e non prima di tutto per bravura tua o per ascesi o solo per energia e capacità di trattenerti; no, è che non ne hai bisogno, perché sei così piena di un’altra cosa, così traboccante di un’altra cosa che puoi trattare il reale senza doverlo trattenere come possesso tuo. Capisci?
Sì.
E questo si scopre nella vita, perché quando quest’estate mi è capitato di incontrare un ragazzo che mi parlava di come, a volte, trattava un po’ naturalisticamente la sua morosa, gli ho detto: «Tu vedi quanto guadagni nel trattarla così; ma non puoi immaginare quanto perdi come intensità affettiva, come capacità di rapporto e come profondità di affezione e di pienezza». Per questo non è che Gesù sparisca perché non vuole che Lo tratteniamo; ma è proprio perché Gesù c’è che riempie talmente la vita che uno non ha bisogno di trattenerLo, di trattenere il reale, di possedere il reale in un certo modo. Ma questo occorre scoprirlo nell’esperienza, perché per noi è ancora fiction, fiction! È così al di là dell’umana esperienza per la stragrande maggioranza dei cristiani, che sembra un sogno. Ma,
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in un certo modo, tutti abbiamo fatto un’esperienza che documenta che non è irreale quel che ti sto
dicendo. Ti sei innamorata qualche volta?
Sì.
La prima volta che sei uscita, forse né l’hai sfiorato né lui ha sfiorato te, lui ti ha detto: «Mi vuoi
bene?» e tu gli hai detto di sì; in quel rapporto tu hai sperimentato una pienezza che non hai potuto
ripetere cercando di possederlo, poi, in un altro modo. Tanto è vero che ti ricordi di quel giorno:
come ti piacerebbe che quel rapporto potesse avere l’intensità del primo giorno! Tu l’hai
sperimentato alla grande! Per questo non è un problema solo di quelli chiamati alla verginità, ma è
di tutti, perché quella pienezza affettiva è ciò che desiderano tutti. La questione è che per poterla
vivere occorre la presenza di Cristo, l’unica che la renda possibile.
In tante occasioni, quello che abbiamo appena detto della Maddalena non è immediato per tutti, o
non è stato immediato per tutti alla Giornata d’inizio anno. Scrive una di voi:
«Ti volevo raccontare quel che mi sta succedendo, perché intravedo il rischio tremendo che la fede non mi interessi più [siamo a questo livello: che non ci interessi più; e questo lo diciamo noi, non gli altri]. Pur amandoe avendo amato l’esperienza del movimento fino adesso – io ho fatto l’esperienza della Maddalena, perché altrimenti non sarei certo stata dentro questa storia –, è come se da un po’ di tempo vivessi di rendita e non di qualcosa che accade ora [è quel che abbiamo detto agli Esercizi: a un certo momento, l’avvenimento è diventato un devoto ricordo, non è più qualcosa che sta succedendo ora]. Leggendo gli Esercizi mi sono accorta che il mio amare Cristo era intellettualistico e non un’esperienza così trascinante, se non in alcuni momenti. Rivedendo don Giussani nel video della presentazione della sua biografia mi sono riaccorta di cosa vuol dire in me l’esperienza della Maddalena. Con lui era tutto così chiaro che ho capito la differenza tra l’intellettualismo e una presenza, e io sono nel movimento per questa esperienza. Da qui è nato il desiderio di leggere attentamente la sua biografia per riscoprire i tratti di ciò che mi ha fatto vivere. Nel frattempo ho lasciato il coro che facevo da anni, perché non sopportavo più il modo con cui lo vivevo. Insomma, in realtà mi sono tirata un po’ fuori dalle proposte del movimento, ma l’ho fatto per una mancanza reale di giudizio e di valore per me. Ora la vita è rimasta una cosa da piangere, rimane solo il desiderio di reincontrarLo, ma faccio una gran fatica. Mi rendo conto che se lascio quel pezzo di compagnia che Dio mi ha dato, che è il gruppetto di Scuola di comunità, è come se mollassi l’ultimo filo che mi tiene attaccata all’esperienza del cristianesimo. Ma io ho bisogno di cambiare, di essere di nuovo chiamata per nome, ne ho un bisogno tremendo. Come per te questa esperienza della Maddalena avviene ogni giorno o, avendola già fatta, diventa cosciente in te tanto da essere lieto fino in fondo?». Questa è una domanda che si ripete. Infatti un’altra scrive: «Nella Giornata d’inizio mi ha colpito molto quando hai parlato della Maddalena, del suo nome pronunciato e di come sia cambiata lei da quel momento. Ma adesso io mi trovo in un’esperienza di solitudine dove tutto mi sembra ben organizzato, ma non mi corrisponde. Io, il mio nome, non l’ho più sentito chiamare, e di conseguenza tutta quell’esperienza personale e di comunità non l’ho fatta. Rimango
attaccata come posso, e capisco che la mia mossa personale è sempre quella che fa la differenza, ma è pesante se, a volte, non si ha la forza di sostenerla. Ti chiedo un aiuto». Perché questo è il
paradosso: che pur partecipando tutti allo stesso gesto, ci troviamo davanti a esperienze tutte
diverse. Per questo, come possiamo rispondere a queste domande? Attraverso quel che capita: «Un
inizio sul lavoro che potrei definire traumatico è l’inizio di quest’anno. L’errore umano di qualcuno ricade su di me, la sola a subire le conseguenze di una situazione, e non sento il conforto dell’empatia dei colleghi. In agitazione per gli eventi accaduti, mi accingo all’ascolto della Giornata d’inizio anno, prima con difficoltà, ma man mano che aumenta l’attenzione una ridda di sentimenti invade la mia persona. Nelle cose che ascolto mi ritrovo, facendo memoria di tanti doni ricevuti in questa mia relazione con Lui. Ho già avuto modo di verificare in passato che ciò che può sembrare un colpo alla schiena, se vissuto fino in fondo con la consapevolezza di essere amati, porta al giudizio che l’evento non schiaccia l’io, cioè che anche un torto subito, compenetrato liberamente, rende più forte e fa fare un gradino nella scala della vita. Mentre ascolto Carrón, frasi note mai del tutto comprese diventano all’improvviso più chiare e, a un certo punto, ecco come un’esplosione,
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luce nel buio, nel sentire che nell’incontro con il movimento è come riascoltare quell’essere stati
chiamati per nome nel Battesimo. È come un detonatore dentro di me, è comprendere che quando
dico che qualcosa mi corrisponde, quel balzo del mio cuore che ha sottolineato (rendendoli
incancellabili) alcuni momenti vissuti, quella commozione improvvisa che razionalmente è difficile spiegare perché in alcun modo indotta da me, altro non è che l’eco del suono di quando il mio nome, pronunciato durante il Battesimo, è stato accolto e innalzato fino al cielo perché anche il Mistero fosse in me. Riverbero di quella grazia: ecco cos’è ciò che provo ogni volta che sento che il mio io si dilata e si ridefinisce. Che stupore dopo questa intuizione, è come vedere il mio
Battesimo! Sembra pazzesco, ma è sentire che l’essere stata chiamata per nome quella prima volta,
come è accaduto alla Maddalena, è per sempre. Sento di essere diventata leggera come una farfalla, sono grata per questo dono che mi fa comprendere che ho già il mio bene e ho anche la voglia di rivolgere un pensiero non più rabbioso a chi causa i miei mali recenti. Io sono più forte perché conosco la fonte che disseta, il mio pensiero si riempie di gratitudine». L’incontro con il movimento ha ridestato la grazia del Battesimo e la continua a ridestare attraverso l’annuncio cristiano, come cantavamo all’inizio: «Quel che era fin da principio, / quel che abbiamo udito, / quel che abbiamo veduto / con i nostri occhi: lo annunciamo a voi». La questione è se ciascuno di noi coglie tutta la portata di quel che ci diciamo. «Alla Giornata d’inizio anno mi hai travolto con l’insistenza di Maria e sentivo continuamente risuonare il mio nome. Continuo a rimettermi a leggere gli appunti della Giornata d’inizio anno. Non so dirti che razza di sconvolgimento provocano in me le cose che leggo, toccano le mie corde più profonde e fanno risuonare ciò che ho dentro in un modo tale che non riesco (praticamente mai!) a superare il primo paragrafo del tuo intervento e continuo a tornare all’inizio…».
Come accade, come riaccade, anche per quelle persone che possono in un certo
momento far fatica e partecipando allo stesso gesto non ne sperimentano la vibrazione? Questo è il disegno di Dio, anche tra di noi: che Dio dà la grazia a qualcuno perché continui a succedere
davanti ai nostri occhi, perché attraverso di lui, attraverso la sua testimonianza, possa arrivare anche agli altri la stessa eco dell’inizio. È quel che don Giussani ci ha detto e che abbiamo ripetuto tante volte in questi tempi: «L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, p. 24), come è successo a Zaccheo. Ma come può succedere anche nei momenti di fatica? Perché continua ad accadere in altri che possono testimoniarcelo, e così può risvegliare in continuazione – secondo un disegno che non è il nostro – l’io di ciascuno di noi sentendosi di nuovo chiamare per nome attraverso questa vibrazione accaduta. Perciò la prima questione non è tanto che succeda in me secondo un’immagine che io ho, ma che succeda! Come quando uno è ammalato di una malattia finora inguaribile e viene a sapere che un altro sta guarendo; subito percepisce che quel fatto è una speranza anche per lui che è ancora ammalato. Che uno possa vedere che l’avvenimento continua a succedere, questa è la possibilità per noi.
A proposito dell’episodio di Maria Maddalena, io credo di non avere (almeno non ne ho memoria)
letto così frequentemente un testo come questo, che è anche molto bello. Leggendo e avendolo
molto in mente nel vivere, mi sono accorta di questa cosa: che in modo graduale ma inesorabile la
mia attenzione si va spostando sempre di più dalla sorpresa di vedermi guardata in un certo modo
e amata a Colui che mi guarda. Perché il desiderio di essere voluti bene, affermati, accolti è di
tutti, e io mi ritrovo così bisognosa in questo. Quindi quando nella realtà succede che mi sento
guardata così, la sorpresa, la gratitudine è grandissima, ma attraverso il lavoro della Giornata
d’inizio anno mi accorgo che l’attenzione va a Chi mi guarda, perché mi trovo spesso a chiedermi:
ma se mi sento così, che potenza deve avere Chi mi guarda così! Quindi c’è uno “slittamento”
della mia attenzione verso l’origine di questo sguardo.
Dal sentirsi guardato a Colui che mi guarda. Noi tante volte facciamo fatica a fare questo passaggio. Eppure anche se io in questo momento faccio fatica, se sono qui è perché mi è successo qualcosa, e
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quel che mi è successo l’ha fatto succedere Qualcuno. Chi mi guarda? Per questo io sono contento
non perché «mi sento» adesso più o meno guardato, ma perché c’è Uno che mi guarda così, tanto
che non sono più da solo, con il mio niente, nella realtà. La fede, ci siamo sempre detti, è il
riconoscimento di una Presenza che noi abbiamo potuto toccare con mano in certi momenti, quei
momenti che don Giussani, alla fine della sua vita, davanti al Papa e a tutta la Chiesa ha descritto:
momenti, certi momenti che colpiscono fino al cuore, fino il fondo del cuore e che uno non si può
mai staccare di dosso. Quell’esperienza di corrispondenza unica è ciò che tutti i nostri sospetti, tutti i nostri sbagli, tutte le nostre stupidaggini non possono strapparci via, perché questa esperienza unica di corrispondenza non l’abbiamo potuta generare noi e documenta Chi l’ha resa possibile.
Quindi è Lui che io riconosco nella fede, che io posso riconoscere ora; e sono contento quando,
anche guardando il buio, posso riconoscerLo. Sono reduce da quello che ho visto due giorni fa a
Kampala: le donne della Rose, tutte con l’Aids (chi maltrattata, chi lasciata, chi vedova, chi
abbandonata), si sentono definite da quell’incontro che ha ridato loro valore, che ha fatto scoprire
loro il valore della vita di ciascuna. E vi assicuro che la letizia che si vedeva in loro difficilmente la
vediamo tra di noi. Questo vuol dire che loro possono toccare con mano… Mi domandava la
persona della lettera che ho citato prima: «Dove trovi tu questo?». Lo trovo lì, a Kampala, lo trovo
in quel che vedo e in altre cose che vediamo tutti. Come l’ho trovato ascoltando il brano della
Maddalena durante la messa, nei giorni in cui preparavo gli Esercizi estivi dei Memores Domini;
pensavo di usarlo semplicemente per l’introduzione, ma una volta letto non riuscivo a togliermelo
di dosso, e cresceva, cresceva; a un certo momento, non potevo più andare avanti senza sentire il
bisogno di ritornare a quello sguardo che costantemente mi genera, senza il quale io non mi guardo
bene. Ma voi come potete andare avanti senza tornare costantemente a sperimentare quello sguardo, a sentire il vostro nome chiamato? Perché ciò che succede a Maria è ciò che succede a ciascuno di noi: che possiamo lasciarLo entrare ogni mattina perché a tutti noi viene annunciato costantemente;
Lo possiamo accogliere o possiamo lasciarLo perdere perché abbiamo un’immagine di come deve
succedere, ma a nessuno di noi, una volta che gli è stato annunciato, è impedito di guardarsi
attraverso ciò che è capitato a Maria Maddalena, perché tutti noi non saremmo qui se non fosse
successo lo stesso anche a noi. Per questo, se non ritorniamo costantemente lì, se non conviviamo
con quelle pagine in modo continuo, se non lo facciamo diventare cammino (dopo il miracolo
iniziale), tutto si disfa tra le nostre mani; perché quello sguardo non continua se io non lo lascio
costantemente entrare e se non mi rendo costantemente disponibile a lasciarlo entrare.
Volevo raccontare un fatto per documentare quel che dici nella Giornata d’inizio anno, specie dove
parli dell’inizio di una coscienza nuova. Dicevi: uno può guardare la realtà dal buco della ferita e
bloccare il cammino della conoscenza, deve riaccadere Lui. In questi giorni avevo lavorato molto
sugli Esercizi, mi sembrava di averli chiari, ma mi sono scoperto schiacciato dal peso di quel che
accadeva, cioè ho avuto delle situazioni di lavoro per cui, per dover rispondere a tutto, mi sentivo
abbastanza soffocato. E mi sono proprio sorpreso che, malgrado tutto il ripetermi le cose che
sapevo, ci fosse quasi un’obiezione: «Perché devo lavorare così tanto? Perché devo fare tutte
queste cose? Ma perché?». E mi davo delle spiegazioni: «Perché è giusto rispondere bene ai
clienti, è giusto trattar bene i collaboratori, è giusto far di tutto perché c’è la crisi…».
Facciamo di tutto, tranne che ritornare lì. Di tutto, di tutto e di più!
È vero. Avendolo chiaro, sapendo il ragionamento, stamattina volevo andare a messa, non ho
potuto perché c’era un riunione presto; allora mi sono ricordato che alle dodici e mezza c’è la
messa in Cattolica. Faccio di tutto per andare. Finisco la riunione alle dodici e mezza…
Ma se tu fossi innamorato… Basterebbe che ci pensassi una volta. Se fossi innamorato, dove
ritorneresti? Che cosa prevarrebbe?
Quell’amore.
Torneresti a trovarla.
Infatti avevo proprio il desiderio di andare a messa.
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Non è uno scherzo. Stiamo dicendo che noi ci dibattiamo tra tante cose, ma se non capiamo qual è
la diversità di quel che ci è capitato, facciamo di tutto e pensiamo che tutto il resto lo si possa
sistemare. Come se quello sguardo fosse una tra le tante cose. No, è «la» cosa! È l’avvenimento. E per questo, o noi lo capiamo e ritorniamo costantemente lì dove possiamo lasciarlo di nuovo
entrare, o l’unica cosa che non verifichiamo è la fede; verifichiamo tutti i nostri pensieri, tranne
l’unica cosa che ci è capitata.
Insomma, cerco di andare a messa. Finisco la riunione rapidissimo. Dodici e mezza: sto uscendo e
uno di quelli della riunione mi dice: «Scusa, ho bisogno di parlarti». Io ho detto: «Guarda, ho un
appuntamento importante» (perché era importante). Ma lui insiste e mi fermo, perché di cuore
volevo rispondere. Ho perso dieci minuti, poi sono corso in Cattolica sperando di arrivare almeno
alla Consacrazione. Arrivo in chiesa e trovo il prete che sta pulendo il calice, e ho avuto un moto di
delusione, di dispiacere per cui mi son detto: «Sono venuto per niente», e mi sono quasi dato la
colpa di essermi fermato. Infatti un minuto l’ho passato a pensare: «Ma perché mi sento così
pesante? Perché tutto questo rispondere alla realtà se in fondo è…». Niente mi sollevava. A un
certo punto, mi sposto di lato e c’è il leggio col Vangelo aperto. Dico: «Almeno leggo il Vangelo di
oggi». Leggo rapidamente e c’è una frase che dice all’incirca: «Beato il servitore il cui padrone
tornando lo troverà fedele al suo lavoro». Una liberazione, una corrispondenza totale! Mi son
sentito addosso un moto di gioia, per cui quando tu dici della Maddalena che «niente scambieresti
per un istante di quel rapporto affettivo», mi sono sentito totalmente immerso nel mistero del
Padre.
Basta che lasciamo entrare anche soltanto un minuto la Sua diversità. Mi domandano ancora:
«Come si fa a stare nella realtà con la ferita che abbiamo addosso, che io riconosco essere una
grazia perché costringe a cercare l’amore, ma senza farsi definire dallo stato sentimentale in cui uno si trova?» Cioè, come non bloccarsi al sentimento di un momento particolare? Vedete come siamo tante volte incastrati lì? È la domanda che mi fa anche un’altra persona che scrive: «Alla Giornata d’inizio anno sono rimasta molto colpita da questa frase: “Perché qualsiasi obiezione o qualsiasi circostanza, pur dolorosa, ha sempre dentro qualcosa di vero, altrimenti non ci sarebbe”. Un passaggio precedente sulle circostanze mi descrive bene: “Perché non siamo in grado di vedere l’attrattiva che hanno dentro, tanto siamo definiti dalla ferita, le abbiamo ridotte perché noi
pensiamo già di sapere che cosa sia la circostanza, pensiamo già di sapere che non c’è niente di
nuovo da scoprire dentro di essa, che c’è solo da sopportare”. Sentire che la circostanza ha qualcosa di vero dentro mi ha fatto sobbalzare, perché in questo periodo troppo faticoso la circostanza per me è staccata dalla verità. Sono quasi soffocata dalla confusione e dall’elenco delle cose che non vanno come vorrei. In passato dicevo: “Ma tanto c’è Gesù!”. Il che metteva una pezza su tutto, eliminando
così Gesù e me. Ma il test che fai è troppo ragionevole e non mi lascia ombra di dubbio. È vero,
altrimenti non ci sarebbe. Se c’è, è perché c’è qualche cosa in più della circostanza avversa, c’è
qualche cosa di vero dentro, altrimenti non ci sarebbe. Questa affermazione ricompone i pezzi. Puoi approfondire che cos’è questo “ha dentro qualcosa di vero, altrimenti non ci sarebbe”? Come avere la certezza che la verità, Cristo, è unita a ciò che accade anche nelle prove più dure?».
Sono rimasta impressionata dal fatto che la vita è veramente racchiusa in quel che tu hai detto
della Maddalena. E quella commozione di cui da quest’estate tu hai cominciato a parlarci, non
dura perché rileggo un testo, ma perché la vedo accadere. Sabato scorso è stato per me un
momento clamoroso, tra i tanti di questo periodo, di questo riaccadere. Sono stata in un carcere a
presentare la mostra sul Duomo di Milano (sei incontri nei vari bracci). La cosa che mi ha colpito
è come è nata questa vicenda: due anni fa un giovane ha ucciso due persone. Si è costituito subito,
è entrato in carcere e ha smesso di parlare, come annichilito da quel che aveva commesso. Alcuni
dei nostri amici che fanno caritativa in carcere hanno cominciato ad andare a trovarlo. Per mesi
lui continuava a non parlare, finché l’anno scorso, dopo il Meeting, mentre gli raccontavano della
mostra sul Duomo di Milano e di chi l’aveva costruito − tutti uomini peccatori −, lui d’improvviso,
commuovendosi, ha detto: «Mi state dicendo che uno come me può costruire una cattedrale?».
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È sentimentale, questo?!
E così, nel dialogo, proprio da lui è nata l’idea di portare la mostra sul Duomo dentro il carcere,
spiegata da alcuni detenuti agli altri detenuti.
Hai detto che questo ragazzo per un anno e mezzo è stato muto, che non parlava con nessuno in
carcere fin quando ha sentito del Duomo. Tanto è bloccato l’uomo davanti a una cosa così terribile
come l’aver ucciso delle persone, per il giudizio che ha su di sé come una persona assolutamente
senza valore! Poi sente raccontare della costruzione del Duomo: «Ma allora è possibile per me che
ci sia ancora qualcosa da scoprire dentro questo mio io, che io penso non serva a niente?».
Dal “movimento” di questa persona è nata la mostra, tanto che io gli ho detto: «Tu hai cominciato
a costruire la tua cattedrale». Mi ha fatto molta impressione perché andando in carcere è come se
io avessi fatto un’esperienza, come non avevo mai percepito, di quanto è abissale il bisogno che noi
abbiamo; noi siamo veramente gente che piange su un sepolcro, non solo lui, perché quando lo
vedi succedere davanti a te, ti accorgi di quel che succede anche in te, di fronte a cui, di solito, sei
così superficiale. Noi abbiamo un’impotenza radicale nei confronti degli altri e nei confronti di noi
stessi. Da una parte, c’è questa nostra impotenza assoluta e, dall’altra, il fatto che noi ci portiamo
addosso una Presenza per cui siamo stati guardati per questo. Tant’è che quando sono uscita ho
pensato: «Io ho bisogno di Carrón che mi parla della Maddalena per leggere la realtà; e ho
bisogno della realtà per leggere Carrón che ci parla della Maddalena». Così la verifica della fede
non è la riuscita, ma l’autocoscienza, cioè: «Maria!».
È soltanto questo che riapre la possibilità, perché tante volte noi non abbiamo una risposta per
ridestare i ragazzi a scuola che sono già tutti bloccati. Invece quando noi portiamo quello sguardo, li possiamo sbloccare; occorrerebbe dire più precisamente che non siamo noi che li possiamo
sbloccare, ma quello che noi portiamo. Quello che noi portiamo come in vasi di creta è in grado di
aprire perfino uno bloccato da un anno e mezzo perché vede tutta la vita attraverso il male che ha
fatto. Qualcuno di noi può pensare di trovarsi in una situazione peggiore di quel carcerato? O
peggiore delle donne della Rose? O peggiore di chi si trova in tante altre circostanze che uno può
immaginare? Sentirsi chiamato per nome, qualsiasi sia la circostanza, è questo che ha riaperto quel giovane. Non ha avuto un’allucinazione o non so che voci ha sentito; semplicemente ha lasciato entrare nella propria vita quel che un altro raccontava. Noi possiamo andare a visitare la mostra sul Duomo come una cosa scontata, perché non abbiamo la consapevolezza del bisogno che ci troviamo addosso. Ma quando uno ha il bisogno, intercetta l’annuncio! Per questo mantenere aperta la domanda è l’unica possibilità per intercettare l’annuncio. Senza il bisogno, senza la vera
consapevolezza del bisogno, lo sguardo su di noi può succedere e noi non rendercene conto. Come
diceva don Giussani, partendo da una frase dell’allora cardinale Ratzinger: «“Non si può portare
l’obbrobrio della vita, se non per la presenza di un amante”. Ma l’obbrobrio più grande è come si è
amanti! Allora si può portare “l’obbrobrio della vita” solo alla presenza di un amante che non è
“un” amante: è la presenza di Cristo […]. Solo guardando l’amata e avendo gli occhi pieni di ciò
che sta dietro, Leopardi può fare l’inno “Alla sua donna”, che non è un canto alla donna, è un canto alla Donna col D maiuscolo: è un canto a ciò per cui nella donna l’uomo prova un’attrattiva che altrimenti non proverebbe [ma che cosa succede? Che per noi la circostanza è staccata dalla verità!]. C’è una tentazione in noi: considerare come astrazione l’unica ipotesi – l’unica ipotesi! – che dà concretezza alla nobiltà e alla grandezza delle cose, fino alla “densità dell’istante” [per noi è un’astrazione, perché per noi il concreto è altro!]. […] Ciò che tutta la gente [invece] sente come
ovviamente concreto di fronte all’astrazione dell’ideale, questo è proprio astratto, perché astratto
vuol dire strappato alla consistenza che può provenire soltanto […] dall’unità del tutto» (L.
Giussani, Vivendo nella carne, Bur, Milano 1998, pp. 289-290). Quel che noi chiamiamo astratto è
la cosa più concreta. L’ho visto, l’ho toccato con mano, quando, di ritorno dall’avere celebrato la
messa con le donne della Rose, lei mi ha detto: «Io ho dovuto annunciare Cristo, oltre che per il
desiderio di condividere con loro quel che avevo trovato, perché era l’unica possibilità che queste
persone ritrovassero il gusto del vivere. Perché queste donne hanno tutte l’Aids, e io potevo far
arrivare loro le pasticche; ma loro non le prendevano perché non avevano una ragione per vivere.
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Ed è stato soltanto quando hanno incontrato una ragione per vivere, quando hanno scoperto il
proprio valore, che hanno avuto una ragione anche per prendere le pasticche». Questo è ciò che noi facciamo molta fatica a capire. Eppure sono le cose più evidenti! Che cosa è più evidente della vita? Nulla. Questo dimostra che ciò che spesso riteniamo più astratto è, invece, l’unica cosa che fa riscoprire l’evidenza del valore della vita. Solo scoprendone di nuovo il valore, quelle donne hanno una ragione per prendere le pasticche per continuare a vivere. Per questo «ciò che tutta la gente sente ovviamente concreto di fronte all’astrazione dell’ideale, questo è proprio astratto, perché astratto vuol dire strappato alla consistenza che può provenire soltanto […] dall’unità del tutto. “Lungi dal proprio ramo, povera foglia frale, dove vai?”: la consistenza della foglia è l’albero tutto intero [perché], una foglia al vento non dice più nulla» (Ibidem, p. 290). Per questo, dentro quel giovane carcerato, dentro quelle donne, vedi una dignità che noi ci sogniamo! Questi, in modi diversi, sono stati chiamati per nome, hanno scoperto che cosa sono. È questo che riempie
veramente la loro vita di letizia. Senza questo noi ci blocchiamo; perché è soltanto una Presenza che sblocca tutto, che riapre la vita al carcerato e alle donne malate di Aids, come la può riaprire a
chiunque di noi, qualsiasi sia la situazione in cui si trova. C’è solo bisogno di lasciar entrare questa
Presenza, occorre solo che quel che ci viene annunciato, qualsiasi sia la modalità con cui viene
annunciato, possa arrivare ed entrare in ciascuno di noi.
Continuiamo a lavorare sulla seconda parte della Giornata d’inizio anno, perché adesso possiamo
capirla meglio, senza soccombere al rischio – che è sempre in agguato – di considerare la prima
parte come sentimentale, pietistica o intimistica, e la seconda come riguardante l’organizzazione, la struttura, l’associazione; e così avremmo già fatto il pasticcio. Per il ragazzo in carcere scoprirsi
guardato così è stato tutto tranne che sentimentale, anzi è proprio quello che lo ha fatto diventare un protagonista, fino al desiderio di fare lui la cattedrale. Che si perda di vista questo, che perdiamo noi di vista questo, staccando le due parti, indica fino a che punto l’unità dell’esperienza si spacca. Per questo, quanto abbiamo ascoltato oggi forse ci facilita di più nel comprendere che cosa stiamo a fare al mondo, che cosa stiamo a fare davanti ai ragazzi (come diceva la prima lettera), che cosa stiamo a fare davanti alle persone (come fa la Rose), che cosa facciamo in carcere quando andiamo a trovare le persone o con chi ci troviamo davanti al lavoro o nelle circostanze più normali del vivere. Questo è ciò che ci diceva don Giussani, che abbiamo ripetuto agli Esercizi e che adesso possiamo capire sempre di più: «Il vero problema di CL [cioè del Movimento] oggi è la verità della sua esperienza e, quindi, la sua coerenza con l’origine. Tra noi esiste spesso un atteggiamento per cui l’urgenza principale è il come vanno le cose, come va la comunità, mentre l’urgenza deve diventare quella di ridare vita ad una sensibilità per la verità dell’esperienza del Movimento» («Il vero problema di CL è la verità della sua esperienza», a cura di L. Cioni, CL Litterae communionis, n. 4, aprile 1977, p. 8). Perché Giussani insiste su questo? Perché ha una percezione chiarissima di qual è la situazione, come stiamo vedendo: «In una società come questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita: non c’è struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto. E la vita è mia, irriducibilmente mia» («Movimento, “regola” di libertà», a cura di O. Grassi, CL Litterae communionis, n. 11, novembre 1978, p. 44). Per questo se il movimento non è l’esperienza della fede come illuminante la vita, le mie problematiche, non può essere una proposta per gli altri.
Possiamo diventare una presenza che risponda alla situazione che ci troviamo a vivere, solo se per
noi la fede non è altro che una esperienza che illumina le mie problematiche, risolutrice delle mie
problematiche, altrimenti come pensiamo di poterla comunicare agli altri? Alla prima difficoltà ci
viene il sospetto che in fondo possa essere un’illusione. Allora non si possono staccare le due cose.
Da questo punto di vista, la lettera che ho scritto alla Fraternità dopo l’incontro con il Papa è
un’occasione per renderci consapevoli di che cosa ci è capitato nella vita e di che cosa stiamo a fare al mondo; si capisce che il Papa ha questa preoccupazione e ce lo testimonia in un modo così
splendente che rileggere le sue parole in questo contesto mi sembra il dono più grande che ci può
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fare il Papa, proprio a noi. Per questo continuiamo a lavorare sulla seconda parte del testo
dell’inizio anno, «Che cosa stiamo a fare al mondo?», e sulla lettera alla Fraternità.
Libro dell’anno: Vita di don Giussani, di Alberto Savorana. Mi colpisce che in chi ha iniziato a
leggerlo nasce immediatamente il desiderio di farlo conoscere ad altri. È lo stesso di quanto
dicevamo prima: avremo la voglia di diffonderlo, di farlo conoscere agli altri, di parlare del libro,
nella misura in cui farà del bene a noi e nella misura in cui noi saremo colpiti da esso. Per questo
saremo noi i primi a poterlo diffondere. Capita sempre lo stesso: la vita è, come dice Giussani,
irriducibilmente mia.
Il sito della Fraternità, da questo mese, è completamente rinnovato nella grafica e nei contenuti.
Sul sito potete trovare anche le informazioni utili alla vita del movimento (per esempio: le date delle scuole di comunità, dei ritiri, i principali avvisi e altro).
Vi chiedo di annotare in agenda la data del 27 aprile 2014, giorno della canonizzazione di
Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII a Roma, e quella del 10 maggio 2014, giorno in cui la
Conferenza Episcopale Italiana ha indetto una grande manifestazione sulla scuola, in piazza S.
Pietro, con il Papa.
Quest’anno la proposta della Giornata nazionale della “Colletta Alimentare”, che si terrà sabato
30 novembre 2013, organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare, è anzitutto l’occasione di
educarci a vivere quanto detto dal Papa: «… quando il cibo viene condiviso in modo equo, con
solidarietà, nessuno è privo del necessario, ogni comunità può andare incontro ai bisogni dei più
poveri». Vi invito perciò a dare la vostra adesione per sostenere questo che è un gesto di carità, di
quella carità di cui abbiamo parlato alla Giornata d’inizio anno.
Adesioni alla Scuola di comunità. L’adesione alla Scuola di comunità è un segno della
partecipazione alla vita del movimento, è un piccolo gesto educativo con cui esprimere la volontà di essere seri in un lavoro che inizia a diventare proprio, fino a farci riprendere in mano il testo tutti i giorni. Aderendo personalmente faremo il test, perché la libertà è sempre più in gioco, e
fortunatamente, dico io, perché ciascuno ha la possibilità di dire: «Io» davanti a Cristo: ma io voglio partecipare a questo o no? Per chi ama la libertà e ama dire: «Sì» a Cristo non come un tran tran, ma come una cosa fresca: «Oggi, voglio aderire oggi», occasioni come questa sono preziose.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 novembre alle ore 21.30. Ricordo che è attivo un indirizzo mail, a cui potete inviare domande e brevi interventi sulla parte della Scuola di
comunità a tema. Vi chiedo di mandarli entro la domenica sera precedente al nostro incontro, in
modo tale da avere il tempo di leggerli. L’indirizzo mail è: sdccarron@comunioneliberazione.org;
vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità.
Veni Sancte Spiritus.
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