mercoledì 9 ottobre 2013

CARCERI, GIUSTIZIA, POLITICA DEBITO DA SANARE

 
Niente da aggiungere, verrebbe da dire dopo aver letto il messaggio sulla que­stione carceraria che il capo dello Stato ha in­viato ieri alle Camere. Se non che siamo in I­talia, siamo l’Italia. Siamo il Paese condanna­to dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – ce lo ricorda, il presidente Giorgio Napolitano – per condizioni detentive che si avvicinano pericolosamente al confine che divide la pe­na giusta dalla tortura, talvolta oltrepassan­dolo. Siamo, inoltre, il Paese in cui negli ulti­mi venti anni il diritto penale (e con esso l’am­ministrazione della giustizia) è stato trasfor­mato in un campo di battaglia politico, nel no­me di una malintesa e sciagurata versione del bipolarismo condizionata da leader con mol­ti interessi (e altrettanti conflitti) e purtroppo anche per responsabilità di una parte della magistratura. Si tratta di aspetti che cozzano tra loro, sono i due fattori il cui sterile prodot­to è l’immobilismo: nulla si è fatto, salvo alcune lodevoli quanto isolate e quindi insufficienti iniziative, perché il secondo comma dell’arti­colo 27 della Costituzione («Le pene non pos­sono consistere in trattamenti contrari al sen­so d’umanità e devono tendere alla rieduca­zione del condannato») non restasse lettera morta. Molto si è detto e nulla si è tentato per riformare la giustizia in maniera finalmente omogenea e libera da velenosi sospetti su nor­me ad o contra personam.
 
 Di tutto ciò è ben consapevole, naturalmente, il presidente della Repubblica, che non a caso ha voluto concludere un atto ufficiale così im­portante come il messaggio alle Camere con l’invito a non cadere in «ingiustificabili distor­sioni e omissioni». Per l’ennesima volta, ci per­mettiamo di aggiungere. Del resto, appena po­chi minuti dopo la lettura del testo, c’era chi si arrovellava sulla possibilità di applicare o me­no l’amnistia, indicata dal Quirinale come u­na possibile misura «straordinaria» (alla pari dell’indulto), al reato di frode fiscale per cui Sil­vio Berlusconi è stato condannato in via defi­nitiva. Ridurre tutto a questo sarebbe, per pri­ma cosa, mancare di rispetto al capo dello Sta­to, il quale cita gli eventuali provvedimenti di clemenza generale solo dopo aver sottolinea­to l’esigenza di soluzioni strutturali come la depenalizzazione, le pene alternative al carce­re e l’incremento dei posti disponibili nelle pri­gioni. In secondo luogo, significherebbe non a­ver colto il cuore della questione che presenta un curioso, e drammatico, parallelo con la pe­sante emergenza economica che ci troviamo a fronteggiare. Così come negli anni, infatti, siamo andati sconsideratamente accumulan­do debito pubblico sprecando denaro in pri­vilegi o in forme di assistenzialismo che mor­tificano il concetto di Stato sociale, allo stesso modo abbiamo permesso che le celle e i tri­bunali arrivassero a traboccare di migliaia di persone e di milioni di fascicoli, grazie soprat­tutto alla 'pan-penalizzazione' e a un ricorso eccessivo alla carcerazione preventiva.
  Giustamente, quando era ministro guardasi­gilli, l’attuale vicepremier e segretario del Pdl Angelino Alfano parlava di «debito pubblico giudiziario». In passato, tra il 1953 e il 1990, ab­biamo avuto in media un’amnistia ogni tre an­ni, quasi fosse un prodotto disgorgante versa­to in una tubatura intasata. Poi, rapidamente, tutto tornava come prima. Anzi, peggio. Sta­volta non potrà, non dovrà essere così. Ieri lo ha detto con chiarezza solenne e inequivoca­bile il capo dello Stato. E in seria e libera asso­nanza noi di
 Avvenire lo avevamo scritto che un eventuale provvedimento di clemenza ge­nerale potrebbe avere senso e utilità solo den­tro, e come coronamento, «di un finalmente efficace e condiviso percorso di riforma di isti­tuzioni e sistema giudiziario». Non c’è, infatti, soltanto da superare il severo esame della Gran­de Chambre di Strasburgo, fissato a fine mag­gio. Occorre, e con urgenza, mettere fine alla vergogna delle carceri italiane, restituire di­gnità a chi vi è rinchiuso e a chi vi lavora, dare un senso a quel comma della Costituzione e al nostro essere italiani, ovvero cittadini di uno Stato che vorremmo definire convintamente 'di diritto'.
  Se è vero, come ha detto il presidente del Con­siglio Enrico Letta, che con il voto di fiducia della scorsa settimana si è di fatto chiuso un ventennio politico e che, come ha aggiunto ie­ri Napolitano, il clima politico «si è svelenito», allora nessun alibi, tanto meno se meschino o strumentale, è più accettabile. Non nell’inte­resse di uno, ma per il bene di tutti.
  DANILO PAOLINI   Avvenire

Nessun commento: