«Se Cristo venisse in silenzio e si sedesse su una sedia lì vicino a costei, e tutti a un certo punto ce ne accorgessimo…». Non so perché questa ipotesi di don Giussani riportata in un libro di Francesco Ventorino (Stare dove egli è) nel silenzio di una delle ultime sere d’estate mi cade dentro come un sasso in uno stagno.
La prima reazione è affaticata e quasi dura. Qualcosa in me cigola come una macchina arrugginita e immobile da un tempo immemorabile. Dice soltanto, una parte di me: “Assurdo”; e il lavorio della macchina si spezza in un suono di metallo secco.
Già, impossibile. È da quando eri bambina che, con parole o con silenzi eloquenti, ti dicono ciò che è lecito sperare e ciò che no, e ciò che invece è folle attendere. Con l’ipotesi cui stai pensando ci troviamo, lo sai, nella categoria dell’impossibile.
Ma, mi dico, se anche veramente lui si sedesse qui accanto, magari nemmeno lo saprei riconoscere; come una che si affaccia da una finestra su un orizzonte vuoto, e sa già, è certa che non verrà nessuno.
E però, se l’evidenza fosse tale che gli occhi vedono, e non si può negare? Allora forse penserei a un fantasma, o a un puro prodotto della mia immaginazione; e mi direi che sono matta, e non avrei il coraggio di raccontarlo a nessuno – se non, con circospette parole da cui subito prendere le distanze, a un medico, che sappia come si curano tali allucinazioni.
E se poi invece fosse un sussulto del cuore – una impennata del sangue fino in gola – a dirmi con certezza: è lui, veramente, allora resterei come impietrita. Resterei lì immobile a guardare, temendo che a un solo mio movimento lui se ne vada. E non avrei il coraggio di dire una sola parola: troppo pesando il tempo e le incrostazioni del cuore per essere capace, soltanto, di lasciarmi abbracciare.
Dunque me ne starei senza fiatare, come un animale affamato e selvatico che incontri dopo tanto tempo un uomo e ne speri una carezza buona, e del cibo, ma anche ne abbia paura. Come un cane randagio, col cuore sospeso tra la diffidenza e il desiderio di una casa, che finalmente lo accolga.
Ma la sedia accanto alla mia qui in cucina questa sera, naturalmente, è vuota. E tu, mi dice una parte di me severa, dovresti smetterla, all’età che hai, di desiderare l’impossibile. Non ti hanno insegnato poi che lui “è” in noi, che è “tutto in tutti”? Non occorre dunque vedere niente, e sognare è da bambini, o da sciocchi.
D’accordo. Nella penombra dell’imbrunire nella casa questa sera silenziosa mi alzo da tavola. È strano, però, mi chiedo, accadrà anche agli altri? È sempre come se conservassi la remota memoria di una originaria felicità totale; e, cocciuta, tornassi inutilmente davanti a una porta chiusa, che non è dato a noi uomini di aprire.
Marina Corradi - Tempi.it
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