- Monsignor Luigi Negri«La cultura è frutto di un cammino nella fede».
La cultura è la «coscienza critica e sistematica dell'esperienza». Allo stesso tempo «l'uomo non può essere al di fuori della cultura, perché la cultura è il modo specifico dell'esistere e dell'essere dell'uomo». Monsignor Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara e Comacchio, inizia così questo dialogo che nasce a commento del "31° Premio internazionale Cultura cattolica" che gli viene conferito domani a Bassano del Grappa. Due citazioni di personaggi straordinari ed essenziali per quello che definisce il «mio modo di vivere fino in fondo l'identità che mi ha dato il battesimo», messe non in ordine di importanza, ma di incidenza temporale sulla sua storia. La prima è di don Giussani, «che è stato mio insegnante di religione al liceo Berchet di Milano a fine anni Cinquanta; la seconda è una frase di Giovanni Paolo II tratta dall'intervento all'Unesco nel 1980. Da loro ho imparato che nasce una cultura cattolica se c'è maturità nella fede. Una fede matura produce criteri di interpretazione della realtà, capacità di giudizio, di spirito critico. Ecco, io la fede e la cultura le ho vissute così fin dai tempi del liceo. Poi questa fede e questa cultura sono state investite dal laicismo e dall'ideologia marxista, così sono entrate in dialettica con queste che sono presto divenute mentalità dominanti».
Come si comporta secondo lei la cultura cattolica nel dialogo con la contemporaneità?
«Nei miei anni di formazione ho avuto maestri come Giussani, Guardini, Von Balthasar... Poi, in me è cresciuta la consapevolezza che la fede detta una visione originale della realtà, anche attraverso il grande magistero di Giovanni Paolo II, di Papa Benedetto. Oggi si parla spesso di dialogo tra fede e cultura e devo dire che sono avvilito perché nei fatti si è affermato un dualismo per cui la fede si vive come esperienza individualistica e soggettiva, mentre la cultura scorre su ritmi propri. In questo modo la cultura cattolica o quello che ne resta, rischia di rimanere subalterna o di avere bisogno di una certificazione resa altrove. E mi sembra di percepire una difficoltà in tanti cristiani per i quali la cultura è stata ed è frutto di un cammino nella fede».
Perché parla di difficoltà?
«Perché invece di vivere nelle attività di tutti i giorni una realtà presente a pieno titolo nel mondo, siamo tornati a quando, ai tempi del liceo, incontravo professori per i quali un conto era la fede che si vive nel privato un altro era la cultura che è il frutto delle conoscenze scientifiche. Con Giovanni Paolo II abbiamo invece sperimentato una cultura e una Chiesa che si realizzavano insieme nella missione. Adesso, però, la parola missione rischia di essere rimandata a un'azione di carattere ecclesiale nei confronti di coloro che non conoscono il cristianesimo... Ma la missione è la vita della fede nel mondo in cui siamo, nella testimonianza; è una visione specifica della vita costruita su Cristo e per Cristo. In questo senso non c'è cultura cattolica senza identità ecclesiale. La presenza e la testimonianza di papa Francesco col suo annunzio fondato su Cristo e aperto all'uomo costituisce sotto i nostri occhi un evento di nuova evangelizzazione. A lui guardano con grande affezione cristiani e uomini di buona volontà».
C'è forse bisogno anche di un rinnovato impegno da parte degli studi teologici?
«Credo che le facoltà ecclesiastiche e in particolare le università cattoliche dovrebbero avere il compito di far maturare criticamente la coscienza della fede affinché la fede diventi matura nella consapevolezza. Io sono un po' lontano dalla realtà universitaria e non so se lo facciano, ma mi sembra che la formazione di autentiche personalità nella Chiesa stia facendo fatica. Credo che prevalga un po' di relativismo teorico e una sorta di complesso verso le culture dominanti. Il cardinale Newman si convertì al cattolicesimo perché vide la peculiarità della Chiesa Cattolica come un unico "ordo". Oggi mi sembra di vedere una molteplicità di "ordini" in conflitto fra loro e allora, a che cosa ci si dovrebbe convertire, alla visione dominante all`interno della Chiesa?».
Quindi?
«Quindi serve una riforma culturale nella Chiesa e di conseguenza anche nella formazione. Tutto il resto verrà di conseguenza, anche una rinnovata visione morale, un movimento di vita innescato da una concezione chiara della vita. Don Giussani amava ripetere che non si può conoscere la verità senza desiderare di viverla, che poi è una frase di Platone».
Lei si è occupato molto di scuola e da decenni ogni governo pensa di riformarla con esiti che appaiono sempre più deteriori.
«Esiste un'emergenza educativa, che è una questione che riguarda gli adulti, non i giovani. Dove sono i nostri adulti? Sono educatori questi genitori, queste famiglie scombinate con più padri, più madri e una molteplicità di nonni? Sono educatori questi insegnanti... Mi viene in mente una citazione di Bernanos al finire della Grande Guerra: "Abbiamo chiesto alla generazione che ci ha preceduto una ragione per vivere e per tutta risposta ci hanno mandato nella Marna". In sei giorni sulla Marna è morta una generazione intera di giovani cattolici francesi e tedeschi... Oggi non c'è una Marna, ma c'è un sistema culturale che non offre alcuna ragione per vivere. E poi, come si può fare una riforma della scuola se da 150 anni non si ha il coraggio di porre il problema di una vero pluralismo culturale? Una vera riforma non può avere paura della pluralità. Invece si preferisce il pastone informe dell'ideologia consumistica promossa dai media».
Un problema che nasce nel Risorgimento...
«Esatto. E quell'esperienza oggi ci avrebbe dovuto insegnare che lo Stato non coincide né con la Nazione né col Popolo. L'unità statuale è una necessità di carattere politico ed economico. Ma nessuno oggi può negare che l'Unità è stata fatta contro la tradizione cattolica. Poi i cattolici sono entrati nella nuova situazione, sono stati capaci di adattarsi. Oggi bisognerebbe ripartire dal confronto vero, dal dialogo, che come diceva Aristotele, sono le motivazioni della democrazia».
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