giovedì 24 ottobre 2013

Una laurea dietro le sbarre Studiare in carcere, una molla per il riscatto

 « C onfeziono panettoni nella pasticceria del carcere, in luglio ho preso il diploma di ragioneria in car­cere. Volevo provare anche l’uni­versità, e cosa poteva scegliere uno come me, qui dentro, per diventa­re sempre più uno ’specialista’ del settore? E’ così che mi sono iscritto a Scienze e tecnologie alimentari'. Elio è diventato matricola a 61 an­ni. Arrestato per traffico interna­zionale di stupefacenti, ha accu­mulato condanne per 35 anni, il suo 'fine pena' è datato 2025. Al carce­re Due Palazzi di Padova è iniziata quella che considera la sua secon­da vita. Se lo ricorda come fosse og­gi, quel 9 settembre 2009: nello stes­so giorno il destino ha voluto che cominciasse il corso di ragioneria e il lavoro come pasticcere. Senza na­scondere un pizzico di legittimo or­goglio, spiega che lui è «quello del primo lievito: impasto acqua, fari­na, uova, burro e lievito. Passano prima di tutto dalle mie mani gli 850 panettoni prodotti ogni giorno per la Pasticceria Giotto», l’impresa che dà lavoro a 120 detenuti (pasticce­ria, ristorazione, gestione di spazi verdi, call center, assemblaggi e al­tri servizi) e che pochi giorni fa il ministro Cancellieri ha elogiato co­me un’eccellenza da imitare ed e­sportare per offrire una prospettiva di riabilitazione al popolo delle car­ceri. Se li è sudati, Elio, questi quat­tro anni da studente-lavoratore: lezioni al mattino, un veloce pranzo in mensa e poi su­bito a impastare panettoni per cinque ore. Molte volte ha resistito alla tentazione di mollare, ma la voglia di riscatto e il pensiero rivolto alla famiglia che vive a Ve­rona sono sempre state u­na molla più potente della fatica. «Di male ne ho fatto, ma posso ancora fare del bene: mando lo stipendio a casa (750 euro al mese), contribuisco agli studi del­le mie figlie, aiuto mia moglie a sbarcare il lunario. Guardi, se non facessi tutto questo mi sentirei un pezzo di legno. E almeno gli ultimi anni della vita, spero di passarli ac­canto a loro». Sono 52 i detenuti del Due Palazzi iscritti all’università (la punta più alta tra le prigioni d’Italia), grazie a una convenzione tra l’ateneo di Pa­dova e il Dipartimento dell’ammi­nistrazione penitenziaria, sulla scia di quanto realizzato in altre carce­ri. I più fortunati, dieci, vivono al­l’interno del polo universitario, un’area predisposta per lo studio con celle aperte e accesso alla bi­blioteca, ai computer e una con­nessione internet controllata dal Dap. Anche questo è frutto di una politica illuminata portata avanti dalla direzione carceraria per dare concretezza all’articolo 27 della Co­stituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tende­re alla rieducazione del condanna­to ». E la rieducazione passa attra­verso il lavoro e lo studio che – co­me confermano le statistiche – so­no i migliori antidoti alla recidiva (vedere box).
  A una parete della sala studio sono affisse alcune planimetrie di un pro­getto edilizio. «Tutta farina del mio sacco», dice Bruno, detenuto-stu­dente della facoltà di Architettura a Venezia, alle spalle una vita che con un generoso eufemismo si può de­finire burrascosa. Nel suo girovaga­re
 tra i penitenziari d’Italia ha pre­so il diploma di liceo artistico nel carcere di Cuneo, quando è arriva­to a Opera si è iscritto ad Architet­tura al Politecnico di Milano e ora sta terminando il suo percorso all’I­stituto universitario di architettura di Venezia, dove ha dato gli esami del quarto anno. «Lo studio è uno strumento fenomenale per metter­ti alla prova, per allargare gli oriz­zonti oltre le sbarre, per relazionar­si con l’esterno, per prepararsi a tor­nare nella società con una carta in più da giocare». Bruno lavora come volontario allo sportello giuridico di Ristretti orizzonti l’associazione che, tra le altre cose, si occupa di tu­telare i diritti dei detenuti e ha par­tecipato a molti incontri con le sco­laresche. «Aprire il carcere ai rapporti con l’esterno è l’antidoto più efficace al de­grado e alla rassegnazione. Aiuta chi vive fuori a cono­scere la nostra condizione e la nostra voglia di riscatto, aiuta noi a renderci conto dei nostri errori e a respira­re un po’ di normalità. Ne abbiamo bisogno come l’ossigeno, e invece resta an­cora un evento ecceziona­le ». Bruno ha 58 anni, an­cora 10 da scontare, conta di laurearsi fra 2. «Poi vorrei chie­dere la grazia, uscire per lavorare in uno studio di architettura o fare as­sistenza legale ai detenuti». La sua sembra una vita in ritardo, ma il de­siderio di ripartire non ha età.
  Vuole ripartire anche Federico, clas­se 1970, un friulano che ha accu­mulato condanne per 16 anni, alle spalle una brillante carriera come trafficante di migranti: bosniaci, al­banesi, kosovari, tur­chi,
 cinesi condotti su strade e sentieri che attraversano la frontiera italo-slo­vena, con guadagni stellari da dividere con i compari. Fre­quenta il secondo anno del corso di laurea in proget­tazione e gestione del turismo cul­turale alla facoltà di Lettere. Grazie ai suoi soggiorni in Spagna e all’at­tività di 'passeur' conosce varie lin­gue, quando uscirà (spera tra 4 an­ni) sogna di aprire un’agenzia di viaggi o di pianificare un’attività di turismo culturale per rilanciare qualche vecchio borgo. A Padova al­terna i libri con le telefonate dal call center, gestito da Officina Giotto per conto della società Illumia, nei lo­cali messi a disposizione dalla dire­zione, a fianco di altri 30 detenuti. Ha sempre lavorato e studiato 'per­ché il sacrificio e la rinuncia sono passaggi obbligati sulla strada del riscatto e per poter ripartire da una posizione migliore di quella che oc­cupavi quando sei entrato qua den­tro'. Ora le sue maggiori soddisfa­zioni sono vedere il sorriso di sua madre quando viene a trovarlo da Cividale e leggere le lettere del suo figlio maggiore: «Fa il cuoco in Au­stralia, mi chiede che voti ho preso agli esami e mi raccomanda sempre di essere costante nello studio. Stra­no, vero? Si sono invertite le parti tra padre e figlio, ma nella vita di un detenuto ci sta pure questo». 
Avvenire

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