giovedì 17 ottobre 2013

«Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione»Appunti dall’intervento di Julián Carrón alla Giornata d’inizio anno di Gioventù Studentesca Milano, 4 ottobre 2013



Appunti dall’intervento di Julián Carrón
alla Giornata d’inizio anno di Gioventù Studentesca
Milano, 4 ottobre 2013
canti;
Razón de vivir
Liberazione n. 2
La strada

Alberto Bonfanti. Innanzitutto voglio dare il benvenuto
non formale a tutti voi qui presenti e a tutti coloro che
sono collegati da settanta città in Italia e anche dalla Spagna.
Non è formale, perché la sincerità e la lealtà con cui vivete
e con cui vi raccontate, come si evince anche dai vostri
contributi, dimostra che se siete qui, se siamo qui, è perché
attendiamo qualcosa: che quell’inizio di risposta che abbiamo
incontrato possa crescere, possa diventare sempre più esperienza
quotidiana. È sempre commovente ed edificante
leggere i vostri contributi, perché testimoniano una freschezza,
una lealtà e una sincerità nel porre le domande più vere,
senza reticenze. Scrivere questi contributi è un aiuto per
giudicare ciò che vivete, per guardare la vostra esperienza,
e quindi per vincere tante paure che spesso nascono proprio,
come ha scritto la nostra amica Debora, dal «non guardare
l’esperienza».
Ringraziando il nostro amico don Carrón, che anche
quest’anno ci ha voluto accompagnare in modo così particolare
in questo inizio anno perché, come ci ha già detto
l’anno scorso, l’inizio ci pone sempre davanti alle questioni
decisive del vivere, sento di poter dire che l’anno scorso
tutti siamo stati segnati da quel desiderio, da quell’esigenza
di affezione a noi stessi che tu avevi descritto lo scorso
ottobre, e senza della quale viviamo come se ci mancasse la
terra sotto i piedi. Abbiamo fatto esperienza che questa affezione
a noi stessi nasce dall’ospitare e riconoscere una
presenza, una persona che abbiamo davanti; che nasce e
cresce attraverso l’incontro con uno sguardo carico di
affezione per la nostra persona, per il nostro destino. È
questo sguardo che permette di vedere meglio noi stessi e
la realtà, come ci siamo detti al Triduo citando sant’Agostino
che, parlando dell’incontro di Zaccheo con Gesù, disse:
«Egli fu guardato e allora vide» (Sant’Agostino, Discorso
174, 4.4). Come documentano i vostri contributi, da qui
nasce prepotente l’esigenza della contemporaneità di questo
sguardo. «Come sentirsi sempre così abbracciato, compreso,
amato?», scrive uno di voi. «Io questo abbraccio voglio
sperimentarlo ogni istante», dice un’altra; «desidero che
questo amore sia constatabile» perché, come scrive un’altra
nostra amica citando il filosofo francese Hadjadj, «l’amore
più profondo implica una dimensione tattile».
Senza l’esperienza presente di questo amore la vita diventa
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inutile. Ma noi questa inutilità la rifiutiamo, non la tolleriamo,
come abbiamo scritto nella frase di invito a questo incontro.
Senza questo sguardo amoroso vince la noia, vince «il male di
vivere», come ci dice Cecilia. Ma anche noi, pur toccati dall’esperienza
di questo sguardo, in certi momenti, in certi
rapporti, senza l’esperienza della contemporaneità di questa
affezione, ricadiamo nella noia, così che la nostra vita, come
ci ha richiamato acutamente don Medina al Triduo pasquale,
oscilla continuamente tra momenti in cui viviamo tutto con
grande gioia e altri in cui ci piangiamo addosso, come ci ha
scritto Caterina.
Insomma, nella quotidianità della vita che è lo studio, il
rapporto con i professori, con gli amici, con i genitori, i nostri
interessi, le nostre passioni, spesso siamo – come ci hai detto,
Julián, nel tuo saluto al Triduo – «arruffati tra i cambiamenti
degli stati d’animo, imbrigliati nelle nostre reazioni» (30
marzo 2013). Ma ci hai anche detto: «Vi auguro di non
arrestarvi mai all’apparenza delle cose e di assecondare instancabilmente
quell’impeto senza tregua che è il vostro più
grande alleato per l’avventura della vita. Cristo si è fatto
uomo, è morto e risorto per rimanere nella storia accanto a
noi e sostenere questo nostro alleato».
Allora assecondare questo impeto senza tregua è la strada
per crescere nell’esperienza di questo essere guardati e
abbracciati; assecondare questo impeto senza tregua è il cammino
da compiere affinché la vita non sia inutile e non ricada
nella noia. Per questo ti chiediamo: come assecondare l’impeto
di compimento, di felicità, che non ci lascia tregua? Come
non vivere inutilmente?
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JULIÁN CARRÓN
NEANCHE IO VOGLIO VIVERE INUTILMENTE: IL «MAL DI VIVERE»
Salve a tutti. Sono contento di poter condividere con voi
anche questa volta il pezzo di strada che il nuovo anno ci
mette davanti. C’è un legame profondo tra le due domande
che mi fa Albertino: «Come assecondare l’impeto di compimento,
di felicità, che non ci lascia tregua?» e: «Come non
vivere inutilmente?». Tutti intuiamo che possiamo non vivere
inutilmente solo se assecondiamo questo impeto, questo
impeto che ci troviamo addosso, come scrive uno di voi:
«Quando ho saputo il titolo della Giornata d’inizio sono
rimasto molto provocato. Neanche io voglio vivere inutilmente.
Questa è l’urgenza più potente che sperimento in ogni
giornata: la necessità che la mia vita sia una avventura affascinante
». Questa urgenza è la stessa che hanno avvertito anche
tutti i grandi uomini nella storia. Uno di essi, Cesare Pavese,
la esprime così: «Non c’è cosa più amara / che l’inutilità. […]
La lentezza dell’ora / è spietata, per chi non aspetta più nulla»
(C. Pavese, «Lo steddazzu», Le poesie, Einaudi, Torino 1998, p.
104). Per questo don Giussani, con tutta la sua umanità, con
quell’umanità che sentiva vibrare dentro di sé, non poteva
evitare di dire quello che abbiamo scelto come titolo del
nostro inizio: «Io non voglio vivere inutilmente: è la mia ossessione
» (L. Giussani, Lettere di fede e di amicizia ad Angelo
Majo, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi 2007, p. 33).
Come possiamo affrontare questa avventura in modo tale
da non vivere inutilmente? Che cosa ci può aiutare di più in
questa avventura, in questa urgenza di non vivere inutilmente?
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«In questi giorni», mi scrive una di voi, «rileggendo il
messaggio che ci avevi mandato al Triduo, mi ha colpito la
frase in cui dici: “Vi auguro […] di assecondare instancabilmente
quell’impeto senza tregua che è il vostro più grande
alleato per l’avventura della vita”. Mi sono accorta che questa
frase legge proprio tutta la mia esperienza di questo ultimo
anno, in cui ho avuto infatti tanti alti e bassi: mi sono
allontanata tante volte e poi sono tornata. La cosa impressionante
è che quello che mi ha fatto tornare sempre in Gs
non sono gli amici o i genitori o gli insegnanti; mi ha sempre
riportato l’impeto del mio cuore, perché il mio cuore sa ciò
che gli corrisponde, il mio cuore è proprio l’alleato più
grande che ho per vivere. Ed è per questo che posso non
avere più paura», perché anche se ho degli alti e bassi, anche
se a volte mi allontano, anche se a volte posso sentire strano
quello che viene proposto, il cuore sa ciò che gli corrisponde.
Per questo vi avevo detto che abbiamo dentro di noi il più
grande alleato, basta assecondarlo, perché il cuore grida,
grida molto più di qualsiasi rumore intorno; e tutti i nostri
tentativi – di ciascuno di noi e della società – di farlo tacere
sono inutili, perché il cuore, anche in mezzo al rumore
continuo con cui cerchiamo di distrarci, rimane costantemente
lì a gridare che cosa gli corrisponde, e nessuna cosa può farlo
tacere. A volte, poi, la vita ci mette davanti delle persone che
hanno proprio assecondato questo cuore.
Mi ha colpito quest’estate, preparando gli Esercizi dei
Memores Domini, imbattermi nella figura di Maria Maddalena,
il giorno della sua festa. La liturgia della Chiesa, per introdurci
a guardare questa donna, ci metteva davanti un brano di un
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libro dell’Antico Testamento, il Cantico dei Cantici, che descrive
che cos’era la vita per una persona che non voleva vivere inutilmente
− potremmo dire noi oggi −, tanto da assecondare
costantemente l’impeto di compimento che aveva dentro di
sé: «Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amore dell’anima
mia; l’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro
della città per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amore
dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi hanno
incontrata le guardie che fanno la ronda in città [e ho chiesto]:
“Avete visto l’amore dell’anima mia?”» (Ct 3,1-3).
Ascoltando questo brano, mi dicevo: come mi piacerebbe
avere un po’ della passione che vibra in questa donna! Maria
Maddalena ci testimonia, infatti, il cuore che ciascuno di noi
desidererebbe avere nel più profondo del proprio essere, tanto
l’io di ciascuno di noi è questa ricerca di un amore in grado
di reggere davanti alle sfide del vivere. E di sfide, amici, ne abbiamo
eccome, e sono enormi! L’ultima è di oggi stesso:
quanti bambini e ragazzi come voi, insieme a centinaia di
adulti, hanno perso la vita nella tragedia di Lampedusa! Un
fatto così non può non scuotere ciascuno di noi.
Per questo il nostro cuore non smette mai di sentire l’urgenza
di un significato, anche per quello che è accaduto oggi. Perché?
Che senso ha? Tante volte il nostro cuore si sente piccolo, impotente,
per rispondere a queste tragedie. E ci domandiamo:
ma noi abbiamo qualcosa che possa reggere, che possa dare
significato, che possa stare in piedi davanti a circostanze
come queste che ci troviamo ad affrontare?
Proprio nella festa di Maria Maddalena il Vangelo che si
leggeva era quello di Pasqua: «Il primo giorno della settimana,
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Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era
ancora buio». Che cosa ha mosso quella donna a non poter
rimanere a letto e a mettersi in cammino mentre era ancora
buio? Perché l’urgenza che sentiva dentro di sé le impediva di
restare a casa tranquilla. E allora corse al sepolcro, «e vide che
la pietra era stata tolta. Andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo,
quello che Gesù amava, e disse loro: “Hanno portato
via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno
posto!”. Maria stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva».
Anche lei ha dovuto affrontare sfide non piccole; la più
grande che ha dovuto affrontare è quando è morta la persona
più significativa della sua vita, Gesù, che lei aveva seguito con
altre donne per aiutarlo lungo la vita, come dice il Vangelo.
Maria ha dovuto affrontare la Sua morte. Dunque, era normale
per lei piangere, e noi potremmo dire: «Questa è la vita».
Senza trovare una presenza, la presenza amata, ogni mattina
sarebbe una cosa da piangere. Poi possiamo distrarci lungo la
giornata, ma la nostra vita rimane una cosa da piangere, se
ciascuno di noi non incontra l’amore che rende la sua vita
piena di significato, di intensità, di calore.
Ma a questo punto accade l’imprevisto: «Mentre piangeva,
[Maria Maddalena] si chinò verso il sepolcro e vide due
angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e
l’altro dei piedi, dove era stato il corpo di Gesù. Ed essi le
dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno
portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”.
Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non
sapeva che fosse Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi?
Chi cerchi?” [La donna avrebbe potuto rispondere: «Cerco
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l’amore dell’anima mia, cerco la presenza che possa riempire
la vita»; per questo la Chiesa ci introduce alla festa di Maria
Maddalena con quel brano del Cantico dei Cantici che parla
proprio di questa ricerca]. Ella, pensando che fosse il custode
del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi
dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse:
“Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!” – che
significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché
non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e dì
loro: ‘Salgo al Padre mio e Padre vostro’”. Maria di Màgdala
andò [subito] ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!”
e ciò che le aveva detto» (Gv 20,11-18).
In questo brano abbiamo la risposta alle domande che
urgono di più nella nostra vita: come possiamo stare davanti
alle sfide del vivere? Come si fa a vivere davanti alle sfide che
la vita non ci risparmia? Che cosa possiamo fare perché la
nostra vita non sia inutile? Che cosa stiamo a fare al mondo?
È soltanto rispondendo alla prima domanda di Gesù: «Donna,
perché piangi? Chi cerchi?», cioè solo trovando la presenza
che ciascuno cerca, che risponde al pianto, che risponde alla
urgenza di significato, che risponde al desiderio di senso, che
Maria, quando Lo ha trovato, ha avuto subito qualcosa da comunicare,
da andare a dire a tutti gli altri: «Ho visto il Signore!
».
Noi ci troviamo costantemente a dover affrontare queste
sfide. «Quello che sto per raccontarti», mi scrive una di voi,
«si può riassumere in una semplice frase: ho il mal di vivere.
Per capire le ragioni di questo mio malessere ti racconto in
breve quello che è successo l’anno scorso, estate compresa,
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[quando una delle sue migliori amiche è andata via, all’estero].
Io ero inquieta, andavo al raggio e più ci andavo più mi
sembrava di essere accerchiata da una serie di moralisti che
vedevano Dio dappertutto, iniziavo a sentirmi un pesce fuor
d’acqua e quindi ho deciso di allontanarmi dagli amici di Cl,
infatti non sono andata nemmeno in vacanzina estiva. Inizia
l’estate e certo mi sono divertita, ma un divertimento molto
superficiale e che però, per tre mesi interi, ha messo da parte
quel mio mal di vivere che, con l’inizio della scuola, è tornato
[l’inizio della scuola è sempre il test di che cosa abbiamo fatto
durante l’estate; uno può cercare di dimenticarlo, ma la
scuola ritorna, la vita con le sue urgenze ritorna]. I primi
giorni sono stati un trauma, non tanto per il fatto di dover
andare a scuola, ma per il fatto che avevo una tristezza dentro
infinita e un bisogno assurdo di essere voluta bene. [Poi] ho
deciso di andare al raggio. Ed ecco che si parte con una
canzone di Chieffo che descriveva perfettamente la mia situazione,
e io decido di raccontare questa cosa, chiedendo
proprio alle persone, che pochi mesi prima avevo accusato di
essere moralisti, di aiutarmi e di starmi vicino. È stato assurdo,
perché è da qualche giorno ormai che mi sento guardata con
quell’attenzione che io avevo richiesto. Ora, non posso dire di
essere pienamente felice, ma nemmeno pienamente triste».
Queste sfide, insieme al mal di vivere, sono ciò che, come
Maria Maddalena, ciascuno deve affrontare; possiamo cercare
di distrarci per un po’, ma il cuore non molla, col cuore non
si può barare.
Per questo è una grande consolazione per ciascuno di noi
quello che è accaduto a una persona, a una donna sconosciuta
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come Maria Maddalena, perché ci aiuta a capire che non c’è
alcuna condizione preventiva, che non c’è bisogno di essere
all’altezza di niente, che non servono doti particolari per
cercarLo. Addirittura, questa ricerca può trovarsi quasi nascosta
nel profondo del nostro essere, sotto tutti i detriti del nostro
male o della nostra dimenticanza, ma niente può evitarla,
così come nessuno poteva fermare quella donna dal cercare
l’amore dell’anima sua. Per sorprendere in noi stessi questa
tensione non abbiamo bisogno di altro che di quella «moralità
originale», cioè di quella apertura totale, di quella coincidenza
con se stessi fino in fondo, di quella non lontananza da noi
stessi che portava quella donna a dire: «Sul mio letto, lungo la
notte, ho cercato l’amore dell’anima mia». È la stessa apertura
originale che possiamo rintracciare in tanti personaggi del
Vangelo: sono tutti poveracci come noi, ma nessuno può impedire
loro di cercarLo, come Zaccheo, che sale sull’albero
tutto curioso di vedere Gesù, o la Samaritana, tutta assetata e
desiderosa dell’unica acqua che può soddisfare la sua sete.
Davanti a questi personaggi del Vangelo non ci sono alibi:
sono tutti poveracci come noi, ma sono tutti tesi a cercarLo,
sono tutti definiti dalla ricerca di qualcosa, dalla ricerca di
Lui, dalla passione per Lui. È una passione che ci disarma di
tutte le nostre giustificazioni, dietro le quali ci nascondiamo
per non cercarLo. Immaginate che cosa deve essere successo
quando Zaccheo, Matteo, la Maddalena si sono sentiti chiamare
per nome. È di questo che abbiamo bisogno anche noi. «Frequento
l’ultimo anno di liceo. Il weekend successivo ai primi
tre giorni siamo stati insieme con il professore e gli amici, all’inizio
della scuola. Arrivavo da giorni in cui mi alzavo la
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mattina e mi sentivo vuoto. In questo subbuglio, in questa
tempesta, io ho bisogno di un punto fermo. Ora, che mi alzo
al mattino, a cosa mi serve? Io attendo di nuovo e di nuovo
che il Suo volto riemerga». Ma quando c’è un momento di
buio, come tutte le esperienze che avete fatto vi possono
aiutare ancora? Come viene fuori per voi quel Volto ogni
mattina? Come rendere quel Volto sempre più familiare? È
proprio quello che a volte ci capita, come a Maria. Anche
Maria Maddalena aveva visto tanti miracoli, anche lei aveva
visto Gesù fare tante cose strepitose, ma davanti alla Sua
morte piange. Di che cosa ha bisogno? Della stessa cosa di cui
abbiamo bisogno noi: «Attendo che il Suo volto riemerga».
Ed è proprio quello che succede.
UNA PRESENZA CHE CI CHIAMA PER NOME
«Maria!». Come deve avere vibrato tutta l’umanità di Gesù
per poter pronunciare quel nome con un tono, con un
accento, con una intensità, con una familiarità tali che
Maddalena Lo ha riconosciuto subito, quando appena un
istante prima lo aveva confuso con il custode del giardino.
«Maria!». È come se tutta la tenerezza del Mistero che ci ha
fatti arrivasse a quella donna attraverso la vibrazione dell’umanità
di Gesù risorto, adesso senza veli, ma non per questo meno
intensa, anzi, con tutta l’umanità di Gesù risorto vibrante del
fatto che quella donna ci sia. «Maria!». Allora si capisce come
mai in quel momento lei ha capito chi era. Ha potuto capire
chi era perché Lui, Gesù, ha fatto vibrare tutto il suo umano
(di Maria) fino a farle sentire una intensità, una pienezza,
una sovrabbondanza che non aveva potuto mai immaginare
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prima, e che poteva raggiungere solo nel rapporto con Gesù.
Senza di Lui non avrebbe mai potuto sapere chi era né che
cosa poteva essere e diventare la vita, quale intensità e quale
pienezza poteva raggiungere la vita.
Amici, che cos’è il cristianesimo se non la presenza di Gesù
tutta vibrante per il destino di una donna sconosciuta, che le
fa capire che cosa Lui ha portato, che cosa è Lui per la vita?
Che razza di novità è entrata nella storia attraverso la modalità
con cui Cristo lo comunica! Gesù ci ha fatto capire che cos’è
il cristianesimo non facendoci una lezione, non facendo un
elenco delle cose da fare, ma dicendo a una donna: «Maria!».
È questa comunicazione dell’essere, di «più essere», di «più
Maria» che svela a quella donna chi è Gesù. Non è una teoria
o un discorso o una spiegazione, ma è un avvenimento che
ha sconvolto tutti coloro che sono entrati, in un modo o in
un altro, in rapporto con Gesù e che i Vangeli, nella loro semplicità
disarmante, comunicano nella maniera più semplice
che ci sia, semplicemente pronunciando il nome: «Maria!»,
«Zaccheo!», «Matteo!», «Donna, non piangere!». La comunicazione
di sé da parte di Gesù deve essere accaduta in loro
con una potenza tale che ha cambiato loro la vita, al punto di
non potersi più rivolgere a niente, di non potere più guardare
la realtà o guardare se stessi se non investiti da quella Presenza,
da quella voce, da quella intensità con cui era stato pronunciato
il loro nome. Noi lo capiamo quando, volendo bene a qualcuno,
ci sorprendiamo che una tale presenza è decisiva per ciascuno
di noi, per ognuno di noi; pensate, allora, quale novità deve
avere portato Gesù per sconvolgere così potentemente la vita
di coloro che Lo incontravano!
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Si capisce, allora, lo sconvolgimento che percorre ogni
pagina del Vangelo davanti a un’esperienza come quella dell’incontro
con Cristo. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine
a questi racconti e non accusiamo più, tante volte, il contraccolpo;
è già tutto scontato, tutto già saputo! Ma che non sia necessariamente
così lo vediamo quando un uomo come papa Francesco
ci testimonia oggi il suo stupore, per esempio quando,
parlando della sua vita, dice: «La sintesi migliore, quella che
mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa:
“Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”. […] Io
sono uno che è guardato dal Signore» («Intervista a Papa
Francesco», a cura di Antonio Spadaro, La Civiltà Cattolica,
III/2013, p. 451).
Tutto l’avvenimento, la modalità unica di rapportarsi all’altro
di un «Io», Gesù, che entra in rapporto con un «tu», Maria,
facendola diventare se stessa, quel: «Maria!» che sconvolge
quella donna, quello struggimento che l’ha percossa, si vede
nella modalità con cui lei risponde: «Maestro!». Nella essenzialità
con cui racconta i fatti nel Vangelo, san Giovanni scrive: «Ella
si voltò» sentendo pronunciare il suo nome. Questa è la conversione,
altro che moralismo! La conversione è un riconoscimento:
«Maestro!». È la risposta all’amore di Uno che,
dicendo il nostro nome con una intensità affettiva mai vista,
ci fa scoprire di essere noi stessi. RiconoscerLo è la risposta a
questa passione di Uno per lei che ridesta tutta la capacità
affettiva di Maria Maddalena.
È sotto la pressione di questa commozione, di questa
affezione che Maria si rivolge a Gesù con quella passione con
cui gli dice: «Maestro!». La risposta di Maria scaturisce da
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quello sconvolgimento unico che Gesù ha provocato in lei.
Per questo la conversione è altro, tutt’altro che un moralismo,
uno sforzo da compiere, ma è semplicemente la risposta
piena di affezione a Uno che dice il nostro nome, per cui ci si
volta − come la Maddalena − per non perderLo, si aderisce e
non si vorrebbe più andare via da Lui.
Ma questo struggimento che si è sentita addosso quella
donna, che c’era prima nell’umanità di Gesù tutta vibrante di
passione per il destino di quella donna, e che è diventato
carne per comunicarsi attraverso la Sua carne, attraverso la
Sua commozione, attraverso il Suo sguardo, attraverso la Sua
modalità di parlare, attraverso il tono della Sua voce, questa è
la novità, amici, che è entrata nella storia e che oggi, come
ieri, ciascuno di noi aspetta, in fondo in fondo. «L’uomo
d’oggi», diceva don Giussani anni fa, «attende forse inconsapevolmente
l’esperienza dell’incontro con persone per le
quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è
cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo
d’oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale,
quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito,
vengo a casa tua”» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur,
Milano 2003, p. 24).
Questo stesso avvenimento ha investito anche noi che siamo
qui questa sera. Attraverso la persona di don Giussani o di
coloro che lo hanno incontrato, questo avvenimento, l’eco
dell’avvenimento iniziale ci ha raggiunto; è arrivato fino a
noi attraverso la sua umanità e la sua vibrazione per Cristo di
cui noi siamo stati testimoni, tanto è vero che non saremmo
qui se non fossimo stati travolti dal modo con cui lui ci ha
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comunicato Cristo. Diventeremo più consapevoli di cosa ci è
accaduto nell’incontro con don Giussani leggendo la sua
biografia (Vita di don Giussani), che adesso è a nostra disposizione
e che forse avete già cominciato a leggere. È don
Giussani che ha fatto arrivare a noi la vibrazione che raggiunse
Maria, la stessa di allora, non «come» quella di allora, ma
«quella» di allora, la stessa di allora, amici; lo stesso avvenimento
che raggiunse Maria arriva adesso a noi. Ciascuno guardi la
propria esperienza, il proprio incontro con questa diversità
umana che ci ha affascinati, per vedere sorgere proprio da lì
il primo albore del desiderio di appartenere a Cristo. Infatti,
se noi non l’avessimo incontrato in questo modo, non
saremmo qui, perché non c’è un’altra sorgente del desiderio
di appartenere a Cristo, se non l’esperienza di un cristianesimo
vissuto come avvenimento ora dell’incontro con uno che
dice il tuo nome. E solo questo ci è bastato perché ci venisse
una voglia matta di essere «Suoi», di appartenerGli, di non
perderci che cosa significa Cristo per la vita, di non perdere
quella intensità, quella vibrazione e pienezza che introduce
nella vita il rapporto con Gesù. «Che cosa è il cristianesimo»,
diceva don Giussani, «se non l’avvenimento di un uomo
nuovo che per sua natura diventa un protagonista nuovo
sulla scena del mondo?» (Ibidem, p. 23).
LA SUA PRESENZA RILANCIA L’AVVENTURA DELLA CONOSCENZA
È soltanto, quindi, se una Presenza così potente invade la
nostra vita che noi non abbiamo più bisogno di difenderci
dal reale, di difenderci dai colpi delle circostanze per poter
vivere. Ma tante volte siamo talmente feriti dal contraccolpo
delle circostanze (pensiamo a quello che è successo oggi a
Lampedusa) che si blocca il cammino della conoscenza, e
allora tutto diventa veramente soffocante, perché è come se
vedessimo la realtà solo attraverso il buco della nostra ferita.
Come Maria Maddalena, che guardava la realtà attraverso il
suo pianto e non vedeva più altro: neanche riconosce Gesù!
Per questo appare Lui, la chiama per nome e così riapre la
partita, le consente di riconoscerLo, di cominciare a guardare
la realtà diversamente, perché la Sua presenza è più potente
di ogni ferita, di ogni pianto; e allora ci spalanca di nuovo lo
sguardo per poter vedere la realtà nella sua verità. «Fu guardato
[Zaccheo] e allora vide». Come sarebbe diversa la vita, amici,
se ciascuno di noi lasciasse entrare quello sguardo, qualsiasi
fosse la nostra ferita, la nostra difficoltà! Quello di cui abbiamo
bisogno è ciò che abbiamo cantato all’inizio: «Per continuare
a camminare sotto il sole in questi deserti, per riaffermare
che sono vivo in mezzo a tanti morti […] ho bisogno
solamente che tu stia qui con i tuoi occhi chiari [Che tu stia
qui con i tuoi occhi chiari!] […] Per alleggerire questo pesante
fardello dei nostri giorni, questa solitudine che abbiamo tutti
[…] per evitare questa sensazione di perdere tutto […] ho
bisogno solamente che tu stia qui con i tuoi occhi chiari»,
cioè con la Tua presenza.
Per questo don Giussani insiste: Gesù è entrato nella storia
per educarci, per consentirci una conoscenza vera del reale;
perché noi pensiamo di sapere già che cosa sia la realtà, ma
senza di Lui ci assale la paura, come vediamo tante volte, ci
blocchiamo, e quindi soffochiamo nelle circostanze, nello
studio o nei rapporti. Invece con Gesù si riapre tutto, ed è
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come se Lui ci dicesse: «Guardate che io sono venuto, sono
diventato carne, per educarvi al vero rapporto con il reale, a
quell’atteggiamento giusto che vi consente uno sguardo nuovo
sulla realtà». Se noi non facciamo questa esperienza, se cioè la
Sua presenza non è così potente da riaprire costantemente la
partita, se noi non lasciamo entrare costantemente il Suo
sguardo, la Sua presenza, allora viviamo la realtà come tutti,
cioè soffocando in ogni circostanza.
Soltanto se Gesù entra e rende possibile una conoscenza
nuova, noi possiamo introdurre nel mondo una modalità
diversa di stare nella realtà, perché tutte le circostanze ci
vengono date per questo, cioè per provocarci a questa
conoscenza nuova, per vedere che cos’è Gesù: una Presenza
che ci consente di vivere il reale in un modo diverso, nuovo. E
questo ci fa scoprire che tutte le circostanze non sono più una
obiezione, come pensiamo tante volte solo perché non siamo
in grado di vedere l’attrattiva che hanno dentro; siamo
talmente definiti dalla ferita che abbiamo ridotto le circostanze
pensando di sapere già che cosa siano e credendo che non ci
sia niente da scoprire dentro di esse, ma si tratti solo di sopportarle;
pensiamo che resti soltanto il nostro tentativo moralistico
di essere all’altezza di sopportare quel soffocamento
con le nostre forze.
Invece se riaccade una Presenza come quella accaduta alla
Maddalena, il percorso della conoscenza si spalanca di nuovo,
perché noi abbiamo molto di più del «sapere» le risposte
teoriche a tutte le obiezioni e a tutte le sfide; noi abbiamo «la»
risposta, ma la risposta non consiste nell’avere le «istruzioni
per l’uso» per vivere, perché l’istruzione per l’uso è diventata
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carne, è una Presenza, il contenuto è una Presenza, è un Tu, il
Tu di Gesù che ha raggiunto Maria Maddalena. Come vediamo
anche noi quando delle persone che abbiamo accanto rendono
la vita diversa! Per questo possiamo capire che cosa è successo
quando Gesù ha chiamato per nome Maria e lei ha sentito la
Presenza che ha cambiato tutto il suo sguardo. Perché la
verità è questa relazione, come ha scritto papa Francesco al
giornalista Eugenio Scalfari: «La verità, secondo la fede
cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la
verità è una relazione» (Francesco, «Lettera a chi non crede»,
la Repubblica, 11 settembre 2013, p. 2). È così anche per il
bambino, il quale sa di non sapere tante cose, ma una la sa
bene: che ci sono il papà e la mamma che le sanno, e allora
che problema c’è? Se io sono certo di questa Presenza che
invade la mia vita, posso affrontare qualsiasi circostanza,
ferita, obiezione, contraccolpo, qualsiasi difficoltà, perché
tutto questo mi spalanca ad attendere come il Mistero si farà
vivo per suggerirmi una risposta, per accompagnarmi a
entrare ovunque, perfino nel buio.
Che diversità nel modo di stare nella realtà quando uno ha
delle domande, delle questioni aperte, perché allora si alza al
mattino o recita l’Angelus o ascolta un amico o legge il
giornale o va a scuola o incontra gli amici tutto teso a scoprire,
a intercettare qualsiasi briciola di verità che possa venirgli incontro
in qualsiasi occasione! Allora, che cosa può diventare
la vita? Lo dice uno di voi: «Mi aspetta un anno bello tosto,
scolasticamente e non solo. Sono due le urgenze che più
sento in questo periodo, due le cose che più mi premono per
il nuovo anno che è appena incominciato e già mi preoccupa.
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Primo: lo studio. Mi interessa quest’anno godermi lo studio.
È grande il desiderio di stare seriamente davanti al professore
e di studiare bene [non appena per prendere un bel voto, ma
per godersela], per poter scoprire sempre qualcosa di più,
qualcosa che sia interessante per me, qualcosa di me [com’è
diversa la vita, così!]. È possibile una scoperta del genere
anche nello studio ed è stupendo quando accade; è stupendo
quando ti accorgi che anche quella pagina lì, quell’autore lì,
parla di te, è con te. [Ma per parlare di te ed essere con te, tu
devi esserci, devi prendere sul serio il tuo cuore, devi essere lì,
presente con tutte le tue esigenze, perché quella pagina, quell’autore,
sta parlando con te!] La scuola può essere affascinante
e io desidero ardentemente viverla con gli occhi aperti e
curiosi per scoprirla e scoprirmi sempre di più. Allora il
problema è la mia fragilità, la mia debolezza, la mia incapacità;
cado subito. Il desiderio è grande, ma cado subito. Come può
il mio desiderio avere la meglio sulla stanchezza, sulla noia
[su questo decadere], che sembrano molto più forti?».
«CAMMINARE È UN’ARTE»
Guardate che cosa vi risponde il Papa: «Camminare è
un’arte», diceva agli studenti delle scuole dei gesuiti, «perché,
se camminiamo sempre in fretta, ci stanchiamo e non possiamo
arrivare alla fine, alla fine del cammino. Invece, se ci fermiamo
e non camminiamo, neppure arriviamo alla fine. Camminare
è proprio l’arte di guardare l’orizzonte, pensare dove io voglio
andare, ma anche sopportare la stanchezza del cammino. E
tante volte, il cammino è difficile, non è facile. “Io voglio
restare fedele a questo cammino, ma non è facile, senti: c’è il
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buio, ci sono giornate di buio, anche giornate di fallimento,
anche qualche giornata di caduta… uno cade, cade…”. Ma
pensate sempre a questo [ci dice il Papa]: non avere paura dei
fallimenti; non avere paura delle cadute. Nell’arte di camminare,
quello che importa non è di non cadere [che è ciò che ci
blocca, che ci scandalizza], ma di non “rimanere caduti”.
Alzarsi presto, subito, e continuare ad andare. E questo è
bello: questo è lavorare tutti i giorni, questo è camminare
umanamente. Ma anche: è brutto camminare da soli, brutto
e noioso. Camminare in comunità, con gli amici, con quelli
che ci vogliono bene: questo ci aiuta, ci aiuta ad arrivare
proprio alla meta a cui noi dobbiamo arrivare» (Francesco,
Discorso agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e
Albania, 7 giugno 2013).
Per questo non spaventatevi della vostra fragilità, anche i
bambini sono fragili, ma non si stancano mai di alzarsi, di
mettersi di nuovo in cammino; zoppicanti, ma sempre in
lotta, sempre in cammino. E allora tutto diventa interessante.
«Anch’io», dice un altro di voi, «voglio scoprire quella bellezza
con la B maiuscola che vedo emergere dalle persone, voglio
stare di fronte alle domande, all’ideale continuo di miglioramento.
È possibile? È possibile diventare sempre di più una
sola cosa con Cristo?», che Cristo diventi così una sola cosa
che ci accompagni nel cammino? «Voglio che la Sua presenza
entri definitivamente in me e io diventi una sola cosa con
Lui». È possibile? Sì, è possibile, nel tempo. Non è una cosa
istantanea, non è una cosa magica, come accade anche nei
rapporti: i rapporti chiedono del tempo per crescere; diversamente,
non sarebbe umano.
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La familiarità con Gesù cresce nel tempo. E come può
crescere? Usando tutto quello che accade in funzione di
questa familiarità. Che ogni circostanza sia l’occasione per
un rapporto con Lui, come ci ha detto ancora il Papa a Rio:
quando dobbiamo affrontare delle difficoltà, delle sfide nella
vita, noi «in chi riponiamo la nostra fiducia?», si domanda il
Papa. E continua: «In noi stessi, nelle cose, o in Gesù? [È a
questa domanda che ciascuno deve rispondere in ogni occasione].
Tutti abbiamo spesso la tentazione di metterci al
centro, di credere che siamo l’asse dell’universo, di credere
che siamo solo noi a costruire la nostra vita o di pensare che
essa sia resa felice dal possedere, dai soldi, dal potere. Ma tutti
sappiamo che non è così! Certo l’avere, il denaro, il potere
possono dare un momento di ebbrezza, l’illusione di essere
felici, ma, alla fine, sono essi che ci possiedono e ci spingono
ad avere sempre di più, a non essere mai sazi. E finiamo
“riempiti”, ma non nutriti, ed è molto triste vedere una
gioventù “riempita”, ma debole. […] “Metti Cristo” nella tua
vita, metti in Lui la tua fiducia e non sarai mai deluso! [Vuoi
crescere nella familiarità con Lui? Metti Cristo nella tua vita,
perché è solo così che potrai verificare chi è Cristo, potrai
raggiungere una certezza su Cristo, potrai vedere se puoi diventare
una sola cosa con Lui]. Vedete cari amici, la fede
compie nella nostra vita una rivoluzione che potremmo chiamare
copernicana: ci toglie dal centro e mette al centro Dio;
la fede ci immerge nel suo amore che ci dà sicurezza, forza,
speranza. Apparentemente sembra che non cambi nulla, ma
nel più profondo di noi stessi cambia tutto. Quando c’è Dio,
nel nostro cuore dimora la pace, la dolcezza, la tenerezza, il
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coraggio, la serenità e la gioia» (Francesco, Omelia alla festa di
accoglienza dei giovani, Rio de Janeiro, Brasile, 25 luglio 2013).
E di recente, a Cagliari, papa Francesco diceva: «Un giovane
senza speranza […] è invecchiato troppo presto! […] [Ci
sono tanti] mercanti di morte […] che […] ti offrono una
strada per quando voi siete tristi». La vera sfida è «fidarsi di
Gesù. […] Io non vengo a vendervi un’illusione [ha detto il
Papa ai giovani]. Io vengo qui a dire: c’è una Persona che può
portarti avanti: fidati di Lui! È Gesù! Fidati di Gesù! E Gesù
non è un’illusione! Fidarsi di Gesù. Il Signore è sempre con
noi» (Francesco, Discorso per l’incontro con i giovani, Cagliari,
22 settembre 2013). Voi volete crescere in questa familiarità?
Fidatevi di Gesù, entrate nel reale con Lui, perché è questo
che ci rende sempre presenti al reale, che ci rende attenti a
tutto quello che accade.
«Di che cosa ho bisogno?», si domanda una di voi; «avere in
mente questa domanda mi ha aiutato a vivere ogni circostanza
e mi sono stupita di come ero attenta», perché solo quando
abbiamo domande, amici, siamo attenti. «Io desidero essere
attenta in ogni istante». Solo se noi lasciamo aperte le domande,
solo se non rifiutiamo le sfide, possiamo intercettare una
risposta in tutto quello che ci capita nella vita. Per questo il
nostro è un cammino umanissimo, non è fatto di allucinazioni
o di «visioni», ma è la partecipazione a un’avventura affascinante
di conoscenza, che ci fa scoprire sempre di più l’attrattiva che
c’è dentro qualsiasi limite, dentro qualsiasi difficoltà, perché
qualsiasi obiezione o qualsiasi circostanza, pur dolorosa, ha
sempre dentro qualcosa di vero. È quello che abbiamo bisogno
di scoprire. Per questo occorre cercare. «Per due anni», dice
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sempre uno di voi, «euforico, spensierato, rabbioso, ho cercato
coscientemente e incoscientemente qualcosa di esistenziale
per la mia vita, che mi sembrava di avere smarrito irrimediabilmente.
Tuttavia quel che ho guadagnato in questa confusione
continua è stata una tristezza di fondo, che mai mi ha abbandonato,
e la consapevolezza terribile di aver perso me stesso
ogni giorno di più, di aver perso la vita vivendo, come direbbe
Eliot. Noi, invece, come dice Chesterton, noi tutti abbiamo
bisogno di essere trovati. Io per due anni ero affannato, non
mi ero mosso. Solo ora sono stato rigenerato quando, tornando
in comunità, vivendo l’incontro con Gesù attraverso la compagnia
degli amici, mi sono sentito strappare dalla confusione
degli ultimi anni e sono stato restituito a me stesso [Gesù è
entrato nella storia, amici, per restituirci a noi stessi!]. E ti
dico “Gesù”, perché nel rapporto con l’amico professore e in
quello con altri amici conosciuti durante l’estate sono rimasto
tanto stupito dal loro modo di stare nel mondo, libero, appassionato,
vivo, che non ho potuto che sorprendere in quei
volti qualcosa di più che umano; un “più che umano” [cioè il
divino], passava dentro e attraverso la vita di quegli uomini».
Solo così Gesù si rende presente, continua a chiamarci per
nome e continua a farci compagnia nella vita affinché possiamo
vivere questa avventura senza essere risucchiati dalle circostanze
− qualunque esse siano −, senza perdere l’attrattiva del vivere.
È solo così che possiamo non perdere la vita e non vivere inutilmente.
Buona avventura, amici!

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