venerdì 6 marzo 2015

"Comunione e Liberazione? Non l'ha fondata don Giussani..."

Il portavoce del movimento Alberto Savorana racconta la vita e la personalità del sacerdote brianzolo, cui ha dedicato una biografia

Avendo trascorso almeno vent’anni al suo fianco, Alberto Savorana è la vera memoria storica di don Luigi Giussani. Al punto che proprio a lui è stata affidata la prima vera e propria biografia documentata del fondatore di Comunione e Liberazione.
A colloquio con ZENIT, Savorana, giornalista professionista, responsabile dell’ufficio stampa di CL, già direttore del mensileTracce, organo ufficiale del movimento, ha raccontato sia la sua esperienza diretta a contatto con don Giussani, sia gli episodi salienti poi riportati nel libro Vita di don Giussani (Rizzoli, 2013), recentemente rilanciato in occasione del decennale della morte.
Dottor Savorana, come ha avuto origine la biografia Vita di don Giussani, da lei curata?
La cosa curiosa è che, in realtà, quando don Giussani morì, avevo promesso a me stesso che non avrei mai scritto libri su di lui. Tre anni dopo, però, nel 2008, fu don Julián Carrón a chiedermi di realizzare una biografia documentata: pur non essendo io uno storico e pur non avendo mai scritto un libro prima, di fronte alla richiesta del successore di don Giussani, capii che c’era di mezzo qualcosa di misterioso e non potei dire di no. Mi sono messo quindi ad attingere a tutte le fonti possibili, catalogandole anno per anno: il seminario di Venegono, il liceo Berchet, la curia di Milano, l’archivio dei familiari. Essere stato suo stretto collaboratore, indubbiamente, mi ha avvantaggiato molto. Più andavo avanti nella mia raccolta di documenti, più scoprivo molti fatti della vita di don Giussani che lui stesso aveva raccontato nel corso degli anni.
Scoprii anche di quando, all’età di 13 anni, mentre è studente in seminario, viene colpito da una crisi esistenziale (che si riscontra anche dal suo rendimento scolastico, più basso del solito) e si mette a leggere tutto Leopardi. Le domande esistenziali di questo poeta gli sembravano oscurare tutte le altre e Leopardi, come don Giussani stesso scrive, diventerà “il compagno più suggestivo del mio itinerario religioso”.
Don Giussani è stato un testimone del secolo passato. Come visse alcuni passaggi epocali, come, ad esempio, il ’68?
Don Giussani soffrì il passaggio di molti membri dell’allora Gioventù Studentesca al Movimento Studentesco e fu lungimirante nella comprensione del fenomeno. Il 19 novembre 1967, appena due giorni dopo l’occupazione della Cattolica da parte del gruppo di Mario Capanna, si rivolse così agli studenti: “L’intelligenza della situazione ci è mancata perché Dio non Lo attendiamo giorno e notte”, per cui l’impegno “è stato generoso, ma quanto vero?”. Don Giussani capì che era necessario ripartire in qualche modo. Adesso, però, a differenza dei tempi del Berchet, non era più possibile partire da un discorso sulla tradizione, contro la quale i giovani si erano schierati. Solo un incontro con qualcosa di presente poteva rendere di nuovo attuale quella tradizione, Perciò, senza alcun tono consolatorio, ai pochi che erano rimasti con lui, don Giussani domandò: “Vi interessa ripartire da Cristo?”.
È vero che l’arcivescovo di Milano, Giovanni Colombo, chiese a don Giussani di sciogliere Gioventù Studentesca?
Don Giussani era stato allievo in seminario di Colombo, il quale lo considerava come un figlio. Già nei primi anni ’60, la situazione era però molto cambiata, con gruppi che stavano prendendo una deriva secolarizzante; la FUCI milanese, in particolare, avrebbe voluto in un certo senso assorbire al suo interno i membri di Gioventù Studentesca approdati all’università. In realtà il cardinale Colombo non chiese mai a don Giussani di sciogliere Gioventù Studentesca. È vero, però, che don Giussani disse a Colombo che se lui glielo avesse chiesto, assumendosi la responsabilità davanti a Dio di quella richiesta, lui avrebbe sciolto immediatamente il movimento, perché, a suo avviso, l’obbedienza al vescovo valeva più delle sue ragioni. Ma aggiunse: “Eminenza, se Lei mi lascia libero, io seguo la mia coscienza e la mia coscienza mi suggerisce di continuare”.
Quand’è che poi nasce Comunione e Liberazione propriamente detta?
Nel novembre 1969, un gruppo di studenti della Statale, che erano rimasti in amicizia con don Giussani, avevano distribuito un volantino firmato come “quelli della lettera a Diogneto” e intitolato Comunione e liberazione. Seguirono altri volantini, finché il gruppo studentesco iniziò ad essere identificato come “quelli di Comunione e liberazione”. Un giorno, entrando in uno dei locali frequentati da questi studenti, in via Ariosto a Milano, don Giussani vede quel volantino appeso, con riferimento al nome scelto da quelli della Statale, e dice: “Ecco, noi siamo il nome che si sono dati gli universitari, perché comunione è liberazione”. È lui che si mette a seguire quello che è accaduto in quei ragazzi. Quando, anni dopo, scrisse a Giovanni Paolo II: “Non ho mai inteso fondare nulla”, non era finta modestia la sua, ma una presa d’atto della realtà. In qualche modo, quindi, CL accade e don Giussani la segue.
Come viveva l’impegno politico don Giussani?
Lo considerava la conseguenza di una “fede matura”. Per don Giussani, o la fede investe tutta la vita o non sussiste. Se Dio non c’entra con qualsiasi cosa, compresi il bere o il mangiare, se qualcosa gli sfugge, quello non è più Dio. In questo senso, diceva che la vita stessa della comunità cristiana aveva un valore politico, cioè pubblico.
Don Giussani era figlio di un socialista che, a Desio, una delle prime città industriali della Brianza, portava avanti lotte sociali. Divenne poi cattolico, vedendo il figlio entrare in seminario. Per questo don Giussani sentiva sulla sua pelle il senso del lavoro, della giustizia, della dignità degli operai. La madre era operaia tessile e faceva sacrifici per pagare gli studi del figlio in seminario. Don Giussani è quindi cresciuto con questa sensibilità verso i problemi sociali, ma non ha mai identificato la politica come scopo del movimento.
E quando, a metà degli anni ’70, la CEI gli chiese di impegnare pubblicamente in politica il movimento, don Giussani non fu d’accordo ma obbedì. Voleva che tra CL e ciellini impegnati in politica ci fosse una “irrevocabile distanza critica”, come dichiarò alla fine del 1975. Il suo obiettivo era quello di educare alla fede. Aveva capito che, se non era vissuto con serietà, precisione e attenzione, il movimento rischiava di diventare un “piedistallo” per iniziative personali che potevano anche distruggere tutto.
Nella nostra storia abbiamo pensato che fosse “vincente” conquistare degli spazi. Ma fin dall’inizio don Giussani intravedeva questa deriva: non diceva certo che la politica è una cosa sporca, ma sollecitava ad approfondire la fede, per prevenire meccanismi che ci avrebbero fatto perdere per strada il dono ricevuto. E proprio la guida di don Carrón ci ha aiutato a comprendere che il nostro scopo è quello di iniziare dei processi, di vivere un’esperienza di umanità cambiata dall’incontro con Cristo nella vita della Chiesa.
Il grande sviluppo che Comunione e Liberazione ha conosciuto in sessant’anni in tutti i campi dell’agire umano; è qualcosa che, in qualche modo, don Giussani aveva previsto o auspicato?
In parte sì, in parte no. La risposta è affermativa se teniamo conto che, se la fede non c’entra con tutta la vita, non è fede cristiana. Don Giussani educava gli uomini a mettersi in condizione di vivere, poiché gli uomini non vivono di aria o di speculazioni astratte, ma lavorano, si sposano, fanno figli, passano difficoltà economiche, soffrono. In un certo senso, don Giussani aveva previsto questa diffusione, che è avvenuta da persona a persona, perché il suo desiderio era quello di educare persone in grado di vivere nel mondo in qualunque circostanza.
La risposta è negativa, nel senso che nessuna delle opere nate da persone del movimento è stata mai ‘programmata’. Faccio un esempio: la Compagnia delle Opere nacque a metà degli anni ’80, quando un gruppo di giovani laureati alla Cattolica, tra cui Giorgio Vittadini, vennero sollecitati dal fondatore ad aiutare gli amici di Alcamo che producevano il vino, ma non riuscivano a venderlo. Fare il vino in Sicilia a metà anni ’80, con la mafia e la corruzione, era un’occasione di riscatto, per affermare la propria dignità. Nasce così in quei giovani l’idea di mettere in dialogo tutte queste esperienze. Ma Giussani non disse mai: “Dovete fare la CdO”.
Don Giussani è stato molto innovativo per quanto riguarda il linguaggio…
Più che innovare il linguaggio, don Giussani prendeva parole del linguaggio comune restituendo loro il significato originale. Quando parla di incontro, don Giussani non intende unmeeting di venditori di un prodotto commerciale, ma qualcosa di decisivo nella vita dell’uomo. Per avvenimento, don Giussani intende Giovanni e Andrea che incontrano Gesù lungo la riva del Giordano, non un happening o una festa di fine anno. Il problema è che noi siamo abituati a un linguaggio che ha impoverito queste parole. Il linguaggio di don Giussani può risultare ostico a qualcuno, non perché non abbia una cultura adeguata ma perché gli manca un’esperienza adeguata di quelle parole. Per don Giussani, le parole descrivono un’esperienza: se non ho fatto quell’esperienza, quelle parole possono risultarmi difficili, se non incomprensibili. Per questo don Giussani, per spiegare cosa fosse un avvenimento, suggeriva di rintracciare nella propria esperienza qualcosa di analogo: l’avvenimento di Cristo prende l’uomo, come l’amata prende l’amato. Per analogia uno può ritrovare in sé qualcosa di quell’esperienza, comunicando con quella parola una conquista già avvenuta nella propria vita. Come dice papa Francesco nella Evangelii gaudium, il cristianesimo è “una risposta che scende nel più profondo dell’essere umano. Tale convinzione, tuttavia, si sostiene con l’esperienza personale, costantemente rinnovata, convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni”.



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