martedì 31 marzo 2015

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón Milano, 25 marzo 2015

Luigi Giussani, Perché la Chiesa
Testo di riferimento: L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2014, pp. 35-75.
 •Inno delle scolte di Assisi
• Negra sombra
Tanti anni fa, in un giorno come oggi, è cominciata quella irruzione nella storia che rende possibile all’uomo essere unito. Occorre la semplicità di cuore della Madonna per poter vedere che questo è possibile, che tutto diventa pieno della Sua presenza. Angelus Ci eravamo dati come testo di lavoro il terzo capitolo di Perché la Chiesa, dove don Giussani ci aiuta a capire qual è l’origine della nostra fatica a comprendere il significato delle parole cristiane, offrendoci un’ipotesi. Come mai facciamo questa fatica? Come mai sentiamo tante volte questa estraneità? L’origine è una «mancanza di sintonia originale» (p. 35) con ciò che vogliamo conoscere. E fa l’esempio degli alpinisti che sono già stanchi prima di iniziare la scalata. Per questo, per il fatto di essere nati in una situazione storica così, che pazienza ci vuole per accettare di fare una strada che ci consenta di non gettare la spugna dicendo: «Non è possibile»! Nel frattempo c’è stato l’evento di Roma, l’incontro con papa Francesco, al quale tutti noi abbiamo partecipato, in un modo o in un altro – la maggioranza di noi era presente in piazza –. Avendovi partecipato, avendone fatto esperienza, ciascuno ha la possibilità di vedere che cosa è successo. Un gesto così non ci distoglie dalla Scuola di comunità, anzi, diventa un test per capire in che modo ci ha fatto vincere l’estraneità di cui parla don Giussani. Non è che da una parte vada la Scuola di comunità e dall’altra il gesto di Roma, come se niente fosse. Cominciamo il nostro lavoro. Mi si è reso un po’ più chiaro cosa vuol dire il crollo delle evidenze, nel senso che per me questa espressione assume quotidianamente il significato di perdere di vista la verità delle cose, perdere di vista il punto. Di fronte a quel che mi succede ogni giorno, corro un po’ il rischio di far prevalere una mia interpretazione dei fatti filtrata dal sentimento, dall’umore, da ciò che penso, al punto tale di non sapere più tanto distinguere la verità delle cose nella loro concretezza dalla mia interpretazione. Com’è che mi accorgo di questo caos? Il più delle volte non sono contenta, le cose non mi tornano. Allora, il mio interesse non è avere ragione o avere una conferma di ciò che penso, ma è trovare qualcosa che mi salvi, perché le cose, come le vedo io, non sono abbastanza. A questo proposito, mi tornava alla mente la canzone di Chieffo: «Ma che amarezza, amore mio, / vedere le cose come vedo io». Cioè: non bastano. Quindi la mia domanda è: come si può uscire da questo equivoco? Perché io non posso certo rinunciare a quel contraccolpo che le cose suscitano inevitabilmente in me, però mi accorgo che il più delle volte il mio giudizio è limitato e non tiene conto di tutto. Il gesto di Roma ti ha dato qualche contributo, qualche suggerimento, hai fatto una qualche esperienza che ti ha aiutato a capire che cosa ti fa uscire da questo equivoco? Sì: che ci sia un punto oggettivo che posso tornare a guardare. E qual è il punto oggettivo a cui poter guardare per non restare intrappolata di nuovo nella valanga delle interpretazioni? Nel caso di Roma è stato evidente, perché eravamo di fronte al Papa che ci ha indicato… Ma non basta, perché tanti hanno partecipato e ciascuno ha pensato la sua. Se neanche un gesto così importante ci salva dalle interpretazioni, che cosa occorre? Tu guarda che cosa ti è successo, perché questo è ciò che ci aiuta a capire. 2 Io ho riletto il capitolo della Scuola di comunità con una domanda forse un po’ diversa. È un capitolo che conosco abbastanza bene, per avervi attinto tante volte per la comprensione del nostro contesto culturale; ma in queste settimane l’ho riletto con una domanda più personale, che esprimerei così: ho cercato di capire dove e come si insinua in me quella emarginazione di Dio dalla vita che segna il passaggio dal medioevo – dice il capitolo: Dio c’entra con tutto – all’epoca moderna, caratterizzata dalla difficoltà di considerare il religioso determinante di tutto. La domanda è: dove la vedo questa alternativa in me e in noi, che magari andiamo a messa tutti i giorni, che iniziamo i pasti con un segno della croce eccetera, che abbiamo mille richiami? Mi pare che esistenzialmente nella mia vita si insinui un vero e proprio ateismo pratico, mai teorizzato, quando il mio rapporto con la realtà e con le persone è governato da una mia progettualità, anziché essere vissuto come una risposta a qualche cosa che accade. Vedo proprio un’alternativa netta nella mia vita tra pensare al mio tempo e alla mia azione come progetto o come risposta. È il progetto che tende a elidere completamente il Mistero, perché in fin dei conti sovrappone alla realtà, e soprattutto alle persone, qualcosa che nelle mie intenzioni può essere anche buono, ma che forza i dati del reale (si sente una stonatura) e la libertà delle persone. Questo per me è il sintomo forse più grande della mia lontananza dal Mistero, che rivela una concezione di me autosufficiente, presuntuosa, tesa alla riuscita e al successo non soltanto negli ambiti professionali o di relazione, ma persino, paradossalmente, nell’ambito religioso. Tante volte ho sorpreso in me che questo progetto arriva fino al paradosso di cercare di immaginare come fare accadere il miracolo o qualcosa che salvi qualcuno che mi sta a cuore. Questo progetto è inevitabilmente e inesorabilmente, nella mia vita, la fonte più grande di amarezza e di risentimento, o almeno di delusione. Quando vedo una alternativa completamente diversa, noto sempre che sono giornate o momenti tesi a cogliere e ad assecondare i segni di ciò che accade, a seguirli, magari con entusiasmo, slancio, anche con una certa audacia. È seguire qualche cosa che è accaduto prima. In fondo, quando è così mi rendo conto che domina uno sguardo teso a cogliere una Presenza che so che c’è. E questa alternativa tra il progetto e la risposta, tra progetto e segno, non è solo dei momenti grandi della vita, io mi accorgo che si insinua proprio in tutte le pieghe del quotidiano, nel lavoro, nei rapporti in famiglia, con gli amici, come pensi alle vacanze, come prendi una decisione anche banale; e vedo che in questa alternativa si gioca tutta la possibilità di letizia e di fecondità. Mi pare che forse l’alleato più grande nel richiamarmi a quella posizione che so più promettente è, paradossalmente, ciò che mai vorrei percepire, cioè una coscienza bruciante del mio limite e oso dire anche – lo oso dire perché l’ha detto il Papa – del mio male. Perché? Perché mi riporta in me stessa, mi riporta a uno sguardo reale su di me, e non a una proiezione o un’immagine che io inseguo di me stessa; perché nel mio vero io c’è questa esperienza del limite e del male. Come ti ha aiutato questo a vivere il gesto di Roma? Questo è stato per me il punto assolutamente decisivo. Perché devo dire che sono arrivata con dentro proprio la percezione di un’inadeguatezza particolarmente acuta. E a fronte di questo, sentire il Papa parlare come ha parlato della misericordia e del peccato – se non sbaglio ha detto: luogo privilegiato dell’incontro – è stata una cosa che mi ha letteralmente rispalancata a un desiderio ampio e riaperta a tendere e a cercare quel che lì ho trovato come particolarmente corrispondente. Ti ho scritto perché ne ho sentito veramente il bisogno, e lo sento ancora davvero tanto. E questo è già un punto che per me non è scontato, perché ultimamente, potrei dire da dopo Natale, mi sento molto bloccato sulle cose e dalle cose, da ciò che faccio e da ciò che mi capita. Mi sembra di non avere più esigenze, più sete, più fame, di vivere insipidamente una vita che di per sé insipida non è, ma di non sentire la necessità del sale. Il mio stare di fronte alla realtà lo sento mancante, non è fruttuoso, a volte non è vero. O è violento, cioè cerca di prendersi quanto più con tutti i mezzi, 3 oppure è vuoto. Mi sembra che nulla riesca più a commuovermi. Nel terzo capitolo, al terzo paragrafo, terzo punto, si parla dell’umanista e della sua concezione di un Dio che non c’entra più con la totalità del reale. Cito: «L’interesse per cui vale la pena vivere non ha più a che fare con Dio, poiché non è [più in Lui] […] che sono unificati desideri e giudizi» (p. 48). Quando ho letto questo ho sussultato perché è esattamente quel che sto diventando. E questa è la posizione che fa subentrare la parzialità del reale, con la conseguente disarticolazione e l’astrazione di Dio. Posso quindi affermare che è decisamente la mia descrizione. Io arrivavo carico di ciò che era stato per me il Natale, con i gesti a cui avevo preso parte, le cose che avevo fatto, e vivere in maniera grande e viva l’Incarnazione mi aveva reso davvero pieno e grato. Poi però tutto questo è come scemato. Mi accorgevo che quella pienezza così vera e grande non si ripercuoteva più. Di tutte le cose che vivevo non trattenevo più nulla, sia nel bene che nel male, mi lasciavo vivere dalle cose che facevo, mi lascio vivere ancora dalle cose che faccio. Poi l’altro giorno stavo parlando con un sacerdote che mi diceva: «Guarda che tutto questo è riconducibile al fatto che tu hai perduto il punto focale, il centro, hai perduto l’amore inteso come oggetto dell’amare». È vero, io non ho più un centro, un qualcosa per cui valga la pena vivere le cose che faccio. E ho scoperto, soprattutto dopo Natale, che il fare le cose per qualcuno è la chiave per godersi veramente le cose. E questa mancanza mi manda fuori carreggiata. Perciò la domanda radicale che voglio farti è questa: come faccio io, debole come sono, a rimettermi al punto? Come posso ritornare a dire: per me vivere è Cristo? Sono arciconvinto che in questo modo si viva meglio e con il centuplo in tasca. Ma questo mio “umanesimo” di cui parla la Scuola di comunità non mi abbandona, oppure sono io che non lo voglio abbandonare. E tu hai qualcosa nella tua esperienza che ti dà qualche suggerimento per rispondere alla tua domanda? Ci sono stati tanti momenti, davvero tantissimi, in cui ero più come a Natale, ero pieno, ero grato. E mi dicevo: ho trovato quel che cercavo, anzi, ho trovato quel che cerco. Però era una cosa, non dico passeggera… A volte, poi, andavo fuori carreggiata perché ero in me e pensavo a me. E questo che cosa ti fa capire di te? Che io ho bisogno sempre di un punto. È questo che ci stupisce! Perché tante volte pensiamo che l’incontro cristiano sistemi tutto una volta per tutte, e poi uno si trova davanti, di nuovo – come dici –, a un insieme di pezzi che non riesce a comporre in unità. Esatto. Perché accade questa scomposizione? Succede per una mancanza di impegno con il reale. E prendo un pezzo che mi ha sorpreso leggendo il capitolo: «L’origine di quell’affievolimento di una mentalità organica per quanto riguarda il problema religioso pesca in una possibilità permanente dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza di impegno autentico, di interesse e di curiosità al reale totale» (p. 44). E poco prima diceva: «La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi. Il problema è l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri provocanti. E il significato della vita – o delle cose pertinenti e importanti della vita – è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita stessa» (p. 43). Quindi è proprio una mancanza di impegno con il reale. E questo è ciò che sorprendo – primo – nel mio agire, nella realtà. Ma è ciò che sorprendo, incredibilmente, soprattutto con la caritativa che facciamo – aiutiamo le persone a trovare lavoro –, perché una persona che perde il lavoro, prima ancora della drammaticità gigante che è la mancanza dello stipendio, perde questo nesso con il reale, questo impegno con il reale. E questo non lo fa più muovere, tant’è che il primo aiuto è rimetterlo in nesso con il reale, a lavorare piuttosto gratis mezza giornata. Abbiamo incontrato un ragazzo (ventuno anni), un mesetto fa, disoccupato da sei mesi. Era bloccato, fermo. Io gli dico: «Guarda, dobbiamo ritornare a impegnarci con la realtà, perché se non ci impegniamo non ci muoviamo più». E mi dice: «Hai ragione! Perché io ho una 4 passione incredibile per la musica, compongo e suono la musica, ma da quando sono disoccupato, e ho tutto il tempo a mia disposizione, non compongo e non suono più». Ci siamo risentiti dopo tre settimane, l’ho richiamato per sapere come stava, e mi ha detto: «Ho trovato lavoro. Ho ripreso a suonare». Tu mi avevi raccontato anche di quel muratore che non poteva non lavorare. Era successo un putiferio nella ditta, per cui i lavoratori non venivano pagati, e allora mentre tutti gli altri facevano sciopero c’era uno che, dopo quel che gli era capitato incontrando voi, continuava a lavorare. E così per giorni. Finché arriva a un punto del lavoro per il quale non aveva le competenze tecniche, allora va da un suo collega esperto (che scioperava insieme a tutti gli altri) per chiedere consiglio. E questo gli dice: «Fammi capire, ma tu perché lavori?». «A me è successo qualcosa per cui non posso più non lavorare, non posso star qui senza fare un cavolo. Tu mi puoi aiutare a risolvere questa questione tecnica?». Il dialogo finisce lì. Il giorno dopo il muratore arriva a lavorare come al solito, e trova questo suo collega esperto che comincia a lavorare con lui dicendo: «Mai in quarant’anni sono venuto a lavorare così contento!». Che cosa unisce e ridesta così un io? Non uno sforzo titanico, ma quel che ci ha detto il Papa a Roma – di cui dobbiamo fare tesoro per cominciare a capire ciò che succede –: la morale non è frutto di uno sforzo, ma la risposta commossa a qualcosa che succede. Immaginate: che cosa ha scatenato nel collega che non lavorava questo impegno curioso con la realtà? Vedere uno che lavorava. Immaginate che lotta interiore tutti quei giorni, davanti a uno che lavorava malgrado lo sciopero: «E questo qua?», «E questo qua?», «E questo qua?». È questo impegno curioso con il reale che, a un certo punto, gli ha fatto dire: «Ma spiegami una cosa: come mai tu continui a lavorare?». E l’altro non può non dirgli che cosa gli è capitato nell’incontro con Cristo, per farlo risvegliare e poterlo accompagnare in quell’impegno con il reale totale, affinché la vita possa diventare così piena. Questa unità nasce proprio a questo livello. Perciò occorre aver presente tutti i fattori per poter scoprire davanti ai nostri occhi da dove viene questa possibilità di unità dell’io che tutti vogliamo. Allora, veramente, possiamo cominciare a capire, perché questo è un desiderio di tutti, non occorre, come a volte pensiamo, forzare le persone. Mi scriveva una persona che, a volte, le viene voglia, quando qualcuno non percepisce come lei la verità delle cose, di piegare la libertà dell’altro: «La libertà dell’altro a volte non l’amo, vorrei piegarla davanti a ciò che percepisco come vero. Come si può amare l’altro per quel che è anche quando non riconosce come vero ciò che è vero per me e amare la verità tutta intera?». Come si può sfidare la libertà dell’altro senza piegarla? Ho in mente un ragazzo del primo anno che studia nella mia stessa università, viene dalla Sicilia come me, io sono al quarto anno qui a Milano. Mentre studiavamo insieme mi ha un po’ raccontato come stava vivendo; in particolare, faceva fatica perché ha tutti i familiari e gli amici giù in Sicilia, e abita in un appartamento con altri ragazzi; non si parlano, con uno hanno litigato. Nel rapporto con noi – abbiamo studiato, abbiamo mangiato, siamo stati insieme – piano piano ha incominciato a cambiare: si sorprendeva di tutto, si sorprendeva di come noi mangiamo, di come studiamo, di come stiamo insieme. Allora, dopo un po’, io gli ho detto: «Vuoi venire a Roma con noi dal Papa?». Subito mi ha risposto di sì. Mentre eravamo in viaggio in pullman mi ha detto: «Guarda, ti devo raccontare una cosa che mi è successa ieri [l’avevo invitato ed era venuto alla Scuola di comunità]. Io per come vi ho visto vivere in questo periodo, per come mi sono gustato l’esame stando con voi… Io conosco bene solo te, però è come se tutti mi volessero bene, mi sento accolto come in una famiglia, mai ho visto una cosa così. Per come ho visto stare insieme voi, il giorno dopo la Scuola di comunità, la sera, sono tornato a casa e ho aspettato il tizio con cui avevo litigato per chiedergli come stava. Nel frigorifero ciascuno ha il proprio compartimento con le cose proprie. Avevo un pezzo di salmone che stava scadendo, allora mi sono detto: quasi quasi lo condivido con lui». E si sono messi a mangiare insieme uno di fronte all’altro, per la prima volta. Quando siamo arrivati in piazza, prima ancora che parlasse il Papa, quando nel video il Gius ha parlato di Andrea che torna a casa, mi sono messo a piangere perché vedendo questo amico ho pensato: la stessa cosa che è successa duemila anni fa è successa a me e a lui. Quando il Gius ha 5 detto: «Senza troppe sottigliezze questo è accaduto», mi è tornato alla mente l’episodio che ti ho appena raccontato: la stessa casa, gli stessi ragazzi, però lui è tornato talmente pieno dalla Scuola di comunità che si è rimesso a parlare con il suo compagno di appartamento con cui era quasi venuto alle mani. Dopo Roma sono andato a Napoli; sono tornato a Milano dopo tre giorni, e tutti i miei compagni di corso mi chiedevano: «Come è andata a Roma?». Ma come? Io mai ne avevo parlato se non con quel nuovo amico. Ed era proprio lui che ne aveva parlato già a tutti in quei due giorni! E appena mi ha visto mi ha chiesto il Tracce. L’altro ieri stavamo pranzando con i nostri compagni di corso; si avvicinava l’ora dell’Angelus e pensavo: adesso come faccio a dire agli altri miei compagni che vado a pregare? A un certo punto, quel ragazzo si alza, si gira verso di loro e dice: «Ragazzi, io vado a dire una preghiera insieme a lui, voi venite?». Parlando del crollo delle evidenze, quando guardo questo nuovo amico mi riaccorgo di tutte le evidenze che io do per scontate. E secondo te perché questo ragazzo ha potuto identificare così chiaramente quella diversità che vivevate voi? Perché in ogni cosa che viviamo facciamo tutti la verifica di quel che stiamo leggendo in questi capitoli. Che cosa gli ha consentito di riconoscere quella vita che è la Chiesa attraverso la modalità con cui voi mangiavate, studiavate, vivevate? Secondo me – se penso anche a me –, il fatto che aveva bisogno. Il bisogno! Tale e quale, letteralmente, afferma Giussani. Non è che questo amico abbia pensato al bisogno, ma proprio il bisogno gli ha fatto intercettare la vita! Per il bisogno che aveva, ha subito identificato la risposta. E in che cosa si vede? In quel che è cambiato in lui, che non è stato l’esito di un allenamento, di uno sforzo – ecco, di nuovo, qual è l’origine della morale –. È questo che adesso dobbiamo cercare di riconoscere nell’esperienza: quali fatti succedono tra di noi che ci aiutano a capire le parole che il Papa ci ha detto, non come un discorso astratto, ma come stupore di fronte a quel che succede. Perché che a un ragazzo, dopo mesi che non parla con uno con cui vive, all’improvviso venga una voglia matta di aspettarlo e di cenare insieme, da dove nasce questo desiderio se non dalla risposta commossa a ciò che gli è capitato? E così via. Questa unità, che non è solo unità dell’io, ma anche unità con gli altri, da dove nasce? È uno sforzo? È qualcosa che generiamo noi mettendoci d’accordo? Anche noi ci troviamo con lo stesso tipo di esperienza che fanno i due apostoli che, allontanandosi da Lui, “si salutano senza salutarsi” perché “hanno” la stessa cosa. È questo che ci consente di capire. Tornato da Roma, mi stavo perdendo in mille analisi di ciò che avevo capito o meno del discorso del Papa. E che cosa ti ha salvato dalla valanga delle analisi, dal razionalismo delle interpretazioni? Che una persona non del movimento, che abbiamo invitato a venire a Roma con noi, qualche giorno dopo mi ha scritto questo messaggio: «Strana la vita. Uno si barcamena come può e poi finisce a Roma con persone vere e ne riceve una carica di pile al litio. E poi torna a casa e questa carica non si esaurisce. È la prima volta per me. Di solito era come un’iniezione di antibiotico che attenuava il dolore, ma la malattia era cronica e poi scattava la recidiva. Grazie». Questa cosa, oltre a commuovermi, mi ha fatto capire meglio anche il passaggio che il Papa fa verso l’inizio: «Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro». Un incontro che non è semplicemente qualcosa che attenua il dolore. Per questo quando tra di noi cerchiamo soltanto il palliativo, questo è troppo poco. La questione è trovare una pienezza che non si perda più. Studio all’università, e volevo raccontarti la scoperta che ho fatto grazie all’incontro di Roma. Io non sono stata a Roma perché i miei genitori non hanno voluto che andassi. Quando i miei amici mi hanno fatto la proposta, mi sono domandata molto perché dovessi andarci, se ne valesse veramente la pena, perché non mi sembrava giusto partire senza esserne sicura. Una volta letta la tua lettera e dopo essermi confrontata con amici, ho capito che sarebbe stato veramente importante per me andare ed essere presente all’udienza, in quanto rappresentava in maniera totalizzante 6 l’incontro che ho fatto con il movimento in università. Certa delle mie motivazioni, decido di proporlo ai miei genitori i quali, senza ascoltare e prendere sul serio le mie parole, mi proibiscono di andare. Nonostante insistessi, le giustificazioni poste da mio padre erano: «Hai troppi impegni. Non puoi fare sempre tutto. Devi fare delle scelte. Stai troppo poco a casa. Non esiste solo il movimento». Triste e delusa, passo il periodo seguente fino al giorno dell’incontro soffocando in questo clima, non riuscendo a convincere i miei genitori e vedendo tutti i miei amici che si preparavano per andare a Roma. Il mattino stesso dell’incontro, dovendo uscire di casa, chiedo a mio padre se poteva videoregistrare l’evento. Torno a casa e lo trovo davanti alla televisione che ancora trasmetteva l’ultima parte dell’udienza. Poco dopo mi si avvicina e mi dice: «Sai, mi sono un po’ pentito di averti proibito di andare». Stupita dell’affermazione, dopo un momento di imbarazzo, gli chiedo il motivo e mi risponde: «Ho visto l’incontro in televisione. Il Papa ha detto delle cose proprio belle. Mi sarebbe piaciuto che mia figlia fosse stata lì presente. Volevo chiederti scusa. Mi dispiace molto». Mi ha così spiazzato e sono rimasta così colpita che non sono riuscita a dirgli una sola parola! Perché mai mi era capitato che mio padre si scusasse di una scelta fatta su di me, rendendosi così tanto conto dell’importanza di quel gesto da riuscire a diventare vero e umano fino in fondo nei miei confronti. Più tardi, poi, ho visto la registrazione dell’incontro e mio padre l’ha voluta rivedere e commentare con me. Un momento per me molto significativo, perché mi ha fatto accorgere del valore dell’udienza con il Papa anche non essendoci andata. Per me quindi, paradossalmente e inaspettatamente, Roma è stato compiere quel passo fondamentale a casa nel rapporto con mio padre che già vedo crescere sotto i miei occhi. Grazie. È impressionante perché anche una cosa che, apparentemente, può sembrare contro di noi diventa parte dell’avvenimento, perché, come dice il capitolo terzo, «non casca foglia che Dio non voglia» (p. 37). Non sappiamo a priori come Dio potrà usare anche di questa circostanza (non poter compiere un nostro desiderio) per accadere diversamente da come immaginiamo. E questa è la modalità attraverso cui noi vediamo chi è Dio, scoprendone la pertinenza a tutti gli aspetti del vivere. Se noi vogliamo buttare qualcosa fuori dal reale, dalle circostanze del vivere, allora ci blocchiamo costantemente, perché non siamo disponibili alla modalità con cui Dio potrà farci sorprendere di Chi è. Siamo sciocchi, perché quando non vediamo che Dio può usare una certa circostanza, allora la vogliamo escludere perché pensiamo che non c’entri; poi, a un certo momento, scopriamo che c’entra, eccome! Amica, questa è la modalità con cui il Mistero ti ha ridonato quel che pensavi ti avesse tolto. Sono venuto insieme a te dal Papa mendicante della grande Presenza, concreta, così concreta come un figlio che incontra il padre. E, da un certo punto di vista, sono stato aiutato in questo perché ho un problema serio in questo periodo, e quindi andare a fare un incontro di massa celebrativo non mi bastava. Neanche a me! D’altra parte, ho visto come a te interessava andare dal Papa, quindi mi sono fidato. Adesso non voglio voltare la pagina, come dire: torniamo alla Scuola di comunità, chiudiamo lì Roma, come una parentesi. Non voglio perdere proprio il contraccolpo delle parole che il Papa ci ha detto. Per questo ho fatto un po’ una rilettura anche senza farmi sconti e senza farti sconti. Volevo sapere cosa tu hai capito quando il Papa ci ha detto di decentrare il carisma e centrarci su Cristo, e come questa cosa non contraddice quel che noi ci diciamo sempre: immedesimarci col carisma. Perché nella mia vita il carisma del Gius, che continua nella compagnia del movimento e con te, è la mano di Gesù che mi tocca personalmente. Sinceramente io non ho un’altra via più diretta per arrivare a Gesù, se non immedesimarmi col carisma. Non so se tu ce l’hai, o se c’è contraddizione. Rispondendo a questa domanda, posso sintetizzare quel che abbiamo vissuto insieme. Siamo andati a Roma per porre al Papa una domanda: come non perdere la freschezza del carisma? Era la domanda che papa Francesco aveva fatto all’incontro coi Movimenti, ed è l’urgenza più grande. E come ha risposto il Papa a questa nostra richiesta? Per me – visto che mi chiedi che cosa è capitato a me – non ha risposto solo con le parole: Cristo ci ha risposto attraverso quel che ha fatto accadere. E 7 ciascuno deve guardare che cosa è accaduto lì, perché non eravamo in piazza da soli, no, eravamo presenti ciascuno personalmente e insieme, partecipando a un gesto. Allora: che cosa è successo? Lì ciascuno di noi ha fatto la verifica. Prima un intervento raccontava di quel ragazzo che ha potuto riconoscere ciò che gli era successo attraverso la natura del bisogno che aveva. A San Pietro ciascuno di noi ha potuto sorprendersi riconoscendo con quale bisogno è andato (non l’immagine del bisogno che uno aveva, ma il bisogno reale, con la disponibilità del cuore!); e ha potuto vedere che cosa è successo. Infatti, possiamo partecipare a un gesto e non vedere niente. Che è esattamente ciò che sta scritto all’inizio di Perché la Chiesa. Non basta vedere una vita come la Chiesa per riconoscerla; la difficoltà che abbiamo – dice Giussani – è che se manca un’apertura, il senso religioso, noi non capiamo, non riusciamo a cogliere quel che succede. Dunque, davanti a un gesto come l’udienza, tutti ci siamo trovati a sorprendere l’uno o l’altro dei tre atteggiamenti che abbiamo studiato nel secondo capitolo della SdC. C’è chi è rimasto intrappolato nella valanga delle opinioni, cioè non ha vissuto qualcosa di veramente significativo che si sia imposto sulle interpretazioni. C’è chi ha percepito un calore sentimentale, che però è stato messo a rischio appena i giornali hanno dato le loro interpretazioni –, come mi dicevano alcuni amici quando sono stato in Brasile: il giorno dopo, vedendo i giornali, malgrado l’esperienza che avevano fatto, pensavano che l’unico modo per conservare quell’intimismo caldo fosse rifiutarsi di leggerli! –. E infine c’è chi ha partecipato a un evento integralmente umano, per cui è stato liberato dal proprio razionalismo, dalla propria misura, dalla propria interpretazione, e niente ha potuto togliere il contraccolpo di quel che è capitato, tanto che dura ancora oggi. Ciascuno di noi ha fatto un’esperienza a Roma, e la verifica di quell’esperienza è ciò che è successo dopo, anche nel modo di affrontare le diverse interpretazioni degli uni e degli altri, di quelli “di dentro” come di quelli “di fuori” (perché non c’è differenza, non c’è “dentro” e “fuori”, in un certo modo). Il cieco nato ha vissuto un evento, e non è che Gesù sia rimasto con lui dopo il miracolo: «Adesso resto con te perché così possiamo affrontare insieme la lotta contro i farisei che verranno qui a martellarti con le loro interpretazioni». No, Gesù lo ha guarito, gli ha fatto vivere un’esperienza grazie alla quale poteva non rimanere intrappolato nelle interpretazioni o nella conservazione intimistica del calore provato; lo ha lanciato nella mischia, è andato via: «Tu hai tutto quanto ti serve per affrontare tutto». Ciascuno di noi deve guardare che cosa è successo: se è rimasto confuso, se è rimasto intrappolato, oppure se, come il cieco nato, tutte le difficoltà, tutte le sfide che ha dovuto affrontare, l’hanno veramente convinto di più di che cosa gli era capitato: «Io non bisogno di altro oltre quello che mi è capitato». Al cieco nato è bastata una lealtà semplice con ciò che gli ha fatto quell’Uomo: «Io prima non vedevo, adesso ci vedo». E niente è riuscito a spostarlo da questa evidenza. Allora, quando ciascuno è sfidato dal lavoro piuttosto che da problemi vari, da una interpretazione piuttosto che dalle difficoltà del vivere, deve vedere se gli è accaduto come al cieco nato. Verifichiamo che cosa veramente è successo a Roma, non solo riandando all’esperienza vissuta lì, ma anche in tutto quel che succede dopo, che ci fa capire ancor di più cosa è successo. È tutto un processo di comprensione di quel che è successo a Roma che ci porterà nei prossimi tempi a poterlo cogliere in tutta la sua profondità. Perché quando uno ha chiaro il bisogno, non si confonde su che cosa è importante. Personalmente, solo il fatto di aver sentito di nuovo parlare di Cristo come ha fatto il Papa, di averLo visto riaccadere in me rispetto al mio bisogno, rispetto al mio male, rispetto alla mia insufficienza, mi ha reso così grato, così lieto che è stato proprio il riaccadere di quella liberazione – è l’incontro che ci libera – dalle mie preoccupazioni o dal mio razionalismo o dal mio modo di guardare me e la realtà. Dall’altra parte, c’è chi, un istante dopo la fine del gesto, già era intrappolato nelle interpretazioni. Come possiamo capire che cosa è successo? Basta che ciascuno faccia il paragone di quel che ha vissuto con il paradigma dell’incontro. E qual è il paradigma dell’incontro che don Giussani ci ha messo sempre davanti agli occhi (come ha fatto anche il Papa il 7 marzo)? Leggiamo: «Immaginate quei due che lo stanno a sentire alcune ore e poi dopo devono andare a casa. Lui li congeda e se ne tornano zitti [primo segno che tutti possono verificare: che cosa fa rimanere zitti?]. Zitti perché invasi dall’impressione avuta del mistero sentito, presentito, sentito [invasi: secondo segno]. E poi si dividono: ognuno dei due va a casa sua [come noi, cominciamo a salutarci gli uni gli altri, 8 prendiamo il treno per tornare a casa]. Non si salutano, non perché non si salutino, ma si salutano in un altro modo, si salutano senza salutarsi, perché sono pieni della stessa cosa [terzo segno], sono una cosa sola loro due, tanto sono pieni della stessa cosa [non perché stanno insieme; ciascuno si divide, va a casa sua, ma non possono andare a casa senza essere pieni della stessa cosa, rimangono insieme anche se ciascuno va a casa sua perché condividono la cosa più cara]. E Andrea entra in casa sua e mette giù il mantello, e la moglie gli dice: “Ma, Andrea, che hai? Sei diverso [quarto segno], che ti è successo? [Come il nostro nuovo amico: “Cosa ti è successo? Siamo quasi venuti alle mani, non ci parliamo da un mese… Perché mi hai aspettato per cenare insieme a me e per chiedermi come sto?”]”. Immaginate lui che scoppiasse in pianto abbracciandola, e lei che, sconvolta da questo, continuasse a domandargli: “Ma che hai?”. E lui a stringere sua moglie, che non si è mai sentita stretta così in vita sua: era un altro [quinto segno]. Era un altro! Era lui, ma era un altro. Se gli avessero domandato: “Chi sei?”, avrebbe detto: “Capisco che son diventato un altro”» (L. Giussani, Il tempo e il tempio. Dio e l’uomo, Bur, Milano 2014, p. 48). Ciascuno può vedere cosa è successo. Questo è il termine di paragone. Questo è il carisma! A Roma è successo di nuovo il carisma? Come è successo? Perché ciascuno, qualsiasi sia la modalità con cui è arrivato, se è stato disponibile, è stato decentrato dalle preoccupazioni che aveva, dai garbugli, dalle trappole, ed è stato preso di nuovo da Cristo. Allora è con questo negli occhi che dobbiamo rileggere il testo del Papa per capire che cosa significa «decentrarsi», come ci ha insegnato sempre la Scuola di comunità, come ci siamo detti sempre: «In manibus nostris sunt codices, in oculis nostris facta» (sant’Agostino, Sermo sancti Augustini cum pagani ingrederentur), nei nostri occhi i fatti, nelle nostre mani i codici, cioè i testi. Rileggiamo così quel che ci ha detto il Papa, per poterlo capire, per non mettere in contrasto cose che non sono assolutamente in contrasto, perché Cristo ha fatto accadere prima ciò di cui poi dobbiamo veramente renderci conto. Capite che se non riaccade questo, noi non ci decentriamo? Occorre che riaccada costantemente. Che è esattamente ciò che ha fatto sempre Giussani con noi, perché tante volte noi, pur vivendo il carisma – non perché ce ne fossimo andati, ma vivendo il carisma! –, ci spostavamo. Diceva nel 1982: «L’altra sera, in un raduno a Milano [l’avevo citato già agli Esercizi della Fraternità del 2013], osservavo che, in questi anni, da una quindicina circa [non da due giorni prima!] […] tutto lo sforzo di attività associativa, operativa, caritativa, culturale [eccetera] […] ha […] avuto come scopo quello di mobilitare noi stessi e le cose [e questo ha preso il sopravvento] […]. Ma, all’inizio […] non fu così [e tutti eravamo lì a vivere il carisma, ma don Giussani ci dice: “All’inizio non fu così”] […] all’inizio […] non si costruì sui valori che Cristo ci aveva portati, ma si costruì su Cristo, ingenuamente fin quando volete [si costruiva sul] […] fatto di Cristo, e perciò il fatto del Suo corpo […], della Chiesa. All’inizio si costruiva, si cercava di costruire su qualcosa che stava accadendo […] [e] questa era una posizione pura. […] Per averla come abbandonata, essendoci attestati su una posizione che è stata innanzitutto, starei per dire, una “traduzione culturale” piuttosto che l’entusiasmo per una Presenza, noi [proprio perché ci siamo spostati] non conosciamo […] Cristo» (L’opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Cinisello BalsamoMi 2002, pp. 100-101). Meno male che Giussani, facendolo accadere davanti a noi – e Giussani mi sembra che capisse qualcosa del carisma! –, non ci ha consentito di perdere il carisma per la strada (il Papa è stato fin troppo tenero rispetto a Giussani, capite?). Ci ha aiutato a rifare esperienza del carisma, facendolo accadere secondo la sua natura, che è l’avvenimento cristiano. A questo Giussani ci ha introdotto costantemente, e costantemente ci ha aiutato a non staccarci da questo, a decentrarci da tutto quel che prevaleva, come ha fatto Gesù fin dall’inizio. Quando Gesù manda i discepoli a fare la missione (non a rubare) ed essi tornano tutti contenti di quello che hanno fatto, dice loro: «Non rallegratevi di questo, perché questo non serve per vivere. Rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nel Cielo». Gesù li decentra costantemente, e poi possiamo leggere tutta la vita di Gesù con i discepoli come un decentramento costante, fino al foto-finish, quando già sta per finire il Vangelo: «Pietro, Mi ami?», «Sì», «Allora seguimi». Comincia a seguirLo, e all’ultimo minuto Pietro dice: «E di questo Giovanni che ci viene dietro che cosa facciamo?», «Smettila, decentrati e seguiMi!». È questo che abbiamo davanti a noi adesso per poter scoprire, non 9 semplicemente ragionando ma attraverso la testimonianza reciproca, quel che succede, quel che ci colpisce, quel che Egli continua a operare in mezzo a noi per aiutarci a capire. È un’ipotesi di lavoro da verificare, una sorpresa da scoprire, personalmente e insieme. Poi ci ritorneremo agli Esercizi della Fraternità. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 20 maggio alle ore 21,30. Saltiamo il mese di aprile perché ci saranno gli Esercizi della Fraternità. Inizieremo a lavorare sull’Introduzione insieme. Fino agli Esercizi della Fraternità continuiamo a lavorare sul terzo capitolo della Scuola di comunità. Non sono due cose staccate. Abbiamo visto come il gesto con il Papa sia servito a capire la Scuola di comunità e come la Scuola di comunità ci aiuta a capire il gesto con il Papa. Quartino con il testo di Papa Francesco. Come avete visto, abbiamo realizzato un quartino con il testo del discorso di papa Francesco all’udienza del 7 marzo. Siamo andati a Roma a chiedere al Papa come non perdere la freschezza del carisma e il Papa ci ha risposto. «Roma locuta, causa finita est» (Roma ha parlato, la causa è definitivamente chiusa). La prima questione non è aggiungere altre parole, ma prendere sul serio la proposta fatta e cominciare a viverla come ipotesi di lavoro. Solo così potremo vedere come le parole che il Papa ci ha detto illuminano la vita. Questo lavoro ci aiuterà anche a prepararci agli Esercizi della Fraternità. Se qualcuno vuole inviare contributi sull’esperienza fatta oppure domande emerse in questo lavoro, che possono servire agli Esercizi, può mandarli all’indirizzo predisposto per questa Scuola di comunità: sdccarron@comunioneliberazione.org, indicando nell’oggetto “Esercizi Fraternità”. Volantone di Pasqua. Il testo del Volantone di Pasqua è un brano del discorso del 7 marzo. Poteva essere diversamente, dopo quello che il Papa ci ha detto? «Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro. Un incontro con quest’Uomo, il falegname di Nazaret, un uomo come tutti e allo stesso tempo diverso. Pensiamo al Vangelo di Giovanni, là dove racconta del primo incontro dei discepoli con Gesù (cfr 1,35-42). Andrea, Giovanni, Simone: si sentirono guardati fin nel profondo, conosciuti intimamente, e questo generò in loro una sorpresa, uno stupore che, immediatamente, li fece sentire legati a Lui... Parlando dell’incontro mi viene in mente “La vocazione di Matteo”, quel Caravaggio davanti al quale mi fermavo a lungo in San Luigi dei Francesi, ogni volta che venivo a Roma. Nessuno di quelli che stavano lì, compreso Matteo avido di denaro, poteva credere al messaggio di quel dito che lo indicava, al messaggio di quegli occhi che lo guardavano con misericordia e lo sceglievano per la sequela. Sentiva quello stupore dell’incontro. Il luogo privilegiato dell’incontro è la carezza della misericordia di Gesù Cristo. (Papa Francesco)». È un testo da tenere davanti agli occhi per poter avere un’immagine piena dello stupore di una Presenza. È impossibile guardare la faccia di Matteo senza vedere dentro di essa tutto lo sguardo di cui è oggetto. Il Libro del mese per aprile e maggio sarà Un’attrattiva che muove. La proposta inesauribile della vita di don Giussani, (Bur), una raccolta di interventi di personalità che hanno presentato la Vita di don Giussani. La prossima Settimana Santa che ci affrettiamo a cominciare ci metta in questo atteggiamento: immedesimarci con Cristo che è venuto proprio perché la nostra vita non sia a pezzi. Per questo sosteniamoci e chiediamolo gli uni per gli altri. Buona Pasqua a tutti! Gloria Veni Sancte Spiritus

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