lunedì 16 marzo 2015

Freddie Mercury, colonna sonora della nostra era. Un insospettabile fan indaga sul segreto dell’immortalità dei Queen

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Un balsamo sul malessere antropologico dell’Occidente

Non sono la band che ha venduto di più nella storia, né quella che ha guadagnato più soldi. Rolling Stone li mette solo al 52esimo posto fra i 100 artisti più grandi della musica pop e rock, in una classifica dove al primo posto ci sono i Beatles, al secondo Bob Dylan e al terzo Elvis Presley. Eppure le loro hit riappaiono continuamente sotto forma di colonna sonora nelle pubblicità, i loro migliori concerti sono riproposti anno dopo anno sui canali tv specializzati o al cinema, su YouTube i videoclip delle loro canzoni vantano decine di milioni di visualizzazioni (la versione più cliccata del video di uno dei loro pezzi più famosi, Bohemian Rhapsody, conta quasi 125 milioni di visualizzazioni) e il cantante del gruppo, Freddie Mercury, è il più vivo di tutti i morti della storia del rock.

Quarantacinque anni dopo la loro nascita e 23 anni dopo la morte del loro leader carismatico, i Queen continuano a essere snobbati dalla critica ed esaltati dalle masse. I biglietti del Forum di Assago del concerto del 10 febbraio scorso (dal 2011 il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor hanno ripreso a fare concerti con alla voce Adam Lambert, ndr) sono andati esauriti con mesi di anticipo, e quando dal 16 marzo per tre giorni in decine di sale in tutta Italia si potrà assistere a Queen Rock Montreal, il concerto del 1981 rimasterizzato in ultra HD mai visto prima, è certo il pienone ovunque. In questi casi si parla di “fenomeno di costume”, di successo fondato sull’astuta ricetta di una musica commerciale e orecchiabile. Senza dimenticare il decisivo valore aggiunto della voce formidabile di Freddie Mercury, perbacco. Le sue sonorità infantili disposte su un’estensione vocale impareggiabile (tre ottave piene), il timbro drammatico che trasmuta in ironico e viceversa, la nitidezza che non viene mai meno, qualunque sia il volume del cantato. Non solo la voce: la grande energia che emetteva dal palco dei concerti, abbinata a trovate sceniche perfettamente calzanti con lo spirito del gruppo.
Ma le ragioni del successo eterno dei Queen non sono tutte qui, non sono solo queste. C’è dell’altro. Altro per il quale qualcuno ha creduto nell’azzardo di assegnare al sottoscritto – un inviato e specialista di questioni internazionali – anziché a un critico musicale, un pezzo sulle ragioni dell’eterna attualità dei Queen e del loro frontman.
Una scoperta esaltante
Ho scoperto il gruppo molto tardi, nel 1990, quando il più giovane dei miei fratelli ebbe l’idea di regalarmi Greatest Hits II per un compleanno. Fino ad allora per me i Queen erano solo un gruppo rock commerciale che oscillava indeciso fra il progressive e l’heavy metal. E Freddie Mercury era il tizio del video di I Was Born to Love You, un macho inguainato in un bizzarro vestito bianco che lasciava scoperto il torace villoso mentre rincorreva un’incantevole bionda e si faceva notare per la voce penetrante che riscattava un pezzo altrimenti zuccheroso. «Chi è quel bell’uomo?», si meravigliava mia nonna, appassionata delle romanze operistiche ed estranea al mondo dei videoclip. L’altro fratello interveniva: «Nonna, guarda che non è come sembra…».
Ascoltai la compilation e fu una rivelazione. Altro che orecchiabile: il rock pop di Freddie e compagni era trascinante, esaltante, esuberante. Liberava qualcosa che stava intrappolato nel profondo. Musichette facili facili ma costruite dentro a sfarzosi arrangiamenti barocchi. I pezzi organizzati in movimenti diversi per tempo come nella musica colta. Ascoltavi, e nel giro di pochi secondi non sentivi più il peso delle frustrazioni della vita, sentimenti e sensazioni sempre più intense prendevano a vibrare e ti sentivi risospinto in un’infanzia felice che non credevi di poter ricordare.
Ne ebbi la conferma un giorno, mentre roteavo Adele ballando sulle note di It’s a Kind of Magic. Mia figlia aveva due anni e si godeva estasiata quel volo, assicurata alle braccia di suo padre. A un certo punto con occhi giocondi e sognanti se ne venne fuori: «In Cielo Freddie Mercury fa ridere i bambini. Cadono tutti per terra e ridono». L’immagine della rockstar morta di Aids che in Paradiso fa il girotondo coi bambini e poi si buttano tutti giù per terra e ridono mi intenerì. Certo, quando si hanno due anni la barriera fra la vita e la morte non fa paura, il Cielo è un luogo che sta dentro a una continuità geografica con la Terra. Non si torna indietro solo per ragioni di lontananza e perché di là si sta meglio.
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Molti anni dopo ascoltai di nuovo parole che collocavano il cantante dei Queen in un territorio dove la morte non aveva potere. Stavo sorbendo l’espresso mattutino dentro a un bar di tendenza in corso Sempione. La radio trasmetteva Don’t Stop Me Now. Su YouTube c’è un video dei goal più belli di Kakà con la maglia del Milan e la colonna sonora è quella: assolutamente perfetta per la combinazione di discese irresistibili e colpi geniali che caratterizzavano il trequartista brasiliano. Il barista e un avventore, due giovanotti sui 24-25 anni sul cui orientamento sessuale alternativo non avevo dubbi, stavano stancamente conversando a bassa voce. Sull’assolo di chitarra di Brian May che bissa il cantato travolgente di Mercury il barista ebbe un’impennata: «Freddie è morto più di vent’anni fa, ma è più vivo di te, al suo confronto il morto sei tu!», disse in tono colpevolizzante all’amico.
Omosessualità, faccenda profonda
L’omosessualità è faccenda che ha un posto di rilievo nella saga dei Queen, e in particolare in quella del suo leader. Non è solo una cosa attinente alla sfera personale e privata, il suo influsso sulla modalità espressiva del gruppo è decisivo, e non parliamo solo dell’estetica di Freddi Mercury, del suo linguaggio del corpo e dell’ambiguità del nome del gruppo. La questione è molto più profonda, non si riduce nemmeno a un’archeologia del coming out, ad allusioni in codice cifrato in un’epoca in cui il combinato disposto del conservatorismo politico al potere (Reagan e Thatcher) e dell’epidemia dell’Aids di cui gli omosessuali erano accusati di essere gli untori sconsigliavano qualunque aperta rivendicazione lgbt. Il nesso fra omosessualità, musica ed estetica dei Queen, durevole successo di massa della loro produzione, è qualcosa su cui è urgente scrivere adesso prima che sia troppo tardi, prima cioè che entrino in vigore norme liberticide come il decreto Scalfarotto, che renderanno pericoloso manifestare un pensiero non allineato, per quanto ragionato, su certi argomenti. Ma prendiamola un po’ alla lontana.
C’è una frase di un’intervista a Mercury che rappresenta ai miei occhi il sesamo per capire le ragioni del sempiterno successo dei Queen: «Sul palco sono così potente che penso di aver creato un mostro. Quando mi esibisco sono un estroverso, ma dentro sono un uomo completamente differente». Un’identità teatrale tutta emozioni e passioni in contrasto con un’identità reale della quale si tace completamente. Come si tace di un’onta, direbbe Rilke. Ancora più chiaro in un’intervista del 1974 a Melody Maker: «L’ultima cosa che vorrei è dare alla gente un’idea esatta di chi sono. Non intendo mettermi in una precisa cornice, per poi dire “ecco, questo sono io”, e tantomeno “questo è tutto quello che sono”. (…) Però credo che sia l’idea mistica, non il fatto di sapere la verità su qualcuno, che risulta davvero attraente». Rodolfo Casadei


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