venerdì 28 marzo 2014

LA FAMIGLIA SA INTEGRARE. NOI, GLI IMMIGRATI E IL FUTURO

 

A
llarmismo gratuito, toni spesso denigratori, manciate di pessi­mismo. Ma noi troppo spesso non sappiamo reagire. E così sbagliamo. Anzi, l’errore è gra­vissimo, quando insieme ai nostri figli, guar­diamo in modo acritico, senza puntualiz­zare e senza presentare i distinguo del caso, le notizie sugli immigrati trasmesse soprat­tutto da certa televisione. Il primo inciam­po è di tipo educativo. Noi adulti, noi geni­tori per primi, dobbiamo saper spiegare che troppo spesso il modo di guardare le perso­ne provenienti da ogni parte del mondo che vivono accanto a noi, nelle nostre città, nei nostri condomini, è viziato da infiniti pre­giudizi. Perché la coesione sociale si prepa­ra innanzi tutto in casa. Non basteranno leg­gi, né appelli, né regolamenti locali per co­struire nella comprensione e nel rispetto re­ciproci una società capace di accogliere e di integrare gli immigrati. Il futuro passa in­nanzi tutto dalle parole, dai gesti, dagli at­teggiamenti che i nostri figli respireranno in famiglia. E quanto più il nostro giudizio sarà costruito sull’immaginario da bar sport nu­trito di sarcasmi pesanti e di barzellette o­diose tanto più eleveremo una barriera di incomunicabilità tra noi e i nuovi italiani ar­rivati alle nostre frontiere, sopportando spesso sofferenze e sacrifici indicibili.
  Eppure, come dimostra in modo lampan­te il rapporto Cisf su famiglie e immigra­zione (lo presentiamo oggi a pagina 5), ci sa­rebbe un modo semplice e immediato per farsi un’idea più aderente alla realtà. Apri­re le porte di casa, scendere in strada, guar­darsi intorno senza disincanti. La ricerca dimostra che quando si abbandonano i luo­ghi comuni e non si ha timore di guardare le persone in faccia, diffidenze e paure di­minuiscono in modo significativo. Entrare nel vissuto della famiglia africana o asiati­ca che abita di fronte a noi, significa fare un passo decisivo dentro un vissuto denso, cer­to, di problemi e di interrogativi, ma spes­so anche di una ricchezza sconosciuta e di un’umanità palpitante. Ci saranno bambi­ni che incontrano gravi difficoltà a scuola, madri e padri alle prese con problemi di oc­cupazione, disorientati di fronte alla com­plessità della nostra legislazione e spesso incerti per le tante contraddizioni con cui abbiamo saputo ingarbugliare la nostra so­cietà. Così, mentre i reciproci meccanismi di autodifesa si allentano per lasciare spa­zio al desiderio di scoprire realtà molte vol­te tratteggiate in modo sfuocato e indefini­to, non è vietato stupirsi di fronte alla tena­cia, alla capacità di sacrificarsi, allo spirito di abnegazione, alla sobrietà che segna lo stile di vita di tante famiglie immigrate. Quella grande voglia di riuscire, di arrivare, di costruire che forse noi non abbiamo sa­puto conservare come eredità preziosa dal­le generazioni che ci hanno preceduto.
  Nessun buonismo di maniera, nessuna in­tenzione di edulcorare una realtà che, co­me sempre, presenta nello stesso momen­to luci e ombre, aspetti positivi e negativi. Siamo consapevoli che, come avviene in tutti gli ambiti umani segnati dalla soffe­renza e dal bisogno, le derive dell’illegalità e talvolta del crimine appaiono spesso l’u­nica risorsa per dare risposte – sbagliate – alla disperazione che soffoca e confonde. Ma un conto è tentare di comprendere la realtà per quella che è, senza infingimenti e senza semplificazioni, tutt’altro è arriva­re a facili e ingiuste omologazioni verso il basso. «Volevamo braccia e sono arrivate persone, volevamo lavoratori e sono arrivate famiglie», si legge ancora nell’introduzione del Rapporto Cisf. Forse la chiave di tutto sta proprio qui. Non dimenticarsi mai che die­tro quei volti spesso induriti dalla paura e dal bisogno ci sono figli, padri, madri. E sol­tanto insieme, famiglie già straniere e fa­miglie da tempo italiane, costruiremo den­tro una salda tradizione umana e civile i
nuovi cittadini del nostro Paese. 
 LUCIANO MOIA 

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