giovedì 27 marzo 2014

Il Cristo bambino, un feto che porta già la croce



  di Gloria Riva
 
È
una giornata tersa, primaverile, quella che si respira nel pannello centrale del Trittico di Mè­rode. È ancora Robert Campin a raccontarci l’e­vento cardine della nostra fede: il Verbo si è fatto
 carne.
  Le pesanti ante di legno, poste alle finestra, in­quadrano subito il mistero entro l’evento pasqua­le. 
La Vergine dice un sì che la condurrà, col Figlio, alla croce. Non ci curiamo, ora, della Vergine che sta nel suo abito rosso, colore della passione, tut­ta intenta alla lettura di quello stesso Verbo che l’angelo le annuncia. No, ora siamo attratti da un raggio di luce che penetra da una finestrella ogivale totalmente chiusa da inferriate. È un implicito ri­mando alle parole del Cantico dei Cantici: «Ecco viene, il mio diletto spia attraverso le inferiate». L’irruenza della venuta è tale da spegnere la tre­mula fiamma di una candela. Ecco: il tempo è com­piuto, l’ora è giunta. Quale ora? L’ora dell’Incarnazione, l’ora di un destino che quel bimbo, prima ancora di for­marsi nel grembo della Ma­dre, già porta in sé.
  L’uomo medioevale non ha timore di associare il bambi­no, anzi, il feto, alla croce. Nessuna riserva nel credere che l’uomo nasca già con il suo compito, con la sua mis­sione verso questo mondo malato; nessun timore di render meno libero l’uomo con l’indicargli già lo spes­sore
 del suo destino. Così, ciò che ci cattura del rag­gio di luce che filtra dall’ogiva è, appunto, la figu­rina che lo cavalca. La mettiamo a fuoco: è un bim­bo, anzi è il Cristo bambino che non entra nudo nel grembo, ma porta già con sé il suo abito di legno, la cro­ce.
 
 Una siffatta interpretazione compare già in alcune mi­niature dei libri di preghiere, quasi ad indicare al fedele, condotto dalla liturgia a comprendere i sacri misteri, che non c’è Natale senza Pa­squa e non c’è Pasqua senza Natale. Se la prima Chiesa cristiana ha guardato anzi­tutto al Kerigma (passione, morte e risurrezione del Si­gnore), subito dopo ha sen­tito l’esigenza di scandagliare l’Incar­nazione. Origine e fi­ne – dunque – sono strettamente legati e mai come ai nostri giorni lo si compren­de. Questo pertanto ci insegna il piccolo feto portacroce: se vogliamo compren­dere la fine di un uomo, illuminiamo il suo inizio. Se vogliamo comprendere il mistero della sua ori­gine, non abbandoniamo la sua fine a un nulla sen­za speranza. La Quaresima, che idealmente si tende tra An­nunciazione e Pasqua, ci aiuta – nel contesto del dibattito attuale e grazie alle testimonianze del­l’arte cristiana – a mettere a fuoco una tale verità. 

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