Testo di riferimento: L. Giussani, «Di fronte alla pretesa», in All’origine della pretesa cristiana,
Rizzoli, Milano 2001, pp. 127-137.
• Il monologo di Giuda
• Quando uno ha il cuore buono
Gloria
Ci eravamo dati come testo su cui lavorare il capitolo nono de All’origine della pretesa cristiana
con cui finisce il libro. Poi ripartiremo lavorando sugli Esercizi della Fraternità che terremo
prossimamente. Ma insieme avevamo finito la volta scorsa proponendo, e poi pubblicando su
Tracce, la Pagina Uno, dove si cercava di dare un contributo per capire che cosa sta succedendo
nella società e offrire un inizio di giudizio. Allora incominciamo.
Io sono rimasta molto colpita dall’ottavo capitolo e in particolare da Pagina Uno, che ha
illuminato, in maniera inedita per me, un aspetto del mio lavoro su cui non avevo mai riflettuto e
che invece è il dato culturale più impressionante di questa generazione di ragazzi con cui ho a che
fare tutte le mattine. Perché, molto più e molto prima delle analisi morali che fanno sui ragazzi di
oggi, il problema dei ragazzi che io mi trovo davanti a scuola è che odiano Leopardi. Se io dovessi
dire qual è la caratteristica di questa generazione è l’odio a Leopardi, tanto che sono anni – ma è
impressionante come la realtà ti dia dei segni che tu non leggi – che quando inizio con una quarta
liceo, il primo giorno di scuola c’è sempre uno che alza la mano e dice: «Prof, non è che
quest’anno si fa Leopardi? Noi Leopardi non lo vogliamo fare». Quest’anno, per una storia anche
che ho avuto con questa quarta, ma soprattutto per le cose che ci hai detto tu, per questa tua
scoperta dell’ottavo capitolo come giudizio sulla realtà che viviamo, mi ha posto davanti agli occhi
questa ostilità e ho deciso di affrontarla. Sono rimasta impressionata la settimana scorsa, perché
ho sfidato la mia quarta; perché dovevo cominciare a spiegare Leopardi; i ragazzi non volevano,
c’era un ammutinamento e allora io ho detto: «Sentite, fatemelo fare, vi leggo una poesia. Poi alla
fine vi pongo una domanda». Ho letto il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Loro sono
stati bravissimi, hanno ascoltato; alla fine ho detto: «Adesso ditemi perché non vi piace». Il primo
che ha parlato ha detto: «Prof, non mi piaceva fino a un’ora fa, perché mi hanno sempre
sottolineato la risposta di Leopardi, e questa io la odio, ma nessuno aveva mai sottolineato la
domanda che pone, perché questa è la mia». Lì ho capito che odiano Leopardi perché è sempre
stato letto loro come il poeta del pessimismo, del nichilismo, mentre, come diceva Giussani,
Leopardi è nella domanda che pone, non nella negazione. Allora io ho detto: «Infatti quella che
Leopardi pone è “la” questione, poi uno può decidere di evitare questa domanda, può come
Leopardi dare una risposta che voi odiate, oppure può, come è successo a me, avere la grazia di
incontrare qualcosa che risponde realmente». A questo punto prende la parola uno studente e dice:
«Prof, ma io non voglio una risposta, perché io voglio che la vita resti misteriosa, che nessuno mi
tolga il mistero. Non voglio sapere la mattina come andrà a finire la giornata». Da qui è
cominciato un dialogo bellissimo che non sto a raccontare. Uscendo dalla classe e parlando con
alcuni adulti delle questioni etiche, non ho potuto non raccontare questo dialogo che avevo avuto
con i ragazzi, perché è come se, improvvisamente, avessi capito che quello che noi ci portiamo
addosso è che il movimento è nato da Leopardi, da questo dialogo con Leopardi. Se non
riconosciamo questo, noi accettiamo di parlare, per esempio, di tutte le questioni etiche su un
terreno finto in cui possiamo dare risposte opposte a quelle degli altri, ma in fondo uguali,
ugualmente ideologiche.
E cosa c’entra questo con Pagina Uno? 2
Che non si può curare il tumore con la Tachipirina.
Mi sembra molto significativo quel che racconti, perché è la documentazione – e qui si vede un
esempio di ciò che dice Pagina Uno – di come il potere riduce il desiderio, cioè la natura dell’io, la
natura della domanda umana, e quindi non intercetta la domanda che i ragazzi hanno, offrendo loro
delle risposte che poi, siccome partono dalla domanda già ridotta di tanti adulti, non servono, non
corrispondono; e così si ribellano contro la risposta. È per questo – avevamo detto – che il capitolo
ottavo è prezioso, perché pone la domanda, di nuovo. Don Giussani ripropone la domanda di Gesù:
«Ma a che cosa serve all’uomo guadagnare il mondo intero se perde se stesso?». E dice che senza
prendere sul serio questa domanda, uno si «preclude le esperienze umane più significative». E
quando si ripropone la domanda umana più significativa, che cosa succede? Che cominciamo a
intercettare di nuovo il bisogno dell’uomo. È questo il punto di partenza di Pagina Uno, perché la
vita ci provoca, provoca un’insegnante nel fare le lezioni, provoca tutti nella attuale discussione sui
valori e sui nuovi diritti. Ci provoca. Ma prima che una questione di etica è una questione di
conoscenza, cioè di che cosa stiamo parlando e di qual è la natura propria dell’io. Sono contento,
perché io questa mattina ho spiegato Leopardi in Università Cattolica e ho collegato – senza sapere
che tu avresti fatto questo intervento – questa questione ai nuovi diritti; perché quando uno riduce
quel che dice Leopardi (e il capitolo quinto de Il senso religioso è pieno di Leopardi), allora cerca
una risposta nei propri tentativi. E io dicevo loro: «Ma voi pensate che uno che capisce la natura
della domanda umana possa risolvere la questione, per esempio, cambiando di sesso (con la fatica e
il dolore che ciò comporta)? Pensate che legittimare questa scelta risolva il problema?». Basterebbe
capire la portata del problema: che quel che cerchiamo nei piaceri è l’infinito; e nessuno si
accontenterà con meno di questa infinità – diceva Pavese –, perché quel che cerchiamo in tutto,
anche attraverso queste modalità, è l’infinito. Tutte le battaglie in favore dei nuovi diritti sono una
riduzione di questo desiderio, perché sentendo un’insoddisfazione si cerca – come dicevi – o di
evitare la domanda o di dare una risposta sbagliata. Perché uno non sta alla natura della
provocazione della realtà! È soltanto se uno capisce la natura della domanda che, allora, la risposta
che dà gli appare come una Tachipirina per il tumore. Ma se noi non comprendiamo questo, non
capiamo neanche, come abbiamo detto nella Pagina Uno, perché don Giussani, invece di fare una
battaglia sui valori (il che non significa che non desiderasse che la gente vivesse secondo certe
modalità che Cristo ha introdotto nella storia e nella vita, che si traducono anche in certi valori), si è
speso per ridestare la totalità del desiderio; la sua lotta contro il potere non è stata a proposito di
certe cose, ma della riduzione del desiderio. E questo non è un problema degli altri, ma è un
problema nostro quando rispondiamo agli altri accettando lo stesso campo di gioco; cioè quando la
nostra risposta, invece di essere una presenza originale, è una presenza reattiva che accetta il punto
di partenza ridotto della natura dell’io. E lo scontro di una posizione contro l’altra non riesce a far
cambiare idea a un ragazzo che di Leopardi pensa una cosa e dopo un’ora un’altra solo perché è
successo qualcosa che gli ha spalancato la capacità di capire. Per questo Giussani non è tenero con
una riduzione della risposta! Come dice alla fine del capitolo ottavo: «Cristo è venuto a richiamare
l’uomo alla religiosità vera [se qualcuno ha qualche domanda su che cos’è la religiosità vera, vada a
rileggere il capitolo quinto de Il senso religioso, dove Giussani spiega la natura della religiosità con
tutte le domande inestirpabili, la sproporzione strutturale, la tristezza, la noia, la solitudine come
espressione di questa natura della religiosità; perché Cristo è venuto a richiamare alla religiosità
vera, cioè non ridotta a moralismo o a devozione o a etica o a sentimento], senza della quale
[attenzione!] è menzogna ogni pretesa di soluzione» (p. 124), di una parte e dell’altra. È menzogna!
Non ridestando il desiderio non si sa rispondere, perché per rispondere alla vera natura del desiderio
occorre qualcosa di più che l’ideologia, di un tipo o di un altro. Per questo, quando tante volte si
dice: «Ma sul tale tema non si dà un giudizio», vuol dire che per noi la Scuola di comunità non è un
giudizio, che il capitolo ottavo della Scuola di comunità non è un giudizio sul reale, ma è
semplicemente lo spunto per venire qui ogni tanto a fare commenti sul testo, spirituali o
sentimentali; dunque il carisma non è il criterio, il modo con cui io mi pongo nel reale, che aiuta me
prima di tutto a non ridurre me stesso. Invece proprio questo documenta la presenza di Cristo! Chi è 3
Cristo lo si vede proprio dal fatto che duemila anni dopo di Lui c’è uno – uno, si chiama Luigi
Giussani! – che scrive questo capitolo, che è la cosa più contro la mentalità dominante che ci possa
essere, di un tipo e di un altro. Ma per alcuni questo è spiritualismo astratto e non incidente, e
quindi poi occorre fare altro quando, in realtà, basterebbe capire questo per porci noi davanti a tutti i
dialoghi che dobbiamo avere sulle diverse questioni con una vera autocoscienza. Perché il problema
è che noi partiamo, in tante occasioni, malgrado tutto, dalla stessa riduzione di cui accusiamo gli
altri! E questo in un movimento come il nostro dove, se abbiamo avuto la grazia di qualcosa, è di
uno che ci ha parlato sempre del desiderio di Leopardi come emblema della religiosità vera, cioè
come emblema non per la risposta che dà, ma per la totalità della domanda che pone, perché la
religiosità coincide con certe domande – dice il capitolo quinto de Il senso religioso – che sono
assolutamente uniche in quanto totali e inestirpabili, e chiedono una risposta totale, non la
Tachipirina: risposta totale alla totalità della domanda! Ciascuno, se vuole veramente seguire il
carisma, dovrà guardare come sta affrontando tutte queste vicende proprio in paragone col testo del
capitolo ottavo e del capitolo nono. Perché la resistenza che vediamo, anche fra tanti di noi, rivela
che in fondo non c’è bisogno di Cristo, perché Cristo sarebbe astratto, perché l’essenziale sarebbe
astratto, per usare una parola in voga. E allora? Dobbiamo fare, riempire la vita con altre cose. Il
che può andare benissimo, ma se non ha dentro questo, «è menzogna ogni pretesa di soluzione».
Io ho una domanda che era sempre sul capitolo ottavo, sul punto tre, quando parla della libertà. A
un certo punto, Giussani descrive la possibilità della scelta che si ha davanti alla realtà e parla
anche della tentazione e di «realtà che alla coscienza libera appaiono attrattive psicologicamente
più forti di altre ontologicamente più vicine al fine». Allora la mia domanda è questa: come è
possibile riconoscere ciò per cui siamo fatti, cioè scegliere e decidere per ciò che davvero ci
compie senza confonderci con quelle realtà che appaiono come attrattive psicologicamente più
forti? Perché Giussani dice che «la libertà è la capacità che l’essere cosciente possiede di
realizzare completamente se stesso» (pp. 123-124). Ora, io mi accorgo che desidero realizzare me
stessa, ma mi sembra che sempre, o comunque molto spesso, non so distinguere che cosa è bene,
cioè dov’è il vero, e che cosa è, invece, tentazione. Penso che la strada per operare la scelta sia
un’attrattiva, e non credo che questo sia totalmente sbagliato, però vedo che è un criterio molto
confuso e molto labile, perché spesso non porta a una libertà mia, ma a un restare invece
incastrata e non libera, qualsiasi sia poi la scelta che faccio.
Vedi? Questo è un esempio della stessa questione. Che cosa è la libertà – ci ha detto sempre
Giussani –? Quando siamo liberi? Quando noi possiamo compiere un desiderio. Qual è la natura del
desiderio umano? Ciò che stiamo dicendo: la libertà è la capacità di soddisfazione del desiderio,
siamo liberi quando compiamo questo desiderio. Ma noi, come tutti gli uomini, viviamo la lotta con
attrattive psicologicamente più forti che sembrano più vere di quelle vere. E allora è di nuovo
evidente che anche quelli che sbagliano non hanno una natura diversa dalla nostra; quelli che
scelgono e propugnano modalità diverse hanno lo stesso desiderio; tutti vogliamo essere liberi,
vogliamo arrivare a un compimento, a una soddisfazione. E a loro sembra che questa soddisfazione
si raggiunga attraverso una certa strada che ai loro occhi appare psicologicamente più attrattiva.
Allora la questione è: loro hanno la nostra stessa domanda e noi sbagliamo tante volte come loro,
perché non siamo diversi. Questa consapevolezza ci metterebbe già nella condizione di poter
veramente capire gli altri e dialogare con tutti, e di non ridurre a ideologia la vicenda umana. Tu
dici: una cosa è il bene e un’altra cosa è la tentazione; allora tante volte ci sembra che il criterio sia
confuso o labile. No, il criterio non è confuso! Occorre imparare a usarlo. Il criterio non è confuso,
il criterio è oggettivo e infallibile! Tu non decidi, carissima, quando la tua vita si compie; tanto è
vero che quando tu sbagli, per esempio, perché hai scelto una modalità inadeguata di compierti e sei
riuscita a realizzarla, poi il criterio ha giudicato; tu ti sorprendi non soddisfatta, e questo dimostra
che il criterio non è confuso e labile, il criterio c’è e non è manipolabile, neanche da noi stessi. La
questione è che tante volte di questo ci rendiamo conto tardi, quando… Tutti ricordiamo l’esempio
di Giussani davanti ai suoi ragazzi durante una festa: tutti erano lì a ballare. Chi pensava a come 4
sarebbe finita? Nessuno dei ragazzi; loro erano così attratti da quel che stava succedendo che certo
non pensavano che, quando sarebbero andati a dormire, sarebbe emersa l’amarezza o una certa
delusione, anche se tutto era andato benissimo. Perché? Perché mancava questa educazione a
distinguere il bene da quel che appariva psicologicamente più attrattivo. Chi era già educato, come
don Giussani, chi era già maturo, avendo fatto una strada umana e avendo imparato a giudicare,
sapeva che quel festeggiare non poteva compiere; allora ha fermato il ballo e lo ha detto loro, prima
che succedesse. Noi, la maggioranza delle volte, ce ne rendiamo conto tardi e poi diciamo che il
criterio è labile, confuso; no, il criterio non è labile o confuso! Il problema è che – primo consiglio
di Giussani nel primo capitolo de Il senso religioso! – il giudizio è l’inizio della liberazione;
giudicare è l’inizio della liberazione, perché è soltanto se uno comincia a giudicare che inizia a
distinguere il bene dall’apparenza, e allora, pian piano, vede la differenza tra il contraccolpo
sentimentale e la corrispondenza. Per noi c’è quasi una totale identità tra contraccolpo sentimentale
e corrispondenza, invece sono radicalmente diversi. Non che la corrispondenza non abbia dentro un
contraccolpo sentimentale (perché tutto ha un contraccolpo sentimentale o un’attrattiva), ma è
molto di più perché è quel che corrisponde all’esigenza del cuore. Quando uno ha fatto un
cammino, e quindi è maturo perché ha imparato a sottomettere la ragione all’esperienza, allora pian
piano comincia a non lasciarsi confondere. Quando tu imparavi matematica la formula era valida,
ma tu non avevi ancora abbastanza dimestichezza con quel tipo di problemi per non sbagliare
nell’applicazione. Il criterio non è confuso, è valido ed è vero; è confusa l’applicazione. Occorre
imparare, per non sbagliare poi nell’applicazione. Quando uno sottomette costantemente la ragione
all’esperienza impara, ma poi occorre una decisione: una volta detto questo, occorre stare
all’esperienza, a quel che è venuto fuori con chiarezza nell’esperienza. Per questo non interessa
tanto che uno sbagli o no, occorre imparare anche dallo sbaglio; tante volte abbiamo imparato cose
strepitose proprio attraverso sbagli! Non è sbagliare, il problema, ma imparare, e quindi che possa
venire fuori con più chiarezza una capacità di giudizio che non mi incastri in una soluzione che è
faziosa. Poi c’è una spia – se in noi ancora mancasse piena coscienza di questo – che è
un’oggettività: il Mistero è diventato carne e ci ha rivelato che cos’è il vero, la vera umanità; se uno
in qualche modo non riesce ancora a tirarlo fuori dall’esperienza, ha un’indicazione, non per
risparmiarsi l’esperienza, ma come traccia nel momento di confusione: qui qualcosa non torna, la
Chiesa mi dice altro, Gesù mi dice altro. Allora non è che semplicemente mi sottometto a questo
risparmiandomi il desiderio di capire, ma vado al fondo della questione, perché Gesù e la Chiesa
non vogliono imbrogliarmi. Relativamente a questo ho ricevuto una domanda: «Innanzitutto grazie
di averci fatto lavorare su Pagina Uno di Tracce, perché ciò mi costringe ogni giorno a fare una
verifica, e che la vita è provocata è sempre per me una grazia, perché mi dà una strada per capire di
più. Per esempio, mi sono resa conto che innanzitutto Gesù in me ridesta il desiderio, cioè mi fa
tornare a desiderare tutto, una cosa che per me non è più scontata, anzi, spesso non desidero più
niente [vedete che il problema che abbiamo tutti è questo decadere del desiderio, e che per questo
noi facciamo fatica poi a giudicare, perché venendo meno il desiderio viene meno anche la capacità
di giudizio]. Dico questo perché alla Scuola di comunità ci è stata fatta la domanda: ma noi che cosa
difenderemo di fronte agli attacchi del mondo? E io sono rimasta inchiodata, perché non avevo una
risposta che facesse venir fuori tutto di me, tutto ciò che sono io, tanto da difenderlo con le unghie e
i denti. E io ho proprio bisogno di ripartire dall’esperienza di ciò che ridesta la mia persona,
altrimenti Gesù me lo invento o non Lo conosco di più, e alla fine mi delude [come abbiamo visto].
Ti chiedo, per un aiuto: ci puoi fare un esempio di come tu tieni presenti tutti i fattori del capitolo
ottavo di fronte alle sfide del tuo vivere?». Semplicemente prendendolo sul serio. È semplice. Non
riducendo il capitolo ottavo – come altri testi della Scuola di comunità – a spiritualismo, a
moralismo, a istruzioni per l’uso. Lì don Giussani ci sta dicendo la verità della vita, la concezione
che Gesù ha della vita, lo sguardo che Gesù ha sull’uomo, che ci rende consapevoli di tutto quel che
noi siamo. Per questo se noi seguiamo, partecipando, il metodo che don Giussani ci propone
sempre, cioè la verifica nell’esperienza, noi a un certo momento ci sorprendiamo di avere presenti i
fattori, sempre più fattori perché, come dice all’inizio del capitolo, è il frutto di un’educazione 5
questa genialità umana che ci è richiesta per capire il vero, in fondo per distinguere, perché tutta la
premessa di quel capitolo è per poter identificare un uomo tra tanti uomini, “lo” uomo. Giussani
cosa propone? Un tipo di educazione, una genialità umana composta dalla natura, da certi fattori e
da un’educazione. È soltanto partecipando a questa educazione che noi possiamo cominciare ad
avere tutti i fattori del presente, senza ridurli. Mi stupiva, sabato, a un’assemblea con gli
universitari, come un ragazzo sintetizzava la questione: «Noi su queste questioni non siamo
informati». Uno che dice così dopo aver letto il capitolo ottavo de All’origine della pretesa
cristiana, ammette che il capitolo ottavo non gli dà le “informazioni” sulla natura dell’uomo né il
giudizio sulle sfide del presente, e quindi le deve cercare altrove. Capite? Ci possono lasciar fare
perfino la Scuola di comunità; che problema c’è, se poi la pensiamo come tutti, cerchiamo le
informazioni altrove e il criterio di giudizio ce lo danno altri? Il criterio di giudizio per giudicare
quel che stiamo vivendo è il Fatto che a noi è capitato? Il Fatto che a noi è capitato ha dentro il
giudizio su tutto o lo dobbiamo cercare altrove? Se lo dobbiamo cercare altrove, perché vale la pena
essere ancora cristiani? Per questo, non è una questione secondaria, è radicale, è radicale! Senza di
questo, senza rispondere a questo, manca la ragionevolezza della fede, la fede manca di quelle
ragioni per cui vale la pena, altrimenti il cristianesimo sarà una tra tante cose nel pantheon della
religiosità moderna, dove è accettato tutto, perché in fondo noi non abbiamo un criterio di giudizio
su tutto che nasce da quel che ci è capitato; non per imporlo ad alcuno, anzi, e per questo possiamo
dialogare con tutti.
La domanda è sempre sul capitolo ottavo, paragrafo cinque. Io volevo chiedere che differenza c’è
tra il servizio come senso del dovere e il servizio come dono di sé, perché è esperienza di tutti i
giorni che di fronte a tutte le richieste della giornata, dei figli, del marito, del lavoro, le mille cose
da fare e da ricordare, io ho l’impeto e mi sento in dovere di rispondere a tutto e di fare le cose
giuste e bene. Ma questo man mano, con la stanchezza eccetera, mi soffoca. Allora il mio senso del
dovere, che come buona moglie e buona madre mi imporrebbe di rispondere a chi ho davanti, mi
angoscia, poi mi fa sentire in colpa per tutta la mia inadeguatezza, il mio non aver fatto ciò che
avrei dovuto e nel modo giusto. Leggendo invece questo capitolo capisco bene come Cristo è venuto
a cambiare questo modo di servire il tutto, a mostrarmi la verità, il significato e la profonda
convenienza umana come via e possibilità di avere il centuplo nella vita di tutti i giorni, e questa è
una cosa che mi interessa. Allora vedo che c’è un consumarsi che porta alla pace e un consumarsi
che porta esattamente all’opposto, all’angoscia. In che cos’è che si distingue? Io intuisco che il
senso del dovere è rispondere a tutto moralisticamente, mentre il dono di sé è rispondere al tutto in
un rapporto reale, concreto, con Cristo; però vorrei capirlo bene, perché per me sarebbe un delitto
pensare di appiccicare l’etichetta “per Cristo” a quel che devo fare, neanche un pomeriggio
reggerei! Vorrei che tu mi potessi raccontare quando ti sei sentito in trappola, soffocato dai tuoi
mille impegni e responsabilità, nella guida del movimento o prima in Spagna, che cosa è successo,
qual è stato il punto di svolta perché invece tu vivessi un altro respiro, nella coscienza che
l’esistenza umana è un consumarsi per qualcosa e non invece un senso del dovere.
Grazie, perché questa domanda, come vedete, è un’altra modalità di fare la stessa domanda: se alle
provocazioni del reale che dobbiamo fronteggiare noi rispondiamo moralisticamente o rispondiamo
come dono di sé, cioè in rapporto con qualcuno, con Cristo. Ma che cosa vuol dire in rapporto con
Cristo? Vuol dire che io vivo ogni circostanza come la possibilità non di chiudere moralisticamente
la vicenda, ma di spalancarmi a ciò attraverso cui il Mistero mi raggiunge, che è la circostanza. Tu
hai detto che nel libro è descritto come conveniente umanamente. Il dono di sé ci conviene, e uno
capisce benissimo quando fa le cose perché ama la persona con cui si è sposata o soltanto perché ha
il dovere di sposa di farlo. Qual è il test? Quando cominci a pensare i compiti come un dovere,
perché tutto era lo stesso dall’inizio, ma all’inizio tutto era visto come la possibilità di un rapporto e
di dire alla persona amata: il mio amore arriva fino a questi dettagli. Era il contrario del moralismo.
In che cosa si vede la differenza? Nella riduzione che noi facciamo della realtà, se per noi la
circostanza è semplicemente qualcosa da sopportare o da fare moralisticamente, o la circostanza è 6
un’occasione di entrare in rapporto. Per me questo è stato una svolta decisiva, perché tante volte
quel che tu hai detto capitava a me; invece incontrando il movimento ho incominciato a vivere
queste circostanze come la possibilità di un dialogo con Cristo, come tu dici, come la possibilità che
mi offre adesso di dire “sì” liberamente, come scaturendo dalla sorgente ora, come tu potresti
desiderare di dirlo alla persona che ami o ai tuoi figli. Questo è quel che cambia, non perché cambia
la difficoltà di ciò che devo fare: cambia la natura di quel che faccio, perché la natura di quel che
faccio o è soltanto dovere moralistico oppure è l’opportunità offerta a me ora di dire “sì”
liberamente a un Altro. E questo fa la differenza. Se è dovere moralistico, soffochiamo, prima o poi,
perché cercare la soddisfazione soltanto in un dovere moralisticamente inteso soffoca; mentre
spalancare tutta l’ampiezza della domanda, tutta l’ampiezza del desiderio, tutta la misteriosità della
realtà fa respirare, fa respirare! Se invece, come tante volte succede nella discussione sui nuovi
diritti, uno si incastra e pensa che questo risolverà la questione, alla fine soffoca. Tutto è della stessa
natura. Perché? Perché niente sfida di più la nostra mentalità che quel che dice tutto il capitolo: la
dipendenza, cioè che io per compiermi devo entrare in rapporto, devo entrare in un rapporto vero,
perché la mia felicità dipende da questo rapporto. Questo rapporto non è secondario, non è
aleatorio, non è superfluo, ma è cruciale, per la natura dell’io, perché l’io è rapporto; e se uno non
vive ogni cosa dentro questo rapporto, soffoca. Invece se ogni realtà, ogni circostanza è vissuta
come la possibilità di un rapporto, allora si spalanca. E se uno comincia a rendersi conto che
attraverso questo il Mistero ti ridesta costantemente e ti chiama a rispondere, non sempre tutto è
piacevole, ma ti rilancia; se uno non vede tutte queste sfide, come quella che stiamo vivendo
adesso, come occasione di presa di coscienza di sé, del ridestarsi di sé, non vede la convenienza
umana, non vede più il centuplo. Perché io non sarei me stesso come sono se non avessi risposto a
tutte le provocazioni senza lasciarle cadere o vivendole moralisticamente nel lamento. No:
accettando qualsiasi sfida, perché se il Signore la permette, la consente, vuol dire che è qualcosa per
me.
Del capitolo nono mi sembra centrale quando dice che «il mistero dell’Incarnazione stabilisce il
metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da Lui», e dice che
risponde «alla natura dell’uomo, che è carica di esigenza di sensibilità» e «alla dignità della
libertà umana, in quanto Dio la assume come collaboratrice della sua opera» (p. 132). Che questo
metodo risponde alla natura dell’uomo che ha l’esigenza di concretezza, di fisicità, lo capisco,
perché non mi basta l’idea che Dio mi vuole bene, ma ho bisogno di vederlo ora, così come con mio
marito non mi basta sapere che lui mi vuole bene, ma ho bisogno della sua presenza o dei segni che
rimandano al suo amore. Invece la seconda parte sulla collaborazione alla sua opera, il fatto che
Dio ha bisogno di me e della mia libertà collaboratrice della sua opera, questo è un punto che
vorrei capire meglio (un po’ l’hai detto anche prima), perché questo collaborare è positivo e quindi
presuppone un gusto nel fare le cose. Un caro amico mi diceva che questo gusto significa
riconoscere che non si sarebbe fino in fondo se stessi senza il rapporto con questo Altro, e la
dipendenza così vissuta fa fare l’esperienza della libertà, e quindi in tutte le cose che ti capitano sei
libero, non le subisci. Ecco, io faccio questa fatica in questo momento, perché la tentazione è quella
di vivere la dipendenza in modo passivo: sono certa che dipendo e sono certa che tutto quel che mi
succede viene da Lui, però…
Come si collega la prima parte della domanda con la seconda? Perché, diciamo così: da una parte,
abbiamo bisogno di vederLo ora, come tu vedi i gesti di tuo marito, ma tu Cristo presente qui e ora
Lo vedi nel reale. E questo ti aiuta a capire di più, ti sostiene in questo tuo collaborare che
domandi? Perché tutta la questione sta qui. Il vedere i segni di affezione di tuo marito ti aiuta e ti
sostiene nella collaborazione, in quel che tu intendi fare. Lo stesso capita qui. Il problema è che noi
facciamo fatica, facendo il paragone col marito, perché in fondo Cristo poi non lo vediamo, e allora
il cristianesimo che cos’è? Alla fine a che cosa viene ridotto? A etica, a qualcosa che devo fare, non
a quella compagnia che io tocco costantemente nel reale, che vedo accadere. Ditemi se leggendo
questo capitolo, con tutte le cose che stiamo dicendo, Cristo non è presente! Neanche leggendo il 7
capitolo ce ne rendiamo conto. Che uno abbia scritto questo, che tante persone comincino a capire
questo, non è il segno della presenza di Cristo? Perché altrimenti noi saremmo già ridotti alla
grande! Ma tanti di questi segni li abbiamo in continuazione. Non è che Cristo, come pensa la
stragrande maggioranza, sia venuto, abbia detto quello che dobbiamo fare, se ne sia andato e tornerà
alla fine del mondo, e carnalmente quel che resta è solo il marito! No, no, no. Questo è il canone del
nostro modo di pensare. No, no! Il problema nostro, come vedete, è quello della premessa: che noi
non intercettiamo la risposta, come non l’abbiamo intercettata per tutto il capitolo ottavo. Perché
quando io ripetevo la domanda: «Ma chi è Gesù? L’avete riconosciuto? Questo capitolo è servito
per riconoscere Gesù?», siccome questa domanda noi non ce la poniamo perché non siamo capaci di
riconoscerLo, è molto più facile leggere tutto il capitolo in senso moralistico perché siamo abituati
così; siamo quasi tutti kantiani, perché il cristianesimo di cui parliamo è Kant, e questo ci viene
facile. E la riduzione che operiamo testimonia la nostra difficoltà. La riduzione vuol dire che io non
riesco a vedere quel che c’è. E questo è il nostro problema. E così, poiché non lo vediamo nel
capitolo, che è un festival della Sua presenza, figuratevi nella realtà che è piena di segni. Che cosa
occorre perché tu intercetti i segni di tuo marito? Questa apertura, questa semplicità, questa capacità
di stare ai tanti modi in cui vengono oltrepassati i limiti dell’umana natura; altri neanche vedono
questo. Il problema non è che non ci siano i segni, è che noi non li vediamo. Per questo se noi non
ci educhiamo a questa genialità umana, per usare la parola del capitolo ottavo, non è che non
succedano fatti, ne succedono mille – mille! –, ma noi non li vediamo e quindi non sentiamo tutta la
potenza della compagnia di Cristo che costantemente ci ridesta e ci rilancia a questa collaborazione.
E ci ritroviamo a dire: ma che cosa posso fare di più? Ma è esaltante per l’uomo cominciare a
scoprire il desiderio di mettere le mani in pasta per collaborare! Il segno che L’abbiamo
riconosciuto è il desiderio di collaborare! Non, come tutti, di non fare un bel niente e di andare in
pensione quanto prima! Questo dice fino a che punto la presenza di Cristo non ci spalanca più, non
ci lancia, non sostiene la voglia di alzarci al mattino, per vedere dove Lo scopriremo. Non c’è
questa misteriosità (di cui parlava il ragazzo citato nel primo intervento di stasera) di andare a
vedere questa mattina dove Lo scoprirò, come mi verrà incontro. Per noi spesso il problema è: che
cosa devo fare? Invece la domanda è: dove apparirà? Dove mi si farà incontro? Dove mi ridesterà?
«Ehi, ti rendi conto che Io sono qui e non sei solo con il tuo niente?».
Ho una domanda da porti. Può sembrare teorica, ma spero si capisca l’urgenza per me quotidiana.
La Scuola di comunità dice, nel capitolo nove, al punto tre: «Il mistero dell’Incarnazione stabilisce
il metodo che Dio ha creduto opportuno scegliere per aiutare l’uomo ad andare da Lui […]. Dio
salva l’uomo attraverso l’uomo» E dice: «Risponde magnificamente [questo metodo]: alla natura
dell’uomo, che è carica di esigenza di sensibilità» (p. 132). Io nelle mie giornate cerco il Suo volto,
cioè quell’amore su di me che mi corrisponde totalmente e che mi permette di essere me stessa e
quindi di vivere da protagonista, non sulla difensiva. Questa ricerca sta diventando sempre più
impellente, aspira a una concretezza e carnalità sempre maggiori. Ciò si esplicita in una grande
aspettativa sulla compagnia: cerco testimoni, persone con cui condividere la vita, a cui chiedere
senza mezzi termini: «Cosa ti è successo?», o: «Come la Scuola di comunità ha inciso oggi?», cioè
il cammino che ci fai fare. Non mi basta il giorno della Scuola di comunità o della caritativa per
tirar fuori questo. Mi accorgo però spesso come questa ricerca di una compagnia vera si scontri
con il mio limite (per esempio, non ho il coraggio di tirar fuori completamente le questioni che mi
stanno a cuore e il limite degli altri, a volte si sta insieme, ma non ci si guarda in faccia, si è
superficiali), lasciandomi una ferita che mi spinge a rinunciare a questo livello di rapporto. Questo
mi appare come un di meno nell’incontro quotidiano con Lui. Allora, come posso scorgere il
Signore senza continuamente riscoprirmi appoggiata a qualcuno o a qualcosa che mai sarà
completamente corrispondente? E come posso io rimanere libera dal modo umano con cui Lui mi
raggiunge nel concreto delle mie giornate?
Ti risponde il prossimo intervento.
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La domanda: «Chi è Gesù?», che ormai ci stai ponendo costantemente in questi ultimi mesi, mi ha
molto provocato, soprattutto nell’interrogarmi sulla verità della mia esperienza, chiedendomi in
che punti mi trovo effettivamente cresciuta, dove ho fatto dei passi scoprendo meglio chi sono io. Il
mese scorso sono andata a un convegno con un mio professore e due amiche, una non del
movimento. Una sera siamo andati a cena da dei nostri amici che sono in quella città, che sono del
movimento, e io ero un po’ preoccupata perché c’era questa ragazza e non sapevo bene cosa fare,
sinceramente. A un certo punto, la discussione a cena si è spostata sull’aborto. La mia compagna
di corso non del movimento non aveva la stessa mia opinione e degli altri, ma quel che mi ha
colpito è che non mi sono ritrovata a difendere la mia posizione, come spesso mi capita, ma a
portare ciò che è vero per me realmente, partendo da un giudizio chiaro su un bene che ho visto
nella mia vita e che mi porta ad affermare che la vita per me è sacra per il semplice fatto che non
me la dò io. La sera dopo siamo andati a bere di nuovo una birra con questi nostri amici; a un
certo punto, stavamo chiacchierando e questa ragazza mi dice: «Ma lo sai che io quasi non vorrei
tornare a casa dai miei amici? Come siete amici voi mi colpisce». Io da quella sera sono uscita
piena di questa domanda: ma cosa mi sta prendendo? Cosa sta afferrando la mia vita tanto da
rendermi così audace, io che non lo sono? Mi sono ritrovata a darmi questa risposta: che quella
sera ho ripreso coscienza che in ultima analisi quello che mi costituisce è il rapporto con Cristo.
Mi colpiva molto questa cosa, perché mi ha proprio fatto ripercorrere tutto quel che è stato per me
quest’anno fino adesso. Mi rendo conto che io tante volte ho detto di sì a tante cose che mi sono
state proposte, ma perché io vedevo un fascino nelle persone che me le proponevano, vedevo che
questi erano felici e io volevo essere felice. Però tante volte mi fermavo a questo sentimento, senza
andare oltre, e poi non bastava più. Invece io desideravo essere come loro e questo mi ha portato a
domandarmi sempre più insistentemente cosa e chi li rende così. E per me questa cosa è stata
impressionante, perché per me è iniziato un rapporto, un rapporto con una Presenza vera nella
vita, nella realtà, che se interpellata risponde, e risponde nei modi più impensati, come per esempio
attraverso questa mia compagna di corso. Però questa cosa mi ha colpito un sacco, perché io tante
volte entro nella giornata con l’idea che Cristo mi deve prendere qui, qui, qui, qui; e invece mi
prende nei modi più inaspettati. Non è che la realtà sia cambiata, la realtà è sempre quella, il
problema è un problema di coscienza di dove poggio i piedi io.
Leggendo il capitolo nono mi sono sentita addosso tutte le obiezioni e tutte le resistenze che lì
descrive. Sono contenta di questo, perché con il lavoro che ci fai fare mi accorgo di dare meno per
scontato quel che ci diciamo; con gli amici del gruppetto di Scuola di comunità in questi anni non
si è cercato di tappare con la risposta giusta quel che si viveva, ma ci si chiede continuamente di
non dare per scontato quel che abbiamo davanti e di personalizzare ciò che c’è. Avevo già letto
questo capitolo tante volte, eppure ricordo nettamente in passato la sensazione di sentirmi fuori
dalle obiezioni che vengono descritte lì, mi sentivo a posto. Adesso invece sento tutta la mia
resistenza, mi sono fermata al titolo perché mi sono chiesta: cos’è la pretesa? È Dio che è, di fatto,
al centro della mia vita. Ma mentre lo dico l’istintiva resistenza mi viene su, senza che io possa
farci qualcosa. Finalmente però la vedo e la guardo. Una domanda che mi preme è questa: quando
si dice: «Il suo operare prodigi rispondeva a un’urgenza etica, costituiva un richiamo morale,
realizzava una educazione ideale» (pp. 127-128) cosa significa? Significa forse che il Suo operare
miracoli risponde alla nostra natura, ci dice che noi siamo Suoi, che non possiamo fare niente
senza di Lui? In questo senso capisco di più il capitolo ottavo: qual è la nostra natura se non di
essere Suoi? Sto vedendo in effetti che il miracolo è la realtà che man mano diventa Sua e per
questo sempre più mia. Per esempio, nei rapporti con i ragazzi che mi trovo in classe spesso la
lezione diventa una possibilità, per chi lo vuole, di aprirsi e di confidare i pesi che ognuno ha nella
vita. Ed è sempre più chiaro per me che se non prendiamo in considerazione almeno come ipotesi
che siamo Suoi, la vita è un vero inferno.
Finiamo collegando questi tre interventi. «Come posso rimanere libera dal modo umano con cui Lui
mi raggiunge nel concreto delle giornate?» Vedete? Tante volte cerchiamo una concretezza carnale, 9
storica, ma questa concretezza a volte non basta, allora uno vuole qualcosa in più e pensa che la
questione sia come liberarsi dal modo umano con cui Lui lo raggiunge. Amica, non è possibile,
perché ci raggiunge sempre attraverso un modo umano! Il problema è quel che diceva la nostra
amica a proposito della compagna non del movimento, cioè che uno non si fermi a quel modo
umano dipendendo soltanto dal modo umano, ma ogni modo umano introduca a quel rapporto.
Perché? Perché questo è quel che ci siamo sentiti dire come la concezione vera del seguire: seguire
– è quello che abbiamo imparato – è fare l’esperienza che vediamo fare ad altri, che diventa sempre
più nostra. Non lo puoi fare senza il rapporto con qualcuno, come non puoi imparare matematica
senza il rapporto con qualcuno, ma poi le cose diventano sempre più tue; e non è che a un certo
momento non abbiamo più bisogno del rapporto, sempre ne avremo bisogno, perché, come vedete,
la possibilità che abbiamo di ridurre Cristo secondo la mentalità comune è spaventosa, per questo
avremo sempre questo bisogno. Infatti – lo abbiamo detto in altre occasioni – sempre avremo
bisogno del Papa, di un punto storico, nella storia, che ci assicuri la verità, altrimenti saremmo nella
confusione come tutti. Questo ci consente di fare un’esperienza vera di sequela, è un inizio di un
rapporto con una Presenza che risponde sempre di più a tutti i richiami. E come risponde? Come
diceva l’ultimissimo intervento: attraverso il miracolo, attraverso quella bellezza che Lui mette
davanti a noi, perché quando uno incontra una persona, un testimone, per usare la parola che avete
usato, che è un prodigio, un richiamo, ci viene da dire: ma io voglio vivere come lui! Il miracolo più
grande che qual è? Vedere una creatura nuova nel reale, non soltanto che uno veda guarita la sua
gamba: una creatura nuova che in mezzo a tutto il caos, a tutta la confusione, a ogni riduzione,
testimonia la vittoria di Cristo nella sua umanità. È questo il richiamo più grande che ci può fare
Cristo. E questo è il metodo dell’Incarnazione di cui parla tutto il capitolo nono. Cristo ci viene
incontro attraverso il metodo più adeguato a noi: una presenza umana qui e ora, a cui uno non può
sottrarsi se non vuole perdere il meglio di quel che è capitato. Noi perché siamo qui? Perché siamo
qui, quando tanti hanno perso la voglia, l’interesse a essere cristiani? Soltanto perché abbiamo
trovato una personalità, una “creatura nuova” – possiamo dire con le parole di san Paolo – che ci ha
affascinato, che si chiama don Giussani, attraverso cui ci è venuta una voglia matta di non perderci
ciò che abbiamo visto in lui; è stato il richiamo più potente che abbiamo ricevuto nella nostra vita.
Non è un richiamo prima di tutto moralistico, è un’attrattiva a cui non abbiamo potuto resistere. E
questo sarà sempre il cristianesimo, dall’inizio fino alla fine del mondo.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 30 aprile alle ore 21,30. Riprenderemo il testo
dell’Introduzione dei prossimi Esercizi della Fraternità.
Gli Esercizi della Fraternità sono un gesto e quindi, oltre alle lezioni e all’assemblea, sono anche
silenzio, canto, preghiera, attenzione all’altro. Partecipando a un gesto come questo, possiamo
ridurlo, come riduciamo la Scuola di comunità: ciascuno sceglie, a discrezione del proprio criterio,
a che cosa partecipare o che cosa seguire di tutto il pacchetto! E quando qualcosa del pacchetto non
ci conviene, decidiamo di fare altro. Un gesto di questo calibro è possibile sostenerlo soltanto, come
dico sempre, con la collaborazione di tutti. Ma è di più della “gestione” di un gesto grande, è la
consapevolezza con cui andiamo. Se non andiamo come mendicanti e non cominciamo già da ora a
pregare – a pregare! – per gli Esercizi, per la disposizione di ciascuno, perché possiamo essere
aperti alla modalità con cui il Signore ci chiamerà, perché dia a me che devo predicarli la luce per
parlare nel modo più adeguato ai vostri bisogni, se non ci sosteniamo a vicenda, che gesto è? Non è
un’organizzazione per cui si fa uno speech e tutto funziona. Sarebbe negare la complessità della
vicenda umana che abbiamo visto descritta nel capitolo ottavo, come se bastasse la solita
organizzazione ciellina. Neanche un po’! Non è che alla fine Cristo si sia sbagliato: avendo potuto
fare una buona organizzazione, gli è sfuggito qualcosa e ha dovuto morire in croce. A chi è sfuggito
qualcosa? A lui o a noi, per questa riduzione a banalità del dramma del vivere? Se a un gesto come 10
questo non andiamo con la consapevolezza del nostro bisogno e di che cosa andiamo a domandare,
a mendicare, a supplicare, noi non potremo fare tesoro di tutto quanto il Signore ci potrà dare.
Perciò disponiamoci a viverlo nella sua totalità perché diventi incisivo nella nostra vita.
Documento di CL per le Elezioni europee. Avete a disposizione nel sito il quartino intitolato: «È
possibile un nuovo inizio?» che abbiamo preparato, come CL, in vista delle Elezioni europee,
perché ci sembrano una occasione preziosa per dire a tutti – non solo in Italia, infatti lo offriremo
anche a tutti i nostri amici nelle nazioni europee in cui è presente il movimento – dove poggia la
nostra speranza per un’azione civile e cosa sostiene la fatica di una ricostruzione.
È a disposizione il Volantone di Pasqua, che riproduce una bellissima immagine dagli affreschi di
Giotto della Cappella degli Scrovegni e con due testi, uno di papa Francesco e l’altro di don
Giussani.
«“Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per
illuminarti, per rafforzarti, per liberarti”. Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non
significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È
il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad
ascoltare. È l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano. Tale
convinzione, tuttavia, si sostiene con l’esperienza personale, costantemente rinnovata, di gustare la
sua amicizia e il suo messaggio, convinti, in virtù della propria esperienza, che non è la stessa cosa
aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a
tentoni. Sappiamo bene che la vita con Gesù diventa molto più piena e che con Lui è più facile
trovare il senso di ogni cosa». (Papa Francesco)
«Per la mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero
profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza
presente [riprende il concetto di esperienza del Papa], confermata da essa, utile a rispondere alle sue
esigenze, non sarebbe stata una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e
dice l’opposto. Mostrare la pertinenza della fede alle esigenze della vita e, quindi – questo “quindi”
è importante per me –, dimostrare la razionalità della fede, implica un concetto preciso di
razionalità. Dire che la fede esalta la razionalità, vuol dire che la fede corrisponde alle esigenze
fondamentali e originali del cuore di ogni uomo. Per questo dare ragione della fede significa
descrivere sempre di più, sempre più ampiamente, sempre più densamente [attenzione perché se no
noi non Lo riconosciamo nel reale], gli effetti della presenza di Cristo nella vita della Chiesa nella
sua autenticità, quella la cui “sentinella” è il Papa di Roma.» (Luigi Giussani)
Come sappiamo, il Volantone non è soltanto da mettere nella nostra stanzetta, ma è per un gesto
missionario, perché sono tanti coloro che aspettano di toccare il lembo del mantello.
Veni Sancte Spiritus
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