martedì 18 marzo 2014

La malinconia e quella fatica di capire la nostra vera meta di Marina Corradi



M
ilano, marzo. Nella sala d’attesa siamo in cinque o sei. Io, sovra­pensiero, non mi guardo attorno. L’in­fermiera chiama la prima paziente: «Ta­gliapietra... ». Allora, sollecitata da un im­provviso ricordo, alzo gli occhi e incon­tro quelli di una donna della mia età, che a sua volta mi sta fissando. Li riconosco, quegli occhi. Elena, la sorella di Anna, la mia amica del liceo; Elena, la sorella più grande, che già aveva il fidanzato e che noi due, sedicenni, invidiavamo perché
 usciva, la sera. Ci sorridiamo, incredule, ciascuna cercando di rintracciare nel vi­so dell’altra la ragazza di oltre trent’an­ni fa: con fatica, come remando contro­corrente nel tempo. La folta lucente chioma nera di Elena è ingrigita. Anche lei mi sta osservando, come cercando qualcosa: quella, mi immagino, che io non sono più.
  Il brusco ritrovarmi davanti un’amica che ricordavo bellissima, ventenne, pro­duce interiormente un frastuono dolo­roso, come di una valanga di ghiaia che mi smotti addosso. E ogni sasso è un giorno, e tutti insieme mi sommergono, questi infiniti inavvertiti giorni passati da quando andavo al liceo. Balbettiamo un imbarazzato 'Come stai?' e io sento come corrono i ricordi: quel terrazzino
 su viale Marche dove insieme studiava­mo, e le formule chimiche che mi si im­brogliavano davanti agli occhi e Anna che pazientemente mi spiegava. Ma, an­che, il mare della Liguria nelle giornate splendenti di luglio, gli oleandri sgar­gianti, e noi, finita la scuola, sulla spiag­gia, felici – tutta l’estate, tutta la vita da­vanti.
 
 La vita, che è già per un bel pezzo pas­sata. Vedo nella mia amica l’ombra del­la stessa mia malinconia. E ci sforziamo di rimediare con sorrisi e con parole gof­fe, a questo tuffo al cuore. Me ne esco in strada con la sensazione di essermi fat­ta male.Il fatto, dico a me stessa, lo vedi, è che tu credi in Cristo, eppure nelle cose quoti­diane sei quasi naturalmente pagana. Lo siamo in molti. Professiamo la vita eter­na, e poi nella concretezza della realtà siamo poveri uomini con il fiato corto nell’avanzare degli anni, e il rimpianto della giovinezza alle spalle. Ma il tempo che procede non compie forse il nostro destino, non è un avvicinarci alla meta? Se credessi davvero, mi dico, non mi im­malinconirebbe tanto il ricordo di quel­le remote sere d’estate. Insomma, in­vecchiare non è ciò che ci porta verso casa, la casa vera?
  L’apparenza delle strade di Milano oggi mi pare uno schermo cieco. E la felicità promessa, così ben nascosta. La fatica più grande non è, ostinatamente, ogni giorno aver fede? Oltre il muro opaco di quella che chiamiamo la 'realtà'.
 

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