lunedì 24 marzo 2014

«Perché io apra gli occhi e veda»

A Roma, la caritativa di alcuni universitari in un ospizio per anziani. Caterina racconta i volti, le storie e le domande che provoca lo stare lì. E la consapevolezza che di fronte a tante situazioni «Gesù non vuole altro da me se non il mio bene»
Tra i vicoli di Trastevere, nel centro di Roma, c’è Santa Francesca Romana, un ospizio che si apre intorno a un grande giardino e ospita quaranta anziani. Da quest' anno vado lì con una decina di altri universitari ogni sabato pomeriggio per passare un paio d'ore con queste persone. I loro volti e le loro storie sono ormai familiari come quelli di amici. Ognuno di loro ha una vita senza grandi pretese ed è autosufficiente, tanto che all'inizio mi chiedevo cosa avremmo dovuto fare concretamente in un pomeriggio insieme.

La risposta è arrivata subito, chiara ai nostri occhi. L'abbiamo vista nel sorriso di Attilio, uno tra i veterani ma non per questo il meno arzillo, che, con l'orgoglio di chi ha sempre desiderato tutto dalla vita, ci racconta gli anni in guerra, dei suoi otto figli, di quando ha insegnato a centinaia di bambini e della sua incrollabile passione: fare statue di gesso con il volto dei santi e di Maria. Si mostra nella simpatia pugliese di Antonionelle tele ad olio di Vincenzo, nell'anima genuinamente romana di Annamaria, sempre in disparte e contrariata, che ora, quando ci vede, sorride e ci saluta con il suono degli stornelli.

È evidente che il nostro rapporto non si gioca su un dislivello che ci fa stare con loro in modo pio, e in forza di quella compassione che si ha per chi, in fondo, si considera meno da sé, mancante di intuizione o affettività. Qui accade tutto il contrarioCome quando mi fermo a parlare con Maria, lì da tredici anni e malata di cancro. Mi accorgo di essere davanti a una donna "piena" della propria vita, tra le gioie familiari le soddisfazioni nel suo lavoro di sarta.

Una volta, mentre mi avvicino per abbracciarla, mi ferma: «Non voglio che nessuno mi tocchi, sono fatta così. Ho amato tanto la vita, ma ora non più. Non so neanche più cosa significhi Natale e prego di morire di notte, così soffrirei di meno». Rimango in silenzio davanti a lei, perché sento la voragine che riempie il suo cuore come fosse la mia. Continuiamo a parlare, ma quando è il momento di andare è lei che mi prende la mano e mi dice: «Ma tu mi hai fatto compagnia! Grazie, mi viene da piangere».

La sua spontaneità, che è quella di una bambina, mi cattura. Il sabato dopo, quando la trovo sul letto disordinata e piena di dolori, mi dice: «Dove eri? Perché non mi sei venuta subito a cercare? Sto male e dovrò andare in ospedale, se e quando mia figlia vorrà portarmi. A lei non interessa tanto di me, fa la sua vita». Un altro peso sul cuore. Al momento di andarmene mi piego a darle un bacio sulla guancia, suscitando il suo più grande stupore. Mi dice: «Tu mi baci. Da quanto nessuno mi baciava più!».

Guardando in faccia Maria, ora, ho più chiaro cosa vado a “fare” all'ospizio: non a rimarginare la ferita e la domanda di senso che lei e gli altri hanno impressa dentro di loro. Nel suo valore più vero, quello è il luogo privilegiato dove ogni volta ritorno a incontrare Gesù. Sono io a desiderare la Sua compagnia per la mia vita ed è Lui che misteriosamente si fa presente,chiedendo a me di fargli compagnia attraverso Maria.

Di fronte all'impotenza che mi travolge nel ricevere tra le mie mani la sua vita e degli altri, Gesù non vuole altro da me se non il mio bene. Un bacio, perché io apra gli occhi e lo veda. È questa l’avventura affascinante che si apre per me nel tempo della Quaresima, in cui anche il più piccolo sacrificio non vale se non per educare il cuore e gli occhi a incontrarLo, a fargli compagnia e a toccarLo. Con la stessa concretezza che desiderava Tommaso con il Suo Corpo risorto.

Caterina, Roma

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