venerdì 25 marzo 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 febbraio 2011

Testo di riferimento: L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 31-44.
• Il giovane ricco
• Give Me Jesus
Cominciamo il nostro lavoro leggendo una mail
che mi ha mandato uno di voi, perché è quello che io desidererei per me al
principio di questa Scuola di comunità: sentire l’urgenza che vibra in questo
amico. «Io sto toccando con mano che su questa questione della moralità mi
gioco la vita. E non c’è niente su cui abbiamo lavorato negli ultimi mesi che
mi abbia provocato così tanto, in quanto vedo che è ciò su cui mi blocco più
spesso, in particolare quando si dice che “sembra banale, ma non è così disinvoltamente praticabile, perché noi siamo proclivi a rimanere legati alle opinioni che già abbiamo sui significati delle cose e a pretendere di documentare
il nostro attaccamento”»
.

Quando ho letto questo capitolo mi è venuto in mente quel ragazzo che era
intervenuto l’altra volta e che aveva detto: «Che bello poter vivere questa
cosa che il Gius dice, ma è impossibile». Perché ho incominciato a leggere
tutto il pezzo sulla conoscenza che non è possibile se uno non ha un
interesse,e il problema mio è che non mi interessano le cose, che io spesso davanti alle cose(pensavo anche in questi giorni che sono stanca), presa dall’istintività, non ci sono. Poi però mi sono un po’ confortata perché
alla fine dice che serve un lavoro, per cui ho detto: «Se serve un lavoro,
posso farcela». Però lì poi dice: «Per amare la verità più di se stessi (…) occorre un lavoro», e questa è la definizione classica della moralità. E io dicevo: ma io non so voler bene neanche a me stessa, come faccio ad amare la verità se di me guardo solo il limite, l’istintività?
Ripeti questa frase che hai detto.
Come posso amare la verità, se non capisco neanche cosa vuol dire amare me stessa?
Io non so dirti, Julián, se io mi voglio così bene, non lo so. La domanda è:
come ci si disincastra dal noninteresse?
Potrei fare tutti gli esempi di ogni istante della vita in cui abbiamo un
sentimento, cioè sempre, da quando ti alzi al mattino. Immediatamente quello
che accade è che io prendo posizione, il cuore prende posizione di fronte al sentimento, cioè di fronte alla reazione. Viene immediatamente fuori questo
desiderio di felicità che giudica il sentimento e lo stato d’animo che ci
ritroviamo addosso inevitabilmente. E quando lascio spazio a questo lavoro, a questo giudizio che non ha niente di artificioso ma proprio me lo ritrovo come immediato, allora divento certo e conosco. Meno male che c’è il sentimento, così
sono obbligato a chiedermi sempre che cosa voglio, cosa desidero.
Ma – rispetto alla prima domanda – se tu
giudichi così come hai detto, questo non è il primo sintomo dell’interesse
che hai? Che non ti accontenti di qualsiasi cosa?

Il dispiacere di non essere interessato è il giudizio su quello che mi ritrovo addosso.

Noi abbiamo in reparto una donna cui hanno trovato delle metastasi al cervello.
Un giorno arriva sua figlia, che io non conoscevo, tutta trafelata, angosciatissima: «Sto cercando mia mamma.
Voglio parlare con il medico». La cosa che mi ha impressionato è che io sono dovuta andare a guardare sul tabellone chi fosse sua madre perché neanche mi ricordavo chi fosse quella donna. Mi ha agghiacciato perché mi sono accorta
che questa donna per me non esisteva, mentre per sua figlia era tutto.
Entriamo nello studio dei medici, questa figlia disperata chiede: «Quanto ci
rimane?». E la dottoressa le dice: «Settimane». Questa figlia ha iniziato a tirare fuori tutto quello che stava vivendo con sua madre, e a me la cosa che ha
sconvolto è stata che lì per lì mi sono detta: chi è questa donna per essere così tutto per questa figlia? In quell’istante quella malata ha iniziato
a esistere per me; dalla reazione che io ho avuto nei confronti di questa figlia ho iniziato a

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interessarmi della madre. Che cosa mi porto a casa di questo episodio? Che il sentimento che mi è accaduto lì, che è nato in me in quell’istante, è la scintilla che fa iniziare la conoscenza, nel senso che, uscita da quella stanza, mi è
venuto di andare a capire chi era quella donna. Il sentimento –
come dice il don Gius –, che può essere di propensione o di repulsione, è una scintilla, cioè io nella vita non sono fatta per prendere lucciole per
lanterne, vale a dire, quel che resta non è il sentimento, ma è l’oggetto che
io conosco, che è molto di più del sentimento che ho nei confronti
dell’oggetto. A me ha colpito che io ho bisogno di qualcosa che resti nel
tempo, e il sentimento, anche nei confronti di ciò che amo, è qualcosa che va e viene, invece io ho bisogno di qualcosa che resti, e il qualcosa che resta è ciò
che io conosco, che è molto di più di quel che io provo.

Allora si capisce che quello che l’ha fatta interessare a quella donna è il sentimento destato dalla presenza della figlia. Perciò senza quel sentimento destato dall’interesse che la figlia aveva per la mamma, per lei quella donna
avrebbe continuato a essere una sconosciuta. Questo mostra come il
sentimento non è un ostacolo, ma un fattore decisivo del conoscere. La questione
è se noi andiamo dietro a quella scintilla che provoca l’interesse.


Settimana scorsa sono stato invitato a cena da un gruppo di studenti universitari
per discutere della situazione specifica di quell’ateneo e provare a scrivere
insieme un volantino. Io avevo avuto una giornata molto intensa, ero molto stanco, non avevo assolutamente voglia di partecipare a quella cena; e quindi sono
arrivato non attendendomi niente, sperando di cavarmela nel minor tempo
possibile e scappare via. Cosa accade? Che arrivo lì e ci sono già una decina
di studenti miei amici che mi stavano aspettando, avevano preparato tutto, si vedeva come c’era in loro un’attesa e un desiderio di non perdere quella cena,
di investire tutto quel tempo che potevamo vivere insieme senza perdere nulla.
È iniziata la cena e io continuavo a rispondere parando i colpi e cercando di
cavarmela, però man mano loro continuavano a incalzare, e allora, a un
certo punto, mi sono trovato a un bivio: continuare a stare “fuori” oppure
lasciarmi provocare, e quindi seguire quello che stava accadendo lì con loro.
E così è cambiato tutto, perché ho iniziato a implicarmi veramente
in quella cena, nelle discussioni, nel dibattito. È stata una delle cene più
belle degli ultimi tempi,tant’è che ci siamo trovati alla fine a scrivere il volantino come se fosse stato il primo che avessimo mai scritto.
Allora, rispondendo alla prima domanda: come si è disincastrato il tuo interesse?

Secondo me attraverso due fattori. Uno: sono stato di fronte a quello che c’era
lì, perché facendo fuori quello che io avevo di fronte, da solo non penso che mi sarei riuscito a disincastrare.

Se noi non stiamo davanti a quello che abbiamo di fronte, ciò che resta è soltanto uno sforzo titanico, che tante volte non ce la facciamo a reggere.
Invece se uno si lascia colpire, trascinare da quello che accade, comincia a diventare semplice.

Due: non ha prevalso quello che già sapevo, c’è stato un elemento di
semplicità che è diventata un’apertura sempre più larga.

Ma quando la realtà diventa tosta, come si sta davanti?

L’altro giorno sono andata a fare il turno di notte in terapia intensiva neonatale. Quando sono arrivata mi hanno subito detto che uno dei neonati, un bambino che è in incubatrice da tre mesi, stava morendo perché non arrivava più ossigeno al cervello e perché il suo polmone, da quando è nato, non si è riuscito
a sviluppare. Ho provato tutta la sera a cercare di evitare di guardare quel
bambino perché avevo paura di non riuscire a reggere davanti a lui, come dice
a un certo punto Giussani: «Qualcosa accade, penetra e produce inevitabilmente, meccanicamente, una certa reazione, vale a dire uno stato d’animo (…)
Qualcosa accade che tocca la persona, “muove” la persona, una emozione, una commozione».
Da subito il dolore di quel bambino, che da un momento all’altro è entrato nel
mio orizzonte, mi ha suscitato quello stato d’animo, quel sentimento. Mi sono
trovata a usare la ragione in un modo ridotto. Quel sentimento struggente e
tutte quelle domandeQuel dolore era troppo scomodo, io inconsapevolmente
continuavo a dire di no a un pezzo della realtà che mi provocava. Verso
le quattro di notte, però, il suo pianto mi ha calamitato, l’insistenza
del suo esserci non mi permetteva più di rimanere indif erente, era nella
sua culla con gli occhi gonfi e blu come se qualcuno gli avesse tirato due
pugni e cercava di aprirli. Sono rimasta lì a guardarlo e mi è scoppiato nel
cuore un dolore pungente, una domanda di senso enorme. Eppure, proprio mentre
lo guardavo, ho dovuto fare i conti con la verità di me e la verità di quel
bambino, come ancora Giussani dice: «La moralità è il desiderio sincero di
conoscere l’oggetto in questione in modo vero più di quanto noi si sia
abbarbicati a opinioni già fatte o inculcate». Qui è come se avessi messo a
fuoco la lente. Proprio mentre lo guardavo ho dovuto fare i conti con
la vera esperienza ragionevole che ultimamente mi costituisce, che mi libera
ogni volta, che mi fa essere me fino in fondo, che dà senso al mio vivere, e
cioè che sono una poveretta ma eternamente amata.
E per questo, guardando quel bambino, senza eliminare niente, ho potuto
affermare con certezza:in questo istante Cristo si sta piegando sul mio
nulla e sul tuo nulla, sulla nostra piccolezza perché ci siamo, perché viviamo.
La nostra consistenza è questo continuo abbraccio che non ci lascia, che
non ci abbandona, che ci fa essere. Io consisto del Suo amore continuo,
instancabile a me, e quel bambino nel silenzio e nella discrezione più
totale sta portando la croce di Cristo per me. Ma perché io posso stare
davanti a lui così? Perché posso rimanere anche davanti a tutte le domande
che mi esplodono nel cuore e non scappare? Perché posso non cancellare o dimenticarmi fino a diventare cinica? Perché a me è accaduto e continua a riaccadere Cristo che mi ama come io stessa non so amarmi e mi permette di
non censurare o dimenticare le domande più profonde del mio cuore. Come dice
ancora Giussani: «L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è
mosso. L’amore che ci può persuadere a questo lavoro (…) è l’amore a noi
stessi come destino, è l’affezione al nostro destino. È questa commozione
ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù vera».
È quell’amore a me che mi rende trasparente e chiaro che quel bambino
non è la fine, la morte o la sua malattia, come io non sono il fastidio
che tante volte ho di me, o i miei limiti o la mia piccolezza, ma entrambi ora
siamo rapporto con Uno che ci ama. È davvero solo la Sua contemporaneità che mi permette di guardare a me stessa e a quei bambini con verità, proprio come tu dicevi all’incontro del 26 gennaio: «Nessuno riesce a mantenersi da sé
nell’atteggiamento giusto a cui pure l’incontro con Cristo lo ha
spalancato». Perciò l’unica risposta alla nostra fragilità è la permanenza
reale della Sua presenza. È da diversi giorni che mi viene continuamente in
mente quel bambino, ogni secondo: invece di desiderare di non pensarci mi
commuovo, perché è la possibilità per me di rifare memoria che Cristo si
sta piegando sul mio nulla e non si dimentica dei Suoi figli.
Non è soltanto quando le cose che abbiamo da affrontare davanti sono
piacevoli, può essere una cosa che uno non è in grado neanche di guardare.
E quando è così, la ragione è usata come misura:non riesco a vedere tutta la
realtà di quello che ho davanti, neanche di me. Occorre – e questo non
ce lo possiamo dare noi stessi davanti a certe circostanze – una Presenza,
cara e amata, che io non posso far fuori nel momento in cui mi trovo davanti
a queste cose, e che impedisce la vittoria della ragione come misura.
E qui mi viene sempre in mente una frase di Giussani: «È il cuore […] la
condizione dell’attuarsi sano della ragione. La condizione perché la ragione
sia ragione [stia aperta alla totalità di quella realtà che ho davanti senza censurare niente] è che l’affettività la investa e così muova tutto l’uomo».
E che cosa può investire tutta la vita di questa affezione che consente di
guardare tutto? Non è un meccanismo, è soltanto una Presenza che è in grado di calamitare tutta la mia vita in modo tale da poter guardare – nella compagnia
della Sua Presenza – tutto. E questo,come ha detto lei, non lo posso fare da
me soltanto; devo essere costantemente riaperto a questa totalità; nessuno può mantenersi da sé in questo atteggiamento, se non perché Cristo riaccade come
contemporaneo e ci consente di stare davanti alla realtà. È questo che abbiamo
visto di nuovo il 26 gennaio: senza che riaccada l’Avvenimento, senza una realtà
che ci educa, senza una Presenza che ci salva costantemente da questa riduzione,
noi non guardiamo o non ci interessiamo. Per questo che mi nascevano davanti
a lui non mi facevano nemmeno avvicinare all’incubatrice dove dormiva.

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Quel dolore era troppo scomodo, io inconsapevolmente continuavo a dire di no
a un pezzo della realtà che mi provocava. Verso le quattro di notte, però,
il suo pianto mi ha calamitato, l’insistenza del suo esserci non mi permetteva
più di rimanere indif erente, era nella sua culla con gli occhi
gonfi e blu come se qualcuno gli avesse tirato due pugni e cercava di
aprirli. Sono rimasta lì a guardarlo e mi è scoppiato nel cuore un dolore
pungente, una domanda di senso enorme. Eppure,proprio mentre lo guardavo, ho
dovuto fare i conti con la verità di me e la verità di quel bambino,come ancora Giussani dice: «La moralità è il desiderio sincero di conoscere l’oggetto in questione in modo vero più di quanto noi si sia abbarbicati a opinioni già fatte
o inculcate». Qui è come se avessi messo a fuoco la lente. Proprio mentre
lo guardavo ho dovuto fare i conti con la vera esperienza ragionevole che ultimamente mi costituisce, che mi libera ogni volta, che mi fa essere me fino
in fondo, che dà senso al mio vivere, e cioè che sono una poveretta ma
eternamente amata. E per questo, guardando quel bambino, senza eliminare niente,
ho potuto affermare con certezza: in questo istante Cristo si sta piegando sul
mio nulla e sul tuo nulla, sulla nostra piccolezza perché ci siamo, perché
viviamo. La nostra consistenza è questo continuo abbraccio che non ci lascia,
che non ci abbandona, che ci fa essere. Io consisto del Suo amore continuo, instancabile a me, e quel bambino nel silenzio e nella discrezione più
totale sta portando la croce di Cristo per me. Ma perché io posso stare
davanti a lui così? Perché posso rimanere anche davanti a tutte le domande
che mi esplodono nel cuore e non scappare? Perché posso non cancellare o dimenticarmi fino a
diventare cinica? Perché a me è accaduto e continua a riaccadere Cristo
che mi ama come io stessa non so amarmi e mi permette di non censurare o
dimenticare le domande più profonde del mio cuore. Come dice ancora Giussani: «L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso. L’amore che ci
può persuadere a questo lavoro (…) è l’amore a noi stessi come destino, è
l’affezione al nostro destino. È questa commozione ultima, è questa
emozione suprema che persuade alla virtù vera». È quell’amore a me che mi rende trasparente e chiaro che quel bambino non è la fine, la morte o la sua malattia,
come io non sono il fastidio che tante volte ho di me, o i miei limiti o la mia piccolezza, ma entrambi ora siamo rapporto con Uno che ci ama. È davvero
solo la Sua contemporaneità che mi permette di guardare a me stessa e a quei
bambini con verità, proprio come tu dicevi all’incontro del 26 gennaio:
«Nessuno riesce a mantenersi da sé nell’atteggiamento giusto a cui pure l’incontro con Cristo lo ha spalancato». Perciò l’unica risposta alla
nostra fragilità è la permanenza reale della Sua presenza. È da diversi
giorni che mi viene continuamente in mente quel bambino, ogni secondo: invece
di desiderare di non pensarci mi commuovo, perché è la possibilità per me di
rifare memoria che Cristo si sta piegando sul mio nulla e non si dimentica
dei Suoi figli.

Non è soltanto quando le cose che abbiamo da affrontare davanti sono piacevoli, può essere una cosa che uno non è in grado neanche di guardare. E quando è così, la ragione è usata come misura:
non riesco a vedere tutta la realtà di quello che ho davanti, neanche di me.
Occorre – e questo non ce lo possiamo dare noi stessi davanti a certe
circostanze – una Presenza, cara e amata, che io non posso far fuori nel
momento in cui mi trovo davanti a queste cose, e che impedisce la vittoria
dellaragione come misura. E qui mi viene sempre in mente una frase di
Giussani: «È il cuore […] la condizione dell’attuarsi sano della ragione.
La condizione perché la ragione sia ragione [stia aperta alla totalità di
quella realtà che ho davanti senza censurare niente] è che l’affettività la
investa e così muova tutto l’uomo». E che cosa può investire tutta la vita di questa affezione che consente di guardare tutto? Non è un meccanismo, è soltanto
una Presenza che è in grado di calamitare tutta la
mia vita in modo tale da poter guardare – nella compagnia della Sua Presenza –
tutto. E questo, come ha detto lei, non lo posso fare da me soltanto; devo
essere costantemente riaperto a questa totalità; nessuno può mantenersi da sé
in questo atteggiamento, se non perché Cristo riaccade come contemporaneo e ci consente di stare davanti alla realtà.
È questo che abbiamo visto di nuovo il 26 gennaio: senza che riaccada
l’Avvenimento, senza una realtà che ci educa, senza una Presenza che
ci salva costantemente da questa riduzione, noi non guardiamo o non ci interessiamo. Per questo

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l’unica possibilità di salvare la ragione così, di salvare un’affezione così, è che siamo costantemente
calamitati da una Presenza, che diventi così familiare che niente possa bloccarci.


Domenica a messa mi ha molto colpito la lettura sulla Samaritana, motivo
per cui stasera sonoqua, nel senso che mi sono sentita proprio come la
Samaritana che molla la brocca e corre a direquello che le sta capitando.
Quello che mi capita è quello che hai detto tu, cioè che è solo
l ’eccezionalità di una Presenza che spalanca la tua ragione e il tuo
sentimento. Io questo possodire di averlo visto in due situazioni totalmente opposte, una di dramma e una di gioia, ma il comune denominatore è lo stesso.
Io ho avuto uno tsunami che è stata una malattia che per cinque mesi mi ha
devastato nel fisico e non solo. Ho dovuto come cedere a quello che capitava dentro tutto il dramma. Adesso invece mi è capitata – dopo spiego il senso di entrambe le esperienze – un’esperienza di gioia nel lavoro. Ho fatto esperienza
di quel che ci diciamo sempre: che il metodo è quello dell’adesione alla
realtà per quello che è. È stata una duplice sorpresa di un Altro che
accade e che ti fa riguardare le stesse cose con occhi nuovi; è un periodo di
grande grazia per me,perché mi sento davvero investita da questa Presenza che mi supera da tutte le parti. Io questa cosal’ho capita in tutte e due le esperienze. Sicuramente la più forte è stata quella della malattia, perché lì è stato
evidente in modo molto più drammatico se vogliamo, che non mi faccio da me,
ma ancora di più adesso, perché anche se sta partendo una nuova avventura lavorativa, non è mia neanche questa, è proprio il dono di un Altro che si fa presente. Un’altra cosa mi ha molto colpito. Qui dice: «L’amore che ci può
persuadere a questo lavoro (…) [perché davvero bisogna trapassare la crosta
– come si diceva – delle opinioni] è l’amore a noi stessi come destino».
Io ci pensavo e dicevo:l’amore a me come destino è l’amore a me come desiderio
di rispondere continuamente a ciò che un Altro mi chiede, è la vocazione,
niente altro che questo. Come esempio della questione di trapassare la crosta
dico un’ultima cosa, perché per me anche questa è un dono grandissimo in
questo periodo. Io gli incontri più significativi li ho fatti attraverso
delle persone totalmente corrispondenti, sono stata fortunatissima. Che cosa è successo da un certo periodo a questa parte? Che ho cominciato a vedere con chiarezza la corrispondenza dentro un rapporto non così “immediato”. Eppure, paradossalmente, mi sta facendo attraversare quella crosta. Perché?
Siccome vedo che questa persona è innamorata davvero di Cristo, questo mi
costringe ogni volta adover decidere: mi fermo o vado oltre? Ma se vado oltre,
non è per una mia capacità, ma perché vedo in questa persona quello che desidero anche io.
E che cosa fa sì che uno possa non fermarsi e andare oltre? O che cosa consente che uno possa affermare qualcosa senza che
diventi possesso? E qui ritorniamo a quello che dicevamo prima, che
senza questa contemporaneità è inevitabile che io affermi qualcosa come
possesso o che io mi fermi. La questione è che cosa ci libera da questo modo
di possedere. Che cosa occorre che si introduca nella vita perché io possa rapportarmi con il reale liberato da questo desiderio di possesso? O che io
non mi blocchi davanti ai limiti dell’altro? Questo è quello che ciascuno deve
cercare di riconoscere quando succede: che cosa mi impedisce di non bloccarmi?


Il lavoro sulle tre premesse mi sembra che trovi una magnifica sintesi nella frase di san Paolo
quando dice: «La realtà invece è Cristo», «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» «e
morire è un guadagno». Mi sembra infatti che il realismo si identifichi proprio con il
riconoscimento che la realtà, cioè l’oggetto, è Cristo, e che questo spalanca la ragione; tutti i
fattori della realtà concorrono al bene di coloro che amano Dio, per poi giungere al capitolo di
oggi: morire è un guadagno, cioè amare la verità più di se stessi è un guadagno. Infatti a pagina 42
dice: «La regola morale: (è) l’amore alla verità dell’oggetto più di quanto si sia attaccati alle
opinioni che già ci siamo fatti su di esso». Poi parla del distacco di sé e dell’amore a noi stessi
come destino, condizione per persuaderci a questo lavoro. È una premessa per rispondere: ma
quando mi sono sorpresa riconoscendo l’incidenza della moralità nella conoscenza? Parto
dall’esperienza che più di altre documenta nella mia vita questo lavoro di ascesi, cioè il mio

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rapporto coniugale. Di fronte a questa esperienza vocazionale non mi sono mai potuta permettere –
per fortuna – di leggere la Scuola di comunità e impararla a memoria, men che meno di mutuare
da altri il metodo, come dice a pagina 5: «Il metodo (…) è imposto dall’oggetto». Nell’esperienza
di cui vi parlo l’oggetto in questione è proprio mio marito, la sua storia, la sua cultura, il suo
paese, i suoi gusti: belga e figlio della cultura razionalista nordeuropea lui, radicatissima nella
tradizione cattolica del sud Italia io (con l’“aggravante” di essere impostata in termini di metodo
dall’incontro con il carisma di Cl). Come fanno questi due mondi a convivere? Per spiegare questa
cosa mi permetto di usare un tuo passaggio, don Carrón, tratto dal libro Allargare la ragione, a
pagina 23. Partiamo da un primo fatto, che io e mio marito appartenenti a mondi estranei, ci
incontriamo e diventiamo amici, e partiamo anche da un altro fatto e cioè che questo incontro sia
l’inizio di un cammino che porta a una conoscenza reciproca grazie alla disponibilità sia sua che
mia di allargare la ragione. Questa «non è semplicemente una vicenda privata per quanto
edificante. Esso ha una portata più ampia del perimetro del rapporto tra i due», a maggior ragione
la nostra che è un’amicizia coniugale. La nostra esperienza «costituisce una vera e propria novità
in un contesto culturale che oscilla tra lo scontro e l’indif erenza. (…) Cosa permette che si diventi
amici pur essendo storicamente determinati da tradizioni e culture diverse? È la presenza in
ognuno di noi (…) della stessa esperienza elementare, (è il) cuore». In concreto quello che è
scattato nel nostro rapporto è quello che il don Gius dice a pagina 42: «Il desiderio sincero di
conoscere l’oggetto in questione in modo vero più di quanto noi si sia abbarbicati a opinioni già
fatte o inculcate». In questo contesto vi racconto un fatto come esito di questo lavoro e che,
secondo me, forse risponde ancora di più alla domanda. Mercoledì scorso c’era Scuola di
comunità di ripresa, e mio marito mi manda un messaggio: «Un mio amico viene anche lui. Ci
vediamo insieme e poi andiamo». Io non l’avevo mai visto, anche se mio marito mi aveva parlato
del loro incontro per motivi di lavoro. Durante la cena insieme rimango, in crescendo, sempre più
sorpresa, perché questo amico mi racconta che mio marito era da tempo che gli parlava del
movimento ed era arrivato anche a regalargli Il senso religioso. Tra l’altro, questo amico è qui
stasera perché ha proprio chiesto di venire a questa Scuola di comunità... Non mi dilungo su altri
dettagli importanti per motivi di sintesi. A me questo avvenimento ha molto sorpreso, perché mio
marito mi ha testimoniato cosa vuol dire amare la verità più di se stessi e questo fatto, come tanti
altri, dice di un’apertura della ragione e di una grande lealtà con il proprio desiderio. Però, a
partire proprio da questa esperienza, desidero far fuori una questione, che c’è tra me e lui, perché
continua a dire: «Io non lo vedo questo Cristo presente, non so cosa vuole dire la contemporaneità
di Cristo». Però, cosa fa? Invita un suo amico alla Scuola di comunità. Sembra esserci
un’apparente contraddizione. Questa cosa mi ha fatto riflettere innanzitutto su di me, perché
quante volte capita che Cristo opera anche attraverso di me e io non me ne accorgo, cioè non
faccio il passo del riconoscimento. Ti chiedo: non è forse una questione di metodo? Non è forse che
invece che applicare il metodo della certezza morale noi applichiamo il metodo razionale, del
dimostrabile? Se puoi, per favore, ti chiedo di ritornare sulla questione della certezza morale.

Mi sembra che tu e tuo marito sappiate bene che cos’è la certezza morale. Allora la questione non è
ripetere una definizione, la definizione ce l’avete nel libro; il problema è che questo allargamento
della ragione in voi due è una sfida per te: «Io non lo vedo Cristo presente». Tuo marito dovrà fare
il suo percorso, tu devi fare il tuo. Tu che suggerimento, che indicazione, che segnalazione gli puoi
dare perché possa fare questo percorso, in modo tale che lui possa trovare nell’esperienza che vive
qualcosa che gli facilita questo riconoscimento? Non è questione di spiegare di nuovo il metodo,
ché già lo sai, ma di mettersi a usarlo. Questa è un’ipotesi di lavoro affinchè ciascuno possa mettersi
davanti al reale e possa lasciare emergere da questa esperienza, da questa realtà che viviamo, il
riconoscimento di Cristo. Per questo occorre un lavoro, occorre un’attenzione al reale, una capacità
di abbracciare qualsiasi aspetto, qualsiasi barlume che possa servire per rintracciare quello che sta
cercando.


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Viene a casa mia un amico sposato e da qualche tempo separato e mi dice: «Io mi sono accorto, nel
percorso che ho fatto, che tra me e mia moglie non c’è possibilità di convivenza. Le abbiamo
provate tutte, ci vogliamo anche bene, molto, ma umanamente non è possibile». Poi si ferma – e
sembrava che tutto fosse finito così – e dice: «Umanamente non è possibile, però il percorso che
stiamo facendo, il lavoro che stiamo facendo mi ha così provocato che mi chiedo, siccome io il
contraccolpo di quella corrispondenza l’ho sentita su di me e mi ha cambiato la vita, cosa vuol
dire. Non posso lasciarla cadere». Questa cosa a me ha provocato un interesse ad andare a
conoscere qual è l’oggetto di cui stiamo parlando, non potevo fermarmi, e mi sono trovata per la
prima volta che non avevo da dire: «Va bene, non va bene, potresti fare, non potresti fare», ero
davanti a una cosa totalmente nuova. Lascio qui un attimo questo fatto per raccontarne un altro
che mi è accaduto a scuola, per dirti poi cosa ho capito. A scuola – io lavoro alle elementari – una
settimana e mezzo fa un insegnante di sostegno, che negli ultimi anni è continuamente rimbalzato
tra un istituto e un altro, viene contestato dai genitori che chiedono sia spostato. Ef ettivamente lui
è molto in dif icoltà, probabilmente non è adatto a questo lavoro. Ci ritroviamo in sala insegnanti
in cinque o sei, con lui presente, con lui che io avevo giudicato così come ho detto, e mentre
parliamo di lui, lui dice: «Guardate, io posso anche andare in biblioteca a lavorare. Ho
cinquantadue anni, sono solo, non ho nessuno, mia madre tutte le sere mi telefona dalla Sicilia e mi
dice: “Senti, anche questa volta ti è successo?”. E io non ho un lavoro, non so come fare a
mantenermi». In quel momento mi son chiesta: ma io che l’ho giudicato esattamente così, fino a
quel momento assolutamente certa del giudizio che avevo dato, veramente sono interessata
all’altro? Come mi interpella questa cosa che ha detto? Io quello che ho capito, Carrón, è questo:
che se non mi fosse ridonato nel presente il contraccolpo di una corrispondenza che c’è, la mia
opinione personale, che è sempre non solo approssimativa ma a volte inadeguata e totalmente
sfasata, non avrei modo di superarla; è così, non me ne libererei.


È così. Questo ci introduce al contenuto del Volantone di Pasqua di quest’anno, perché è proprio la
risposta a questo che hai appena detto. E lo capiamo ancora di più con negli occhi le immagini di
quel che è successo in Giappone, davanti alle quali ci rendiamo veramente conto di che cosa siamo
e di qual è la portata di quello che a noi è capitato. Quando vediamo spazzare via in un istante tutto,
le nostre opinioni traballanti e le nostre preoccupazioni piccole che cosa significano? Che cosa ci
consente di stare davanti a una cosa così? Vorrei rileggere quel pezzo dell’Introduzione a Il rischio
educativo che sempre più risponde al nostro bisogno: «Ero profondamente persuaso che una fede
che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa [una fede
confermata dall’esperienza stessa], utile a rispondere alle sue esigenze non sarebbe stata una fede in
grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto». Mi viene in mente questo
perché, come abbiamo detto in altre occasioni, se noi non facciamo un’esperienza di questo calibro,
se non troviamo nell’esperienza l’evidenza delle sue ragioni, noi davanti alla malattia, davanti al
dolore, davanti alle circostanze brutte, davanti a quello che non ci piace, non siamo in grado di
tenere tutta l’affezione e tutta la ragione aperta; occorre che ci sia qualcosa di presente che ci
calamiti e che ci convinca di questo. E – come dicevi – può essere solo in un’esperienza presente
che noi troviamo la conferma della sua ragionevolezza, dell’interesse per la vita, altrimenti qualsiasi
tsunami spazza via tutto. Per questo, dicevo, non basta un’esperienza della quale, poi, dobbiamo
chiedere la conferma a qualcuno fuori di noi. Questo mi ha fatto andare a cercare la prima
premessa, dove Giussani dice: «Se non si partisse dall’indagine esistenziale [dall’esperienza],
sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro [e questo sarebbe
semplicemente fragile davanti agli tsunami della vita]. Il che […] renderebbe l’opinione altrui
supplenza di un lavoro che mi compete». In questo noi tante volte siamo pigri e chiediamo all’altro
che supplisca un lavoro che compete a noi, perché sono io che ne ho bisogno e non mi deve essere
risparmiato. Se sei madre o padre, non puoi evitare, a volte, la tentazione di risparmiarlo a tuo
figlio, ma il figlio ha bisogno dell’evidenza dell’esperienza che fa per poter stare nel reale; e senza
questa esperienza qualsiasi cosa lo fa fuori. Dovete pensare bene che cosa vuol dire amare l’altro,

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perché tante volte noi cerchiamo di supplire questo lavoro che ci compete, e allora noi siamo
proprio alienati. Ma come posso io fare esperienza di questo nel presente? Questa è la grande frase
del Papa che troverete sul Volantone, tratta dal suo ultimo libro: «“Ma se Cristo non è risorto, vuota
allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Cor 15,14s). La fede cristiana sta o
cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si
può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e
sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del
mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso non è più il criterio di misura; criterio è
allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie dal suo patrimonio ciò che sembra utile [il
cristianesimo sarebbe soltanto un patrimonio di idee sull’uomo, sul mondo, di cui ciascuno può
prendere quello che gli piace o gli interessa o sceglie]. Questo significa che siamo abbandonati a noi
stessi [soli come cani: possiamo continuare a discutere sul patrimonio del cristianesimo, sulla
valutazione, sui valori, su distinte interpretazioni del cristianesimo, ma abbandonati a noi stessi]. La
nostra valutazione personale è l’ultima istanza. Solo se Gesù è risorto [cioè se è successo un fatto],
è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell’uomo. Allora
Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è veramente
manifestato». Guardate che qui c’è tutto quello che è in gioco, e i fatti del Giappone ce lo rendono
ancora più palese: se Cristo non è risorto, che cosa resta delle nostre idee più o meno geniali, dei
nostri tentativi? Siamo abbandonati a noi stessi. Ma come questo può diventare per noi
un’esperienza? Come dicevi tu, attraverso un incontro presente. Ma la tentazione di ridurre il
cristianesimo a patrimonio l’abbiamo ancora, cioè anche il carisma può correre lo stesso rischio se
esso è soltanto un patrimonio da cui ciascuno prende lo spunto più gradito a sé – si può discutere
sulle interpretazioni del patrimonio, ma noi siamo abbandonati di nuovo a noi stessi: per smarrire la
strada bastiamo ampiamente noi stessi… –. Allora la questione è se quello che è capitato a noi, se
quello che ci ha affascinato, può rimanere presente, non soltanto come qualcosa che ho imparato
come patrimonio, perché in tante occasioni non è che non sappiamo quello che dice Giussani.
L’altra settimana in un’assemblea uno è intervenuto, io sono assolutamente certo che lui sapeva che
il vertice della ragione è la categoria della possibilità, l’avrà ripetuto migliaia di volte! Ma ha detto:
«È solo da due anni che io veramente credo possibile la realizzazione vera di me», perché non basta
accanirsi sull’espressione, puoi parlare di categoria della possibilità ed essere razionalisticamente
convinto che non possa succedere. Infatti, il brano di don Giussani che c’è sul Volantone è la
risposta a una domanda che gli aveva fatto uno a un raduno del Gruppo adulto. In quel periodo il
don Gius, prendendo spunto dal pensatore Finkielkraut, aveva particolarmente sottolineato che la
conoscenza è sempre un avvenimento. E questo amico chiese: «Ma allora, se si conosce soltanto per
avvenimento, tutto quel che ho cercato di imparare di quanto ci hai detto durante questi anni, e che
mi sono impegnato ad approfondire, è una gabbia del “già saputo” che mi impedisce di
conoscere?». Giussani rispose che aveva perfettamente ragione, a meno che non succeda quello che
è, appunto, riportato sul Volantone: «L’avvenimento non identifica soltanto qualcosa che è accaduto
e con cui tutto è iniziato, ma ciò che desta il presente, definisce il presente, dà contenuto al presente,
rende possibile il presente. Ciò che si sa o ciò che si ha diventa esperienza se quello che si sa o si ha
è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti
ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo “ora” non
c’è niente! Il nostro io non può essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non da una
contemporaneità: un avvenimento. Cristo è qualcosa che mi sta accadendo [ora]. Allora, perché
quello che sappiamo – Cristo, tutto il discorso su Cristo [potete metterci tutto quello che volete] –
sia esperienza, occorre che sia un presente che ci provoca e percuote: è un presente [attenzione!]
come per Andrea e per Giovanni è stato un presente. Il cristianesimo, Cristo, è esattamente quello
che fu per Andrea e Giovanni quando gli andavano dietro; immaginate quando si voltò, e come
furono colpiti! E quando andarono a casa sua… È sempre così fino adesso, fino in questo
momento!». Se non è così fino a questo momento, il cristianesimo ha già incominciato a diventare

8un patrimonio che ci lascia abbandonati a noi stessi e che non è in grado di cambiarci. Per questo
tutta la moralità si gioca davanti al presente, davanti alla modalità con cui Lui mi attrae, mi attira,
mi provoca. E allora tutto è semplice, basta la semplicità di cuore, cioè essere veramente se stessi
(invece che partire dall’immagine che uno ha di sé).
E questo è il punto successivo della Scuola di comunità. Se quello che vogliamo capire è il senso
religioso, e il senso religioso è un’esperienza che succede in noi, il punto di partenza è partire da noi
stessi. Ma non da noi stessi – di nuovo – come introspezione, come “già saputo”, bensì da noi stessi
in azione, per sorprendere i fattori che emergono nell’esperienza. Perché è soltanto se noi partiamo
da questo che potremo veramente vedere qual è la realtà vera del nostro io, quali sono i fattori
costitutivi del nostro io. E questo succede soltanto se noi ci impegniamo; dice don Giussani che i
fattori costitutivi dell’umano si percepiscono là dove sono impegnati nell’azione, altrimenti non
sono rilevabili. E aggiunge: «La condizione per poter [ecco di nuovo la parola] sorprendere in noi
l’esistenza e la natura di un fattore portante, decisivo come il senso religioso, è l’impegno con la
vita intera». Non con quello che decidiamo noi: con la vita intera! Allora se è così, si capisce perché
il quarto capitolo comincia dicendo che il vero problema non è quello di una particolare
intelligenza, ma è un problema di attenzione: sorprendere in azione i fattori costitutivi dell’io.
Per questo il lavoro che dobbiamo fare per la prossima volta è vivere l’attenzione per sorprenderci
in azione, cercando di rispondere a questa domanda: che cosa ho scoperto di me sorprendendomi in
azione? Perché così verrà fuori il vero bisogno che ci metterà davanti alla Sua presenza con una
facilità di riconoscimento, con una povertà di spirito.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 6 aprile alle ore 21.30 sul quarto capitolo «Il
senso religioso: il punto di partenza». Vi raccomando di far avere le domande e gli interventi per la
Scuola di comunità entro la domenica precedente l’incontro, così possiamo usarli.
È in uscita il Volantone di Pasqua, che sarà disponibile nei prossimi giorni. Mi sembra che con
questo abbiamo già introdotto il lavoro che può essere decisivo nei prossimi tempi; niente sembra
più adeguato al momento storico che viviamo. Non è una parola per uso interno; è allo stesso tempo
il giudizio su di noi e sul mondo, perché davanti allo tsunami che cos’altro abbiamo da offrire che
non sembri assolutamente impresentabile se non dire che Cristo è risorto? Che cosa tiene davanti a
una situazione così? Non abbiamo altro di più adeguato da dire, da offrire a noi stessi e ai nostri
amici che il Volantone, col suo contenuto.
• Gloria
• Veni Sancte Spiritus

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