sabato 12 marzo 2011

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón 23 febbraio 2011

Testo di riferimento: L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, pp. 17-30.
• Errore di prospettiva
• Lela
Gloria
Ci eravamo dati due domande per il nostro lavoro di questi quindici giorni: quando abbiamo sorpreso in noi un uso vero dalla ragione (cioè come coscienza della realtà secondo tutti i fattori) e quando abbiamo percepito la ragionevolezza del nostro agire? Sono domande che cercavano di invitare ciascuno di noi a sorprendere nell’esperienza quando succede questo, secondo il metodo che ci ha insegnato don Giussani già dal primo capitolo: che il punto di partenza per fare la strada si chiama esperienza.

Volevo dire una cosa proprio su questo metodo, perché io ho accettato di fare la Scuola di comunità in questi quindici giorni rispondendo a queste domande, prima ancora di andare a chiarirmi le idee sui contenuti. Che cosa è successo? Che nei primi due giorni avevo già risposto perché dicevo: «Mai». Cioè mi sono trovata molto in difficoltà di fronte a questa domanda. E questo mi ha spinto a riprendere anche i contenuti. Riprendendo i contenuti, e soprattutto leggendo
tutti gli esempi che fa sulla ragionevolezza, ho compreso che non avevo mai capito che la ragionevolezza è un’esigenza, e quindi facevo l’errore di tradurre
la tua domanda così: quando sono stata brava nell’usare la ragione? E quindi ero incastrata, perché ovviamente la risposta è: mai. Mentre la ragionevolezza è un’esigenza! Per cui è cambiato tutto, perché poi sono andata a cercare quando mi sono sorpresa a sentire come bisogno quello della totalità dei fattori e allora
lì sì che ho cominciato a rispondere, ma alla luce del fatto che avevo finalmente, per la prima volta,sentito la ragionevolezza non come una necessità, ma come un’esigenza. Ho scoperto che la conoscenza di una cosa veramente avviene per un incontro, perché io all’inizio ho dovuto accettare di non aver tutto chiaro, ma di cominciare a rispondere a questa domanda.

Ti ringrazio perché questo ci introduce al tipo di lavoro che cerchiamo di imparare a fare, perché tu– lo so bene – conoscevi già bene la premessa, che cos’è la ragione, che cos’è la ragionevolezza.
Ma quello che ti urge a riprendere anche i contenuti di quello che dice il testo è la percezione di una esigenza. Già l’altra volta mi aveva colpito che tante volte la difficoltà che abbiamo nel giudizio è la stessa: noi il giudizio lo pensiamo come qualcosa di aggiunto, di appiccicato al reale (e allora dire
che occorre giudicare è qualcosa per gente che si complica la vita). E se uno esce di qui con questa convinzione di fondo, anche se impara “che cos’è” il giudizio, non gli serve a niente. Ma se voi avete un amico o una persona cara o la mamma che ha certi segni di una malattia grave e sta cominciando a fare gli accertamenti per verificare che cosa ha, vi urge il giudizio o no? O pensate che questa è una cosa appiccicata? Che l’importante è andare avanti e che si può passare sopra al
giudizio? Quando la vita urge il giudizio è un bisogno, è un’urgenza: ho bisogno di sapere se la mamma ha il tumore o no! Giudicare è un bisogno! Se non capiamo questo, se non lo percepiamo nell’esperienza, anche se studiamo benissimo tutti i passaggi del primo capitolo, rimarrà sempre come qualcosa per qualcuno che si complica le cose, e non lo sentiremo di certo necessario per una liberazione.
Questo lo possiamo fare rispetto alle grandi questioni come alle piccole
preoccupazioni: quante volte, durante questi quindici giorni, avete sentito
l’urgenza di giudicarle?
Tante volte le sopportiamo, sono lì che incombono su di noi rendendo la vita pesante, e non le guardiamo in faccia, non le giudichiamo, e perciò non sperimentiamo mai la liberazione. E possiamo aver riletto tutto il capitolo de
Il senso religioso, ma se non succede questo,, noi il capitolo
non l’abbiamo imparato. Mi è venuto in mente questo mentre sentivo parlare lei, ripensando ad
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alcune delle urgenze che mi avete scritto nelle mail – ne sono arrivate più di duecento: questo vuol dire che quando siamo richiamati ci mettiamo al lavoro –. Per esempio, tanti sono preoccupati che andiamo troppo in fretta; può essere vero, ma mi interessa che, a proposito di questo, ci rendiamo conto di un errore: non è che ripeterci per più tempo le definizioni giuste ci faccia di per sé arrivare a usare la ragione in un modo più vero. Infatti tanti di noi il concetto vero di ragione lo sanno; sono sicuro che se domandassi: «Ma che cos’è la ragione secondo don Giussani?», tutti mi direste:«Coscienza della realtà secondo tutti i fattori».
Vero? Tutti.Ma uno con il concetto vero di ragione può continuare a essere un razionalista, cioè a usare la ragione secondo una misura! Questo è il problema. E per questo nella presentazione avevamo detto che è la contemporaneità di Cristo che
consente alla ragione tutta la sua apertura, permettendo di raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta: ogni circostanza, ogni cosa, anche
la più banale, è esaltata, capiamo tutta la sua portata. Ma chi ci consente di usare la ragione così? Il rileggere più accanitamente Il senso religioso? È uno studio più approfondito quello che ci fa fare automaticamente esperienza delle
parole del don Gius?


Appena ho letto la domanda che hai posto due settimane fa, la prima cosa che ho pensato è stata che è impossibile. Avere coscienza del reale secondo tutti i fattori è un’utopia. Ed ero tutto chiuso su un’immagine che io avevo di ragione come misura, cioè come capacità di elencare analiticamente tutti i fattori descrittivi
di quello che mi accade davanti. Ma quello che poi mi ha liberato da questa immagine sono state due esperienze in cui mi sono sorpreso a vivere la ragione non secondo l’immagine che ne avevo, ma secondo la natura che è. La prima esperienza è stata quella che ho vissuto al weekend dell’Assemblea Responsabili dell’Italia a Pacengo.
Da lì deriva la Pagina Uno del Tracce di marzo: «L’evidenza dell’esperienza», che vi raccomando di leggere.

Lì, davanti a me, è accaduto un fatto che era così affascinante, così totalizzante, così “per me”, che l’unica cosa che ho dovuto fare è stata accorgermi di quella Presenza che stava accadendo, cioè accorgermi ancora una volta che Cristo è
Memor mei (nonostante tutta la mia meschinità). E,come dicevi tu al Palasharp: «Nella fede cristiana non vi è una ragione che spiega, ma una ragione
che si apre – percependosi così finalmente compiuta nella sua dinamica – allo svelarsi stesso di Dio». E davanti al fatto di Cristo questo è riaccaduto con un’evidenza che è impressionante,soprattutto quando dici che la ragione si compie nella sua dinamica. Esperienzialmente questo l’ho visto perché io coincidevo
con me stesso lì, come desiderio di essere felice, come capacità di riconoscere che Cristo è vero, è reale, è risorto ma non perché lo diciamo, ma perché io posso riconoscerLo nel reale. E lì, dall’interno di questa esperienza, mi sono
accorto che è questa passività nel riconoscerLo ciò per cui io sono fatto,
perché quando accade ti accorgi che la ragione è questa apertura nel riconoscere
Lui quando irrompe nella vita. La seconda esperienza è questa.
Sabato sera ero a cena con un gruppo di universitari e a un certo punto uno di
questi mi racconta che circa un anno fa un suo amico è morto in un incidente
stradale e che qualche mese fa un altro suo amico, sempre più o meno della mia
età, si è suicidato. E lì che cosa puoi dire, di fronte a un
dramma così? La vertigine era così grande che in un primo istante mi sembrava di
non poter dire nulla di ragionevole, di profondamente vero. Ma quello che mi
sono sorpreso anche lì a riconoscere è stato questo, ancora una volta: che in me innanzitutto c’è un fattore che è irriducibile, che io sono ora rapporto con
il Mistero, per il fatto che ci sono, per il fatto che esisto e per il fatto che
ho una domanda di significato che supera tutto quello che mi sta intorno. Io sono rapporto infinito ora, e questo nucleo di me, di cui mi sono reso conto da quando ho incontrato Cristo un anno e mezzo fa, non può morire,
non può essere spazzato via, perché non è riducibile a questo mondo. E questo
nucleo che è in me, che io sono, è la verità di quei due ragazzi che sono
morti, che non sono finiti nel nulla. Di questo sono certo: che neanche la
morte è in grado di spezzare il nesso che io vivo con il Mistero.
E riconoscere questo nesso quella sera per me è stato usare la ragione in modo vero, cioè riconoscere la totalità di quel fatto che mi è stato posto davanti. Veramente io non avevo in mano niente della loro vita, non so neanche i loro nomi, ma
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percepirli nel loro essere fatti e voluti da un Altro è stato riconoscere il reale per la totalità che è.
Ultima cosa. Questo per me è un altro segno della pertinenza della fede alle esigenze della vita,
cioè che la mia ragione rimane spalancata senza soccombere al dolore, alla vertigine di fronte a un
fatto come quello, perché ancora una volta è stata riallargata da quello che mi è accaduto quel
weekend, cioè dall’imporsi di Cristo nella mia vita.

Grazie.
Se noi guardiamo queste due esperienze, cosa ci dicono? Che la ragione riesce a essere veramente se stessa davanti a un fatto che la prende totalmente (per questo Giussani continua a dire che Giovanni e Andrea sono l’esempio dell’intelligenza,
di questa ragione che si apre, che si compie) o davanti alla morte dove urge totalmente. Non è un ripetere un concetto di ragione, è vedere accadere questo concetto di ragione di cui don Giussani dopo ci dà la definizione. Ma la
definizione del concetto di ragione don Giussani da dove la tira fuori? E noi da
dove la possiamo tirare fuori? La possiamo tirare fuori dal riconoscimento dell’esperienza che facciamo. E allora uno capisce il contenuto del testo e
quando lo legge dice: «Ah! È questo». Noi questo passaggio che abbiamo cercato
di spiegare nella presentazione (e siccome tutti vi aspettavate che io vi
“spiegassi” Il senso religioso, siete stati spiazzati) non l’abbiamo
ancora colto, perché tutto quanto ci ha detto Giussani è che noi non siamo in
grado di ridestarci il senso religioso, di ridestarci la ragione, di
ridestarci l’esigenza del nostro io e tutta la nostra libertà; e che per
questo occorre Cristo, ché
soltanto Lui ridesta il senso religioso, lo educa e lo salva. Per questo
l’educazione al senso religioso sta succedendo costantemente nel modo in
cui noi viviamo la vita; la questione è se noi siamo attenti a quello che
accade, e allora possiamo incominciare a capire che cosa è quello che dice
Giussani; e possiamo ritornare al testo, rileggerlo, e allora ogni parola acquista una carnalità. Non è diverso il metodo da quello che abbiamo detto rispetto
alla Bibbia, citando Sant’Agostino: «Nei nostri occhi i fatti, nelle nostre mani
i codici». Il lavoro che vi propongo e che propone Giussani è questo; se ci dice
che noi non siamo in grado di ridestare tutto il senso religioso, ce lo dice per
la consapevolezza che ha e che gli ha consentito di scrivere Il senso religioso:
perché gli è accaduto qualcosa che gli ha fatto capire. Allora: nei nostri occhi
i fatti. E con i fatti negli occhi possiamo andare a rileggere il testo, e allora
lo capiamo – e smetteremo di dire che il testo è complicato,perché è
complicato solo per chi travolge il metodo –. Che succeda una cosa che ti
spalanca tutto e ti lascia senza parole, questo non solo è difficile: è impossibile. Ma quando accade è facilissimo, anche se non lo possiamo
generare noi. E allora uno capisce che il vero concetto di ragione è la
ragione che si apre e che capisce che ha tutti i fattori come mai prima.
Come quando uno si innamora; non è l’analisi di tutto (i capelli piuttosto che
la faccia, piuttosto che l’altezza), ma è la capacità di cogliere il reale in
tutti i fattori cosicché mai come in quel momento hai colto, hai capito
che cosa hai davanti, mai come in quel momento la ragione è diventata ragione.
Mai come in quel momento la ragione compie la sua natura di ragione: coscienza
della realtà secondo tutti i fattori. È questa esaltazione che l’esperienza religiosa, cristiana, rende possibile. Vi leggo come questo, poi,
diventa una tensione a entrare in tutto, per esempio nel lavoro: «Caro
don Carrón, volevo innanzitutto dirti che trovo utilissime le domande che ci
poni come traccia del lavoro. Parto al mattino con dentro queste domande,
tesa a vedere come il Mistero si mostra nell’esperienza. Mi sono accorta che è proprio l’attrattiva di Cristo che facilita quell’apertura che sarebbe
impossibile senza di Lui. Inizio a fare esperienza di quello che ci hai
ricordato alla presentazione de Il senso religioso, cioè che la contemporaneità di Cristo consente così alla ragione tutta la sua apertura permettendole di
raggiungere un’intelligenza della realtà prima sconosciuta. Ogni cosa, ogni
circostanza, anche la più banale è esaltata, diventa segno, parla, è
interessante da vivere. Ci sono tanti piccoli fatti in cui ho sorpreso in me questa posizione di apertura riguardo al lavoro, alla famiglia, agli amici.
Per esempio l’altro giorno mi arriva la chiamata di un cliente che aveva
bisogno di un aiuto su una cosa di cui non mi occupo io, quindi gli stavo dicendo che lo avrei passato al collega che se ne occupava; subito mi
interrompe e mi dice che è da venti minuti che sta chiamando e che ogni volta gli veniva risposto così; ho capito che era una di quelle chiamate di cui nessuno si vuole occupare perché rognosa, e inizia quindi il palleggio da un collega all’altro. In quel momento mi è proprio venuto in mente in un attimo l’esperienza di un’amica che mi aveva

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raccontato di come stesse imparando da ogni persona aspetti dell’azienda dove lavora, e questo era possibile proprio da una
posizione di apertura che le permetteva di cogliere ogni aspetto con
un’attenzione e una intelligenza impensabili. In un attimo ho come colto
che quello era un pezzettino di realtà da guardare, da conoscere e non da
scaricare solo perché fastidiosa. E soltanto se uno comincia a fare questo può sperimentare che allora la vita non è prima di tutto da sopportare,
che c’è una possibilità di guadagno, di interesse per sé». Questo può capitare nel lavoro o può capitare nello studio
.

Per rispondere alle due domande, quando abbiamo sorpreso in noi un uso vero della ragione equando abbiamo percepito la ragionevolezza del nostro agire,
volevo raccontare un fatto. Mi sono laureata due settimane fa alla laurea triennale con una tesi sulla Russia in Clemente Rebora. Lo scopo del lavoro era quello di cercare di capire cosa avesse spinto il poeta verso la cultura russa e cosa di questa cultura lo affascinasse. È opinione abbastanza comune dai pochi scritti relativi a questo suo interesse che egli si avvicinò alla Russia grazie alla relazione con una pianista russa, ma a me pareva una spiegazione insufficiente,
che non esauriva le domande che io avevo sul perché di tanto coinvolgimento da
parte sua con questa cultura e su come mai egli preferisse certi autori
piuttosto che altri. Leggendo l’epistolario di Rebora ho iniziato a
formulare alcune ipotesi e intuizioni che lentamente si facevano più concrete,
ma ero sempre titubante a dire la mia e aspettavo di trovare la conferma
delle mie ipotesi in qualche critico di sicuro più esperto di me, che
ne sapesse di più in materia, dicendomi: «Ma se non lo dice lui che ne sa di
più, chi sono io per dirlo?». Anche di fronte a dei dati evidenti era come se avessi paura a dire la mia, se prima qualche esperto non me la avesse confermata. Sono andata, allora, da un professore della mia
università che ha scritto molti libri sul tema e gli ho esposto le mie considerazioni, sperando in un suo appoggio, ma mi ha risposto che stavo
andando fuori strada, che era meglio fare un lavoro più
tecnico e che l’unico, reale motivo che lui aveva per avvicinarsi
alla Russia era la donna di cui si era innamorato. Sono uscita di lì convinta
delle sue parole e mi sono rimessa al lavoro cercando di
mostrare i fatti che legavano Rebora alla Russia. Questi legami erano sempre
di più, ma la mia domanda sul perché di tale coinvolgimento, per capire cosa ci trovasse lui di così interessante non se ne andava; anzi, partendo proprio da uno studio più approfondito, si faceva sempre più forte. Ho deciso, allora, di
prenderla in considerazione e cercare di rispondervi seriamente. Si è aperto
così un campo interessantissimo, che mi ha fatto andare a fondo di questo studio e incontrare veramente il poeta. Mi ha stupito, infine, come di fronte a una commissione di filologi che potevano criticare molti aspetti del mio lavoro,
nessuno ha potuto dire niente, anzi, io ho potuto dire qualcosa di più
in merito a questo studio. Anche se non sono la massima esperta di Rebora,
posso dire di averlo conosciuto davvero, di possederlo davvero. Durante questo lavoro mi sono a volte chiesta cosa significasse essere cristiani facendo
una tesi e cosa c’entrasse Gesù in tutto questo. Ho spesso tentato di appiccicare un’etichetta e dire: «Gesù», ma non cambiava niente, a parte un
trasporto sentimentale che durava poco. Mi si è reso evidente, invece, che
un’intelligenza tale sullo studio non me la sono data da sola (perché vedo,
invece, spesso come io rimanga sulla superficie) e non è neanche frutto di una conoscenza totale di Rebora (perché – ripeto – non sono un’esperta). Eppure
mi sono trovata addosso una ragione che è stata capace di rendersi conto di
tutti i fattori in gioco e che mi ha permesso di non cancellare le domande
che avevo di fronte a quello che studiavo. Misono accorta che quel centuplo quaggiù di cui parliamo non è qualcosa di astratto, ma è questo
possesso più vero.

Questo è un esempio di come il fatto che ci è capitato può farci usare la ragione in un modo che non si trattiene nel “già
saputo” degli altri, ma continua a vivere questa tensione di entrare nel reale
avendo presente il desiderio di prendere tutti i fattori, anche quelli che gli
altri hanno già scartato. Equesto lo possiamo fare in ogni aspetto del reale.
Proprio su questo leggo ancora quel che scrive uno di voi: «Quando abbiamo
sorpreso in noi un uso vero della ragione? Penso a tutte le volte in cui mi
capitano momenti di malinconia triste. In questi momenti lo sguardo che ho
sulla realtà che sichiama “io” è tendenzialmente pessimista, deluso. Allora
essere ragionevole significa chiedermi:
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“Ma io sono quello che sto vedendo adesso, sono solo lo stato d’animo
che mi domina?”. La risposta è “no”. No, perché io sono desiderio di cui quello stesso disagio è un documento; sono una storia che ha tanti momenti positivi,
sono dei rapporti cui posso guardare, sono destinato a un bene
che ho già cominciato ad assaporare. Essere ragionevole significa alzare lo sguardo, non per illudermi, ma per vedere cose che lo stato d’animo offusca. Allora mi rendo conto che in quelmomento sto anche verificando la verità della fede, perché non aver paura del desiderio infinito èuna cosa che mi viene continuamente insegnata, ridestata. La positività della mia storia di uomo
viene tutta dall’incontro che ho fatto, la certezza del destino buono mi è testimoniata dal mio cammino ormai lungo nel movimento e da tanti esempi che ho attorno. Posso quindi concludere cheanche i momenti di malinconia sono una
tappa del cammino e così mi capita la sorpresa disperimentare ciò che mi
sembrerebbe impossibile: un barlume di letizia [questo barlume di letizia
noi lo possiamo incominciare a percepire come esperienza usando la ragione così:
non è che ha avuto non so quale “trasporto”, semplicemente non è rimasto incastrato in un uso della ragione
come misura]. E questo stesso modo ragionevole di guardare mi capita di
utilizzarlo verso l’altro [immaginiamo nei rapporti di amicizia, immaginiamo
tra marito e moglie], che è di più dellareazione in cui lo vedo dibattersi,
del problema che pone, dell’errore che fa. Questo non è un atteggiamento di
bontà morale, è proprio un giudizio della ragione. Lo stesso avviene nei
confronti della realtà circostante; quante volte mi capita di vedere cose che
gli altri evidentemente non vedono: il sole che tramonta, o una signora chef
fatica a salire sull’autobus con la carrozzina. Anche in questo caso non è una questione di una certa moralità, ma proprio di una ragionevolezza. Allora
tutto incomincia ad avere un peso, una intensità, una capacità di profondità che rende tutto diverso».
E questo come possiamo acquistarlo sempre più? Che cosa lo rende possibile? Lo rende possibile questo ridestarsi continuo della ragione per un avvenimento
che ci educa costantemente a usarla così, fin quando diventi sempre più mia, più nostra. E allora quanto più uno sente questo, più ritorna al libro con questo
negli occhi, con questa urgenza di capire di più. Perché, allora, leggiamo Il
senso religioso? Perché è lì dove si descrive che cosa è la ragione, che cosa è
la ragionevolezza, che cosa è la certezza; e lì possiamo fare il paragone.
Ma noi possiamo riconoscere non in modo intellettualistico la portata di quello
che leggiamo, proprio perché succede. Allora la questione non è soltanto darci più
tempo, ma è vivere con questa intensità perché è lì dove noi impariamo, non nelle
definizioni che tutti sapremmo ripetere quasi perfettamente. Non si diventa meno razionalisti perché facciamo la critica della ragione (come dimostra Kant). Chi
ci libera dal razionalismo? Chi ci educa a vivere la ragione secondo tutti i fattori, a conoscere il reale? Questo è quello che Giussani ci diceva:
«Guardate che questo succede per un incontro, per un rapporto», non per un accanimento o soltanto leggendo in continuazione il libro; così come noi leggendo soltanto i Vangeli non saremmo arrivati a capire tutto quanto. Perché? Perché soltanto se vediamo i fatti nel presente, possiamo leggerli in tutta la loro profondità. Secondo me questo è decisivo per il cammino che stiamo facendo, altrimenti perdiamo ciò su cui tanto ha insistito Giussani: che il punto di partenza è l’Avvenimento come metodo, e che questo Avvenimento (l’incontro
con la contemporaneità di Cristo) potenzia l’evidenza elementare, potenzia l’uso della ragione, potenzia il senso del reale, potenzia la libertà, potenzia tutto.
E questo è veramente decisivo perché altrimenti, un istante dopo
il 26 gennaio, siamo già smarriti, aspettandoci la risposta solo da un
maggior approfondimento intellettuale. No! Perché se non usiamo la ragione in maniera sana, non vuol dire che dobbiamo “imparare” meglio i contenuti del
libro, ma che dobbiamo vivere con semplicità l’Avvenimento
cristiano che ci consente di usare la ragione così come don Gius ci documenta.



Volevo confrontare con te l’ultima cosa emersa dal lavoro di Scuola di comunità, anche perché poi volevo finire con una domanda personale. Il fatto scatenante è
stato l’incontro con un mio collega che mi raccontava dei problemi oggettivamente seri che ha con il figlio (secondo me un po’ aggravati forse dalla posizione sua e di sua moglie): «Vedi, noi abbiamo consultato molti specialisti; tanti ci danno definizioni e nessuno ci dice cosa dobbiamo fare». Di fronte alla sua
angoscia, la prima cosa che ho pensato è: «Non ha tutti i torti», e nello stesso tempo ho come
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cercato, mentre lui mi parlava, di aprire dei file per trovare delle frasi che potessi dirgli; fino a che l’unica conclusione a cui sono giunta è che a me
quello che ha permesso di poter reggere l’urto e il dramma della vita non è
stato avere di volta in volta delle istruzioni per l’uso, ma quel percorso che tu
continui a riproporci incessantemente, cioè partire dalla mia umanità così com’è
e dal reale come una possibilità di conoscenza e di verifica della speranza che
ho incontrato. Solo attraverso questo lavoro totalmente personale, in cui
nessuno mi si può sostituire, io posso reincontrare l’unico punto che tiene
e compie il bisogno che il mio cuore grida (sia nei momenti in cui il
dramma urge o anche nei momenti in cui sei invasa da una gioia profonda che
capisci che non ti dai e non ti puoi nemmeno mantenere). Da qui, però, è
scattata una serie di dinamiche in cui mi accorta che molto spesso nei rapporti,
nei dialoghi anche normali tra di noi, c’è il rischio di guardare subdolamente
alla realtà come attendendosi da essa qualcosa di risolutivo, cioè che in
fondo quel fatto di cui noi parliamo sia qualcosa che accade e ci sistema, e
quindi in qualche modo c’è sempre una grande disillusione. Io capisco che se
anche è vero che noi possiamo dire con verità che la realtà è Cristo, che noi
abbiamo sperimentato una corrispondenza che ci fa dire: «Ma dove
andiamo lontano da qui?», questo non ci impedisce di dover rifare
costantemente questo percorso.

Non è che non ce lo risparmia: è l’unica condizione che rende possibile farlo! Mi spiego? La maggioranza non lo fa perché è già incastrata. A noi non viene risparmiato niente, come vediamo; e senza la ragionevolezza che scaturisce dall’Avvenimento, davanti alla morte
siamo bloccati, davanti alle difficoltà siamo incastrati, davanti alle
circostanze siamo fermi. Qual è la differenza? Non che a noi viene risparmiato
il lavoro della ragione, ma che a noi è successo qualcosa che ci consente
ancora, malgrado tutto, di fare il percorso. Per un’educazione e per quello
che ci è capitato,possiamo veramente vivere da uomini con tutta l’esigenza della ragione, con tutto il percorso della libertà, vivere la circostanza, non
soltanto subirla. Questa è la verifica della fede, perché senza di
Lui questo noi ce lo sogniamo! Non è che a noi, per il fatto di aver
incontrato Cristo, venga risparmiata la vita; non ci viene risparmiato niente,
e non vogliamo che ci venga risparmiato niente.
Ma possiamo guardare in faccia la realtà, possiamo usare la ragione, possiamo fare il paragone, possiamo entrare nel reale, possiamo essere tutti tesi ad aspettare come Lui si svelerà davanti ai nostri occhi. Senza l’esperienza
cristiana, come vedete intorno a voi, è impensabile. Se viene meno il
cristianesimo, viene meno l’umano! Viene meno l’uso della ragione, viene
meno l’uso della libertà, viene meno il paragone, viene meno tutto. Questo potenziamento e sommovimento dell’umano è ciò che ci aspettiamo da questo luogo. Vi ho detto tante volte che ringraziavo don
Giussani anzitutto per questo: perché mi ha consentito di fare un cammino umano.
Non è che non avessi la fede; ma una fede vissuta così, come lui ce l’ha testimoniata, è quello che ridesta tutta la nostra capacità umana, la ragione, l’affezione, la libertà, l’intelligenza, tutto.


Tant’è che io sono andata a rileggermi tutto quel che tu avevi detto il 26 gennaio, e aveva tutta un’altra dimensione.

È questo il dialogo che dobbiamo avere con
quello che ci diciamo. Così come lei è andata a rileggerlo e allora l’ha capito
un po’ di più, così possiamo andare dopo questo nostro incontro a rileggere il capitolo sulla ragione, o domani quello sulla moralità nella conoscenza. È
questo dialogo che non finisce.
Non è che perché stiamo più tempo su una premessa, la capiamo di più. La capiamo di più perché vivendo e ritornando, vivendo e
ritornando, sperimentiamo finalmente ciò di cui stiamo parlando.



Quindi la domanda è: questa cosa che tu dici sempre – «Io non vorrei mai mi
fosse risparmiato niente» – perché mi mette sempre anche un po’ a disagio?

Perché vogliamo che ci vengano risparmiate le cose? Perché non sappiamo come affrontarle. Ma quando uno ha gli strumenti adeguati, allora desidera mettere
le mani in pasta. Provate a dirmi dino..
.
Magari non capisco ancora tutto, ma…

Ma uno che comincia a studiare così, come abbiamo sentito prima dalla nostra amica, vuole che gli venga risparmiato? No, è quello
che le desta tutto il desiderio di studiare di più. Se avesse cominciato a studiare così dall’inizio, figuratevi! Un festival, altro che la sopportazione dello

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studio! E così la vita, così ogni giorno. Questa è la promessa. Ma se noi non sperimentiamo che la
fede è per questo, che cavolo ci interessa la fede? Se non è perché ci ridesta tutte le nostre capacità
che abbiamo – la ragione, la libertà, l’affezione, tutto quanto, tutto il nostro io – e ci fa godere la
vita, non so dove è ragionevole.

Qualcosa che capisco è che se c’è in ballo un’umanità così, non mi interessa nient’altro.


Esatto. Allora quando abbiamo un’umanità così non soltanto non vogliamo che ci si risparmi niente,
ma vogliamo entrare nel reale così.


Volevo raccontare la vicenda della morte del papà di mio marito. È stata proprio l’evidenza
dell’impossibilità di far tacere il cuore e di
non giudicare. Mio suocero ha avuto un gravissimo
incidente
due settimane fa, è stato rianimato, portato in ospedale, attaccato a un’infinità di
apparecchiature. Quando siamo arrivati lì, prima
di tutto in mezzo alla tragedia ci scoprivamo
tranquilli, e
questo era una sorpresa guardandosi in faccia, e capivamo che l’origine
veniva da
questo lavoro. Era impossibile non giudicare, non far
parlare il cuore, perché c’è stata la riunione
con tutta la famiglia
e i medici hanno detto in modo molto sbrigativo: «In un’ora dovete decidere
se
staccare le macchine o no», dando dei criteri prima ma in modo
molto brutale, senza umanità, per
cui si è creata in tutta la
famiglia una repulsione a questa pressione. Per cui lì è stato evidente che
uno deve andar dentro nella realtà e capire le ragioni di quello che accade.
A me ha colpito, perché
questa famiglia è dif icile, alla fine di
questa riunione con i medici si è anche creata confusione.
Mio
marito ha chiesto subito una sala per riunire la famiglia e parlarsi.
Io l’ho guardato e ho
detto: «Cosa gli è saltato in testa?
Ma non lo sa come è questa famiglia?». Mi colpiva tantissimo
vedere mio marito tranquillo in questo frangente, e lui mi ha detto proprio che senza la coscienza
della presenza di Cristo, senza la preghiera e la visibile unità tra noi due per lui sarebbe stato
impossibile fare questo.
Quando mi ha detto così io mi sono detta: «Ecco perché, ci sei Tu, la
presenza è passata attraverso la sua libertà».


Cosa hai imparato tu da questo?

«Cosa dici tu, che giudizio dai? Perché?»: andavamo a cercare gli appunti di Scuola di comunità,
andavamo a rileggere, ci interrogavamo…
Vedete? Quando la vita urge davvero ritorniamo a tutto quel che ci diciamo.

Esatto, non potevamo mollare. A me questo ha colpito tanto perché al funerale alla fine han fatto
aspergere la bara da tutti i parenti. Quando è stato il mio turno è come uscito il dolore guardando
la foto che c’era sulla bara: non ti vedrò mai più. E in quel momento ho intuito cosa vuol dire “o
Cristo o nulla”, e ho detto: «Grazie Cristo che sei arrivato a fare questo, di dare la vita per lui e
per me, per salvare me in questo momento», perché il mio cuore può rimanere aperto davanti alla
morte anche con questa ferita, solo se so che Lui ha fatto quello che il mio cuore desidera nel
profondo, e mi veniva da pensare che tenere aperta la mia esigenza davanti a Cristo è stato come
presentire che il mio cuore è Lui stesso, per cui non c’è da avere paura di niente; piangevo, ma ero
proprio lieta. Tornati a casa il lavoro continua.


Grazie. Aggancio a quel che dici un testo del don Gius del 1989 sulla Madonna che mi ha suggerito
uno di voi, perché vi si vede in atto cosa vuol dire l’uso della ragione; si intitola «Maria: fede e
fedeltà» ed è la Pagina Uno del Tracce di maggio 2007: «A me piace immedesimarmi con quel
momento lì, quando non c’era più né l’Angelo né nient’altro, e la Madonna era lì, dicevo, ragazza
quindicenne, da sola, da sola con quell’Avvenimento, che ancora non sentiva, non poteva sentire
dentro di sé, ma che capiva, aveva capito che era accaduto e si sarebbe sviluppato. E poteva pensare
ai suoi genitori, poteva pensare a Giuseppe, suo fidanzato, e alla gente, a quello che diceva: sola,
sola, non c’era più niente a cui appoggiarsi. In quel momento ha toccato il culmine di quella che si
chiama “fede”: la fede. La più grande produzione della libertà dell’uomo di fronte all’Infinito è la
capacità della fede, che è vedere l’Infinito, vedere il Mistero dentro le cose apparenti: ché,
apparentemente, non c’era più niente, ma lei ha creduto, lei ha mantenuto l’adesione all’evidenza
che le era accaduta, lei ha capito – e ha aderito – che dentro, dietro quel silenzio apparente delle
cose, il grande Mistero, per cui l’umanità era stata fatta, che fino allora tutti aspettavano in vario 7

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modo, specialmente il suo popolo, era accaduto. Lei ha capito questo e ha accettato questo,
nonostante le apparenze. La fede, infatti, torno a dire, è riconoscere la grande presenza del Mistero,
il mistero del Padre e il mistero di Cristo, Verbo fatto carne, il mistero di Dio che si è fatto presente,
identificandosi con la precarietà della materia. Nel suo corpo di giovanissima, di giovane ragazza,
Dio c’era; e in quella casupola, piena di oscurità, Dio, la luce di Dio, c’era. Vedere Dio dentro,
come prospettiva: dentro le cose, perché tutte le cose - tanto più quelle che sono vicine a noi, tanto
più quelle che amiamo - sono un segno, cioè l’introduzione alla verità, alla vera vita, alla verità e
alla vita, che è Dio, Dio fatto uomo, perché si è fatto carne dentro di lei». La fede è questo. Solo
nella fede viene vinta l’apparenza delle cose (cioè un uso della ragione ridotta a misura). Che in noi
possa diventare familiare questo uso della ragione, così che l’apparenza si trasformi in primo invito
a entrare nell’essere e ad arrivare al Tu! Ciascuno può guardare in faccia quante volte in questi
quindici giorni l’ha usata così, guardando il reale, non immaginandolo, ma entrandoci dentro.
Questo è quello a cui ci introduce questo lavoro, ché – come vedete – un conto è sapere la
definizione di ragione, un altro conto è che questo diventi familiare nel modo di viverla. È qui dove
costantemente siamo sorretti e sfidati dalla contemporaneità di Cristo, che ci tira fuori dalla nostra
distrazione e ci facilita. E allora possiamo vedere quello che diceva il don Gius di Giovanni e
Andrea: la ragione che finalmente diventa se stessa.
Per continuare questo lavoro la prossima volta faremo il capitolo sulla moralità nella conoscenza,
naturalmente senza mandare in archivio alcunché di quel che abbiamo visto sinora. In questo
capitolo, che è la terza premessa che don Giussani introduce, entra in gioco la conoscenza. Già l’avevamo detto agli scorsi Esercizi della Fraternità: la libertà è sempre in gioco nella conoscenza.
Per questo don Giussani dice che il cuore del problema della conoscenza umana non sta in una particolare capacità di intelligenza, ma nell’atteggiamento giusto di fronte al reale; si chiama moralità questo atteggiamento, che si può definire così: l’amore alla verità dell’oggetto che voglio
conoscere più che alle mie opinioni su di esso. O, detto ancora più sinteticamente: amare la verità più di se stessi. Questo don Giussani lo riassume dalla fine di pagina 42: «“Beati i poveri di spirito,perché di essi è il regno dei cieli”. Ma chi è il povero? Il povero è chi non ha nulla da difendere, chi
è distaccato da ciò che sembra avere, così che la sua vita non è per affermare il proprio possesso. La povertà di spirito suprema è quella di fronte alla verità, è quella che desidera la verità e basta».Ma siccome noi viviamo nella storia e siamo pieni di preconcetti, pieni di immagini, pieni di una crosta, attraversare questa crosta è un lavoro; mi dispiace, non è immediato. Mi ha sempre colpito il capoverso finale della terza premessa: «Ma che cosa può persuadere a questa ascesi, a questo lavoro e allenamento? L’uomo infatti solo da un amore e da una affezione è mosso. L’amore che ci può persuadere a questo lavoro per arrivare a una capacità abituale di distacco dalle proprie opinioni e dalle proprie immaginazioni (non di eliminazione, ma di distacco da esse!), così da porre tutta la nostra energia conoscitiva nella ricerca della verità dell’oggetto qualunque esso sia, è l’amore a noi stessi come destino, è l’affezione al nostro destino. È questa commozione ultima, è questa emozione suprema che persuade alla virtù vera». Qui si mette a tema l’amore al nostro destino e l’amore a noi stessi. Ecco le domande che vi suggerisco, siccome di nuovo occorre partire dall’esperienza: quando ci siamo sorpresi riconoscendo l’incidenza della moralità nella conoscenza? Che cosa viene fuori dalle difficoltà che troviamo in questo uso della moralità? La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 23 marzo alle ore 21.30 sulla «Terza premessa:incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere». La Fraternità ci richiama l’importanza che la Chiesa ha sempre attribuito ai tempi liturgici, perché la liturgia, con i suoi ritmi, ci provoca ad andare a fondo dell’esperienza cristiana. Perciò la Fraternità ci propone un momento di ritiro durante la Quaresima

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Il ritiro si articola in un momento di annuncio del sacerdote che prende spunto da una scheda preparata da me per questo momento; segue uno spazio di silenzio (perché lo stare davanti a una Presenza riempie di silenzio), un momento di assemblea, gli avvisi e la Messa.Il ritiro di Quaresima insieme a quello di Avvento e agli Esercizi sono il modo con cui la Fraternità accompagna con un gesto comunionale non tanto il gruppo ma la persona, ciascuno di noi, ad andare a fondo della verità di sé e a stare di fronte alla scoperta del proprio cuore, così come ci è stato ridestato nell’incontro con il carisma. Per questo mi raccomando: il ritiro di Quaresima è un’occasione privilegiata per guardare in faccia tutto quello che viviamo, e soprattutto Lui.Domani, giovedì 10 marzo, uscirà il nuovo libro del Papa: Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione. Il Centro Culturale di Milano organizza la prima presentazione pubblica del libro, martedì prossimo 15 marzo alle ore 21, presso l’Auditorium in Corso S. Gottardo a Milano. Intervengono Reiner Riesner (esegeta protestante, esponente della Scuola di Tubinga ed amico del Santo Padre) e don Pino. Per partecipare all’incontro è necessario prenotarsi on-line telefonicamente presso lo stesso Centro Culturale di Milano (per evitare di non trovare posto).
Preghiamo•

Veni Sancte Spiritus, veni per Mariam

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