martedì 1 marzo 2011

OLTRE IL DOLORE, DENTRO LE NOTIZIE-PER CAPIRE PER VIVERE

Quando il mondo s’infiamma e ur­la di più il proprio dramma, quan­do piovono i colpi di dolori privati, du­ri come quelli che han sfregiato Yara e a sua famiglia, o pene pubbliche, ge­nerali come quelle che arrivano dal Nord Africa, ecco si vorrebbe capire, appigliarsi a qualcosa per poter sape­re davvero e conoscere. Per orientarsi. E allora si sfogliano giustamente i gior­nali, si segue qualche notiziario in più. E però si resta confusi, addirittura più di prima. Si leggono mille articoli, ma si resta in una specie di nebbia. E il do­lore sembra diventare più sordo, lon­tano. Non ci si capisce niente, dicono in molti. E rinunciano. Tirano avanti. Non ci pensano più, la vita non ne è più toccata.

È strano: la Libia è vicinissima. Basta una barcaccia malmessa per arrivare da lì. Eppure, in realtà, di quel che sta succedendo sappiamo davvero poco. Si raccontano molte cose, ma sono frammenti, è difficile leggere il senso dell’insieme. Così potremmo dire an­che della vicenda della povera Yara. Po­tenti mezzi di comunicazione o mesi di indagini non riescono a fornirci spiegazioni né certezze. E allora vien da lasciar perdere. Ma così si diventa me­no uomini. Se non si tenta di leggere e giudicare la storia vicina e lontana si è meno uomini. Ma come raggiungere un giudizio, come farsi una idea su tan­ti eventi di cui magari si discute tra col­leghi, tra amici ? Da più di due secoli si è pensato che la grande risorsa per ar­rivare ad avere una certa conoscenza del mondo fosse l’informazione. I gior­nali e poi tutto il sistema dei media si è sviluppato –con enormi meriti e an­che grandi ambiguità – sul presuppo­sto che l’uomo informato riesce a giu­dicare meglio la realtà. I media si sono presentati sulla scena della presunta modernità come se fossero la chiave – o una delle chiavi principali – per per­mettere all’uomo di conoscere, di es­sere più se stesso, pronto ad affronta­re l’esistenza. Ma subito alcuni, come Baudelaire alla metà dell’800, hano preso a ironizzare su tale pretesa dei giornali di segnar la via per raggiunge­re il compimento d’esser uomini.

Oggi abbiamo infinita disponibilità di notizie, ma costatiamo da un lato che spesso e su fatti importanti esse sono limitate e perciò fuorvianti. E dall’altro costatiamo che tutta questa mole non ci rende più capaci di giudicare nep­pure quel che accade vicinissimo a noi. In questa nube di news si è sperduti. Come mai ? Non si tratta di buttare o demonizzare i media. Casomai si trat­ta, come non ci stanchiamo di ripete­re, di saper scegliere tra loro. Ma per co­noscere il mondo ognuno deve innan­zitutto chiarire quali sono i criteri per­sonali, profondi, il cuore per così dire, con cui affronta e giudica gli avveni­menti del reale. Ci han fatto troppo a lungo pensare che non è necessario a­vere criteri personali forti, obiettivi, profondi, per poter comprendere il mondo. Basta essere informati, salvo poi accorgersi spesso che i criteri di giudizio, le unità di misura e valuta­zione ci vengono imposte più o meno subdolamente attraverso gli stessi ca­nali che pretendono di farci vedere il mondo. Si chiama alienazione. O o­mologazione. Uno dei più grande poe­ti del ’900, T.S.Eliot, chiedeva in un ver­so: dov’è tutta la sapienza che abbia­mo perduto nell’informazione? Oc­corre una sapienza del cuore per giu­dicare. Un modo di conoscere che si fondi su buone fonti. E sui criteri del cuore, sul desiderio di giustizia, di be­ne e di vero che costituisce il tessuto u­mano di ciascuno. Quello che ci fa rea­gire – se non siamo morti – dinanzi a ogni vicenda umana che attraversa il nostro sguardo. Senza mettere all’o­pera tali criteri, ogni tentativo di giu­dizio sarà alienato, confuso, o condot­to dai padroni del circo mediatico ver­so interessi particolari, non verso la co­noscenza.
DAVIDE RONDONI

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