sabato 3 novembre 2012

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón - Milano, 31 ottobre 2012

Testo di riferimento: La vita come vocazione, Tracce-Litterae communionis, n. 9, ottobre 2012, pp. I-XVI.
Canti: · Favola · Razón de vivirhttp://www.youtube.com/watch?v=7P9Uu3BqrlI&feature=related
il testo italiano: 

Per decidere se continuare a mettere questo sangue nella terra,
questo cuore che batte la sua marcia al sole e alle tenebre
Per continuare a camminare sotto il sole per questi deserti,
per sottolineare che sono vivo in mezzo a tanti morti

Per decidere, per continuare, per sottolineare ulteriormente e prendere in considerazione
Ho solo bisogno che tu sia qui, con i tuoi occhi luminosi…….


Oh ... fuoco d'amore e guida, ragione per vivere la mia vita ...
Oh ... fuoco d'amore e guida, ragione per vivere la mia vita .

Per alleggerire il pesante fardello dei nostri giorni,
questa solitudine che abbiamo, isole perse!
Per governare questa sensazione di perdere tutto,
per valutare da che parte andare e scegliere come .

Per alleggerire, per governare, per valutare e prendere in considerazione
Ho solo bisogno che tu sia qui, con i tuoi occhi luminosi…….


Oh ... fuoco d'amore e guida, ragione per vivere la mia vita ...
Oh ... fuoco d'amore e guida, ragione per vivere la mia vita .

Per mettere assieme la bellezza e la luce senza perdere distanza,
per essere con voi, senza perdere l'angelo della nostalgia
Per scoprire che la vita va, senza che si perda nulla
e considerare che tutto ciò è bello e non costa nulla

Per mettere assieme, per essere con voi, per scoprire e prendere in considerazione
Ho solo bisogno che tu sia qui, con i tuoi occhi luminosi…….


Oh ... fuoco d'amore e guida, ragione per vivere la mia vita ...
Oh ... fuoco d'amore e guida, ragione per vivere la mia vita  -
Gloria -
Cominciamo il nostro cammino di Scuola di comunità dopo la Giornata di inizio anno, su cui tutti abbiamo lavorato durante questo mese. Le questioni che sono emerse o le esperienze che ci aiutano a capire sono il motivo del nostro lavoro; aiutiamoci insieme a rispondere alle questioni o a testimoniarci a vicenda l’esperienza che abbiamo fatto. Da alcuni mesi mi ritrovo a pranzo, circa una volta al mese, con due colleghi che erano stati alla presentazione di gennaio della Scuola di comunità. Hanno esteso l’invito a un altro collega, e addirittura mi sollecitano loro a questo pranzo, mi richiamano alla puntualità, a fissare la data. Il dialogo è serratissimo su domande continue che hanno sulla vita, sul loro modo di concepire la realtà e il rapporto di lavoro. Di questo sono sorpreso, perché con loro entra in gioco la mia esperienza, non tanto sulle risposte plausibili che posso dare o non dare, ma su quel che vivo. Questo fatto innanzitutto fa emergere come il metodo dell’esperienza, che tu ci indichi in continuazione, è decisivo per me, ma è decisivo anche per loro, è decisivo per tutti, perché in questo modo si riesce a stare insieme in modo intenso; lì è bandita la banalità, il parlare per parlare non esiste, neppure c’è la necessità di mettere a tema il fatto che bisogna essere in un certo modo: si sta in un certo modo perché interessa stare in quel modo. Noto, però, un’impressionante riduzione che vedo emergere dal loro fare certe domande, dal loro rispondere tentativamente alle domande che fanno nel dialogo. Una riduzione a mio avviso inconsapevole, perché è così normale che si possa stare al mondo, vivere, avere un rapporto con la realtà in un certo modo ridotto che non fa, sostanzialmente, più notizia. Allora io sono uscito dall’ultimo dialogo con una domanda forte su che cosa possa vincere realmente questa riduzione, e nei giorni successivi ho tentato di darmi una risposta e ho detto, senza dubbio: solo l’avvenimento di Cristo può vincere questa riduzione, la può battere in modo continuativo nel tempo. Ma mi sono reso conto che questa risposta, finché restava teorica, non mi era assolutamente sufficiente. Dopodiché arriva l’attesa Giornata di inizio anno, quel che tu dici sulle circostanze, sulla sfida della realtà, sull’autocoscienza, e qualche giorno dopo leggo l’articolo su Tracce.it su Francesca, di cui tu hai parlato durante la Giornata di inizio anno. Leggo d’un fiato e io, che non sono molto facile alle lacrime, mi commuovo fino a piangere. È emerso in modo imponente che la contemporaneità di Cristo era quella questione lì, per me la contemporaneità di Cristo si manifestava in quel modo lì, nel modo con cui questa donna, come esito del rapporto con Lui, ha cambiato il modo di vedere la circostanza, addirittura fino non a sopportare la circostanza, ma ad amarla, cosa inaudita normalmente e per me sicuramente non consueta. Io capisco che ho bisogno di questo, perché mi rendo conto che quando vivo in modo ridotto non vivo; apparentemente vivo, ma non vivo. Ho bisogno assolutamente che questa riduzione venga battuta nell’istante, senza dover aspettare –domani, dopodomani – un ipotetico eventuale cambiamento. Quando alla Giornata di inizio anno abbiamo citato il Papa a proposito della «egemonia culturale», stavamo indicando proprio questa riduzione di cui tu parli. Anche persone che ci tengono a pranzare insieme, con questa serietà con i propri bisogni, da cui è esclusa ogni banalità, non possono vincere da loro stessi questa riduzione. Infatti, in che cosa consiste questa riduzione? Che io non percepisco la realtà in tutta la sua portata, in tutta la sua grandezza. Allora questo può essere vinto soltanto –dicevamo –, primo, dalla realtà stessa che ci provoca e che ci apre di nuovo la ferita che rende 2 impossibile la riduzione, e, secondo, dalla contemporaneità di Cristo. Perché Cristo è venuto attraverso un fatto, per far presente una modalità di stare nel reale tutta spalancata, senza riduzione. E allora, se c’è o non c’è la contemporaneità, questo si documenta nella modalità con cui noi parliamo delle cose, cioè nell’uso diverso della ragione. E quando uno lo percepisce non può non desiderare questo: «Ho bisogno di questo, ho bisogno di questa circostanza». Quel che ha introdotto Cristo nella vita è proprio questo. Infatti, in quanti ha provocato un certo scompiglio la frase del don Gius che abbiamo letto alla Giornata di inizio anno («Dio non fa nulla per caso»)! Mi scrive uno di voi: «Caro Julián, al punto uno [della lezione] si dice che Dio non fa nulla per caso, che Dio non permette mai che accada qualche cosa se non per la nostra maturità. Tutto quel che ci accade, nel bene o nel male, è Dio che quantomeno lo permette, perché comunque è Lui il punto finale su tutto. “Ma ti cambia saperlo?”, mi chiede mia moglie. Nelle circostanze buone, in realtà, posso anche non saperlo. Invece quelle cattive, negative, molte sono conseguenze di azioni o arrivano dagli uomini stessi, ma altre non si capisce da dove partono, a volte sembrano casuali, e mi interessa capire se ho a che fare con un Dio che è mio alleato e amico, o un Dio inventore di prove, ostacoli, dispetti più o meno simpatici». Ritorniamo, con questa questione, a qualcosa che fatichiamo a capire: perché Dio non ci ha risparmiato la storia? Se voleva condividere con noi la felicità che viveva, perché non ci ha risparmiato il tempo della vita terrena? Rispondo: perché Dio, che avrebbe potuto crearci già nell’eternità, non ha voluto imporlo; ha stimato così tanto la libertà che ci ha fatto e ci ha creato nella storia affinché ciascuno di noi potesse rispondere. Non ci ha creato in una situazione sbagliata, ci ha creato in una situazione positiva per cui il rapporto con Lui era la situazione normale che la Bibbia descrive come il paradiso terrestre, dove il rapporto con Dio era la realtà normale. Ma, siccome ci ha generato liberi, l’uomo, Adamo ed Eva, e poi tutti gli altri, hanno dovuto decidere, e hanno preferito affermare altro, e da allora ci troviamo a vivere la vita in un mondo dove dobbiamo costantemente decidere, in ogni circostanza, perché ogni circostanza è data per questo. «Vivere la vocazione significa tendere al destino per cui la vita è fatta. […] Vivere la vita come vocazione significa tendere al Mistero attraverso le circostanze in cui il Signore ci fa passare, rispondendo ad esse. [...] La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare (L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, SEI, Torino 1995, pp. 49-50)» a volte ci troviamo ad affrontare circostanze – come dice il nostro amico nella lettera – generate dal male degli altri, perché questo mondo è segnato dal male. Allora, se c’è la libertà di mezzo, sempre c’è la lotta, amici. La vita è una lotta, la vita è una prova, dice la Bibbia. Dunque, in queste situazioni Dio è un alleato o ci ha lasciato da soli? Dio è un alleato, Dio ci ha fatto per il bene e noi sappiamo –eccome! – quanto possiamo dire di no a tanto bene ricevuto, fino al punto di complicarci la vita in continuazione. Non soltanto ci ha creato per il bene, ma Dio ha dato tutto, perfino Suo Figlio, come dice san Paolo: «Che diremo dunque di queste cose? Se Dio è per noi [sì, è un alleato, Dio è per noi], chi sarà contro di noi? Egli [Dio] che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma Lo ha consegnato per tutti noi [sì, è un alleato, Dio non ha risparmiato Suo Figlio], non ci donerà forse ogni cosa insieme a Lui? Chi condannerà? Cristo Gesù che è morto, anzi, è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi». Questa è la certezza di Paolo. Può concepire Paolo, dopo aver visto questo, che Dio non sia un alleato? Impossibile. Che cosa vuol dire che Dio non ha risparmiato suo Figlio, che pure ha inviato per accompagnarci? «Mentre ancora Egli parlava [nell’orto degli Ulivi] ecco arrivare Giuda, uno dei dodici, e con lui una grande folla con spade e bastoni mandata dai capi dei sacerdoti e degli anziani del popolo. Subito si avvicinò a Gesù e disse: “Salve, Rabbì”, e Lo baciò. Gesù gli disse: “Amico, per questo sei qui?”. Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e Lo arrestarono. Ed ecco: uno di quelli che erano con Gesù [tradizionalmente si dice sia Pietro] impugnò la spada [il Mistero si era forse “distratto” e aveva bisogno della spada di quellolì!], la estrasse e colpì il servo del sommo sacerdote staccandogli un orecchio [questa è la modalità con cui noi guardiamo, di solito, la realtà]. Allora Gesù gli disse: “Rimetti la tua spada al suo posto perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno; o credi che Io non posso pregare Mio Padre che metterebbe subito a Mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora, come si compirebbero le Scritture secondo le quali così deve avvenire?». Non è che il Mistero, il Padre, si 3 sia distratto, si sia addormentato, e abbia lasciato che Lo prendessero, Gli mettessero le mani addosso e Lo portassero alla morte (come pensa Pietro: occorre dare una mano al Mistero tagliando l’orecchio a qualcuno)! Il problema è che Pietro, e ciascuno di noi, si trova davanti uno sguardo sulla realtà che è diverso. «Pensi che Mio Padre non abbia legioni di angeli da mettere in campo per asfaltarli tutti?». Basta uno sguardo così, e vediamo la differenza tra la modalità con cui noi guardiamo la realtà e quella in cui la guarda un Altro. Quando diciamo che «Dio non fa nulla per caso», non diciamo che sia Dio a generare la morte di Suo Figlio. Per poter mostrare agli uomini tutta la Sua grandezza, nemmeno a Suo Figlio risparmia la prova! Se noi non abbiamo questo sguardo che Gesù ha introdotto nella vita, allora non possiamo entrare in alcun buio. Perché proprio in quel momento, quando tutti introducono il sospetto se Dio sia amico o avversario, Gesù testimonia la Sua diversità. Lì, non fuori, non guardando i tori dagli spalti (mentre noi siamo nella prova, Lui ci guarda dal Cielo). No! Entrando lì, testimonia che neanche lì siamo da soli! Non ci lascia da soli, Dio non ha lasciato da solo Suo Figlio. Il dialogo che Cristo ha avuto prima del Suo arresto è con Suo Padre, e tutto il resto è secondario rispetto a quel dialogo; il dialogo è con il Padre (non Lo chiama “padrone”), e proprio per questa certezza che ha del Padre, Cristo può stare davanti a qualsiasi circostanza, anche quella che neppure Lui come uomo capisce del tutto: «Passi da Me questo calice». Se noi non ci immedesimiamo così col Vangelo, che cosa succede? Che noi rimaniamo sconvolti, come scrive un altro: «Sono rimasto molto provocato da ciò che ci dicevi a proposito delle circostanze: belle o brutte che siano, tutte sono un modo attraverso cui il Mistero ci chiama, non sono, come pensiamo noi, secondo la nostra misura, la fregatura da sopportare, hanno uno scopo ben preciso nel disegno di Dio [è come dice Gesù a quei due che vanno a Emmaus: “Ma siete stolti? Ma non avete capito che doveva compiersi la Scrittura? Che il disegno di Dio era un altro? Non riuscite a capire?”], perché nella vita di chi Egli chiama Dio non permette che accada qualcosa se non per la sua maturità. Questa frase, citata all’inizio, mi ha lasciato alquanto indifferente, perché erano cose già sapute, nulla di nuovo sotto il sole; ma più tu parlavi, più ripetevi sempre questo concetto, più come un tarlo tutto ciò ha iniziato a fare breccia dentro di me, tanto è che a un certo punto mi sono chiesto: ma per me questa frase è veramente vera o in fondo poi nella vita mi pongo secondo altri criteri? Ho constatato come il giudizio di fondo in realtà sia un altro, tant’è che molte volte mi lamento di quello che mi viene dato da vivere e soffoco. Nell’affrontare le sfide che la vita quotidianamente mi fa, questa ipotesi non la prendo minimamente in considerazione [l’ipotesi non la prendiamo in considerazione, perché noi pensiamo di sapere già che cosa è la realtà!]. Ho intuito per la prima volta, forse, la portata di ciò che ci dicevi come pretesa, la portata che ha sulla vita, e sono uscito dall’incontro veramente desideroso di scoprirlo vero durante questo nuovo anno, che a oggi è alquanto imprevedibile, dato che mi laureo tra meno di un mese. Stamattina poi, mentre ero a fare la tesi in aula, viene una mia compagna del corso con la quale sono molto legato e mi accorgo dagli occhi che qualcosa non va. Su mia insistenza mi dice che suo padre ha fatto delle analisi, che hanno riscontrato dei grossi problemi e che nel pomeriggio sarebbe partita per Milano. Lì son stato messo all’angolo; non ero in grado di dirle niente, perché qualsiasi cosa mi sembrava falsa e totalmente inadeguata a rispondere a quegli occhi. Così, non riuscendo a starle di fronte, ho cercato il modo di cambiare argomento e poi mi son rimesso davanti al computer a lavorare. Mentre ero lì, però, ripensavo a tutto ciò e mi chiedevo: ma anche se non riesco a parlare, veramente io non ho proprio nulla da dirle, oppure nella vita qualcosa di diverso è accaduto? Così mi sei subito venuto in mente, e quando è tornata le ho detto: “Senti, io di fronte a questo fatto di tuo padre non mi sento niente da dirti, ma sabato sono stato a un incontro e mi ha molto colpito, ti do il testo”. Mi sono accorto di come di fronte a tale circostanza l’ipotesi che ci hai lanciato durante la Giornata di inizio anno, la pretesa cristiana, è l’unica in grado di reggere l’urto, l’unica che mi ha permesso di non soffocare, tanto è che il gesto di darle il testo è stato l’unico adeguato che mi sono sentito di compiere». Se noi non facciamo un percorso, se noi non raggiungiamo una certezza, quando arriviamo a questi momenti non siamo in grado di dire alcunché, perché qualsiasi cosa ci sembra falsa, totalmente inadeguata. Invece quando uno, attraverso tutto quello che gli capita nella vita, dall’incontro fatto alle circostanze che non gli 4 vengono risparmiate, fa un cammino, che cosa succede? Ecco che cosa scrive un’altra amica: «Dico con fatica che ho iniziato a fare seriamente il cammino di verifica cui continui a richiamarci. Dico con fatica perché accorgersi che la propria vita non sgorga dall’incontro fatto è drammatico e faticoso e quindi ti chiede di cambiare lo sguardo che hai sulle circostanze; è il lavoro dell’istante. Pochi giorni fa sono andata a trovare una collega malata, che nel giro di quattro mesi non è più in grado di camminare da sola e mi ha accolto dicendomi che desidera morire, anche per non pesare a suo figlio. È nato un dialogo in cui le dicevo che lei c’è, che la vita non dipende da lei, che deve prendere sul serio tutto il desiderio di bene che non è cancellato dalla malattia, e che la nostra compagnia può diventare interessante per tutti e due. Alla sua affermazione che io posso parlare così perché ho la fede, di schianto le ho chiesto che guadagno ha a soffocare quella domanda di senso e di bisogno di essere salvata che la sua malattia impone. Quando alla fine l’ho salutata mi ha detto: “Devo imparare che io non sono solo la mia malattia” [ha incominciato a non ridurre sé alla malattia]. Quello che però mi ha sorpreso è stata la mia posizione: la malattia deve aprire al significato. Guardare così la realtà era un guadagno per tutti, era talmente vero che non avevo paura di dirlo. Finalmente il foglio bianco (come dice Il senso religioso) rimaneva bianco nonostante il sentimento [è un giudizio che si imponeva per la sua evidenza]. Mi sono sentita unita e quindi felice, forte di uno sguardo sulla realtà a cui il lavoro di Scuola di comunità mi ha educato, ma che la mia verifica mi ha ridato come certezza». Se noi non riusciamo a fare questo percorso umanissimo, davanti alle sfide della vita non apriamo bocca. Mi raccontava un altro di un dialogo sul lavoro con un accanito comunista (molto ostile a noi, sempre arrabbiato con noi per tutte le vicende dei giornali) a cui ha dato il testo dell’articolo di Tracce su Francesca e suo marito: «Guarda, smetti un attimo con il tuo rancore e leggi questo». Quello lo legge, si mette a piangere ed esce fuori dalla stanza perché non ce la fa. E quando torna gli dice: «Ma se voi avete questo, perché non ce lo dite?! Se uno può stare davanti alla vita e davanti alla morte così, voi, che avete ricevuto questo, perché non ce lo dite?!». Noi siamo al mondo per questo, ma per poterlo dire e non tacere, perché non risulti inconsistente, perché non risulti banale davanti a un dramma o davanti a qualsiasi circostanza, davanti al quotidiano, occorre una certezza. «Dio non fa nulla per caso» perché è la verità della realtà. Io penso che o questa è una frase valida solo per noi che ci crediamo oppure è un’evidenza schiacciante. E se è un’evidenza schiacciante non ho problemi a tirarla fuori di fronte a chiunque; invece se ho problemi a tirarla fuori è perché non è un’evidenza schiacciante. Il problema è che per me l’evidenza tante volte significa che deve essere qualcosa di automatico: se è evidente, deve essere qualcosa di automatico. E invece sto vedendo che io devo avere la possibilità di abituarmi a guardare l’evidenza. Per esempio, al lavoro io faccio delle indagini al microscopio e mi affianca una ragazza che deve imparare; quando guardo alcune immagini, vedo delle cose, dei particolari, perché sono anni che guardo quelle immagini; per lei quelle cose non hanno significato, perché non le ha mai viste, quindi per lei quelle cose non sono un’evidenza, ma in realtà ci sono e io le vedo. La differenza è che io le vedo perché sono abituata a vederle, sono anni che le vedo, e quando gliele faccio notare diventano anche per lei un’evidenza. Quindi credo che per me il cammino più importante è avere qualcuno nella vita che mi permette di guardare le evidenze che ci sono, senza spaventarmi e senza aspettarmi di vederle automaticamente. Si capisce questo? Cioè: non è che lei vede delle cose che non ci sono, che se le inventa e convince l’altra che ci sono. No, è quello che diceva il don Gius: vedeva certe cose che gli altri non vedevano, non perché non ci fossero, ma per colpa di una situazione culturale, di quella egemonia che ci impedisce di riconoscere tutta la portata del reale. Noi abbiamo usato un’altra frase per dire lo stesso: che noi non riconosciamo come presenza le cose presenti; per noi la presenza di certe cose non è una presenza, non è un’evidenza come il riconoscere: questo è un foglio bianco. E allora, come dice lei, non ci manca il coraggio (perché uno non ha bisogno di alcun coraggio per dire che il foglio è bianco), ma la semplicità di dirlo. Quando è un’evidenza, quando è qualcosa che è palese – come quando uno dice il risultato della partita: «Ha vinto il Milan quattro a zero» –, non c’è qualche 5 difficoltà, è un dato. La questione è che avere questa familiarità con la realtà, non ridotta, non è una cosa automatica. Perché? Perché tante volte, lo sappiamo benissimo, noi riduciamo; per questo, se non facciamo un percorso che ci abitui, che ci educhi (usiamo la parola giusta) a entrare nella totalità della realtà, noi la riduciamo. Infatti l’educazione è proprio questo: una introduzione alla realtà totale, non soltanto a una realtà ridotta. E perché davanti a certe cose non diciamo una parola chiara? Perché in fondo non siamo certi di questo: che la vita è data a noi, a ciascuno di noi, per condividere la pienezza di Dio. Suo Figlio ha dato la vita, è il destino della vita; non è che le cose debbano andare più o meno bene, il problema della vita è l’eterno, e se noi non abbiamo questa prospettiva, siamo i più disgraziati degli uomini, dice san Paolo; se noi non abbiamo tutta la prospettiva della vita, noi davanti a certe cose non diciamo nulla. Perché noi stiamo riducendo la vita all’apparenza, mentre il significato della vita è Cristo, e questo si può dire in qualsiasi circostanza; ma occorre una certezza per l’evidenza che ognuno ha nella propria vita, altrimenti uno non lo dice. E poi incomincia a dire che le circostanze sono sconvolgenti. Sì, ma molto più sconvolgente sarebbe che ci fossero queste circostanze e che non ci fosse il significato! Questa sarebbe la vera disgrazia! Per questo, quando quel comunista vede certe cose e ci dice: «Ma voi che cosa fate con questo?!», lo fa perché spesso non è questo quello che testimoniamo. A me ha colpito il tuo intervento al Sinodo e quando l’ho preso tra le mani e l’ho letto, ho detto: ma questo è vero, è vero, è la verità di me, è la verità dell’esperienza nostra, abbiamo un alleato che è il cuore (tant’è che ho detto: ma chissà come è sobbalzato il cuore del Papa a sentire queste parole). Quando dici che abbiamo questo cuore che è un alleato, che è un avvenimento, l’imbattersi in un’umanità cambiata: questa è la storia, è sempre stato così, è la storia e riaccade così oggi. E su questo voglio raccontare un fatto. Quest’estate ero stato invitato dagli amici di Rimini a fare un incontro sul lavoro; avevano invitato uno scultore, artista, falegname, un personaggio straordinario con un’umanità, una passione, uno sguardo, una profondità che non avevo mai visto. Tanto per dire un fatto: a cena un amico gli chiede: «Ma come posso attivare la responsabilità dei miei collaboratori?». E quest’uomo, mangiando, senza neanche tirare su la testa, gli dice: «Riconoscere il valore della persona è attivare la sua responsabilità». Insomma, in questa cena conosco il figlio, ci scambiamo il cellulare e ci sentiamo a metà luglio; poi non ci siamo più sentiti. Ieri inaspettatamente mi chiama e mi dice se ci possiamo vedere. Ci incontriamo, e tutto il tempo con lui era una testimonianza di come era stato cambiato da quell’incontro con questi amici, di come in azienda si fa fatica, la crisi la sente tantissimo, ma come lui ormai non è più solo, non è più solo! Non è riuscito a venire alla Giornata di inizio anno, gli hanno girato i tuoi appunti e dice: «Guarda, io posso leggere una pagina, una pagina e mezza al giorno, non di più perché c’è troppa roba». Una compagnia infinita. Poi mi dice: «Guarda sono stato a un incontro con artisti non della nostra esperienza, e li ho visti tutti morti e mi sono chiesto: ma perché questi sono morti e invece questi altri sono così vivi? Perché questi non seguono, non riconoscono la bellezza». E poi continua a dirmi: «Ma sai perché non riconoscono la bellezza? Perché hanno paura di rimanerne feriti». E lì ancora un sobbalzo: è così, perché la verità ti segna, tu dovrai sempre farci i conti, e poi devi decidere, prendere posizione. Allora dopo gli ho letto il tuo intervento al Sinodo, è ancora affamato: «Ma devi girarmelo, ne ho bisogno». Questo è un incontro. Grazie. Io ho una domanda. Volevo partire dall’intervento del Papa sull’egemonia culturale; a un certo punto, parlando della razionalità scientifica e tecnica, dice: «Anche una terra feconda rischia di diventare deserto inospitale e il buon seme venire soffocato». Ora, questo essere terra feconda o terreno inospitale capisco su di me che dipende da quello che tu dici: innanzitutto è una scelta, è quello che ne Il senso religioso don Giussani definiva opzione fondamentale. Però tu dopo parli della percezione di sé: percezione di sé e del proprio destino e quindi affezione a sé vera, liberata dall’ottusità istintiva dell’amor proprio. Ora, capisco che questo essere terra feconda o terreno inospitale è direttamente proporzionale a questa percezione di sé. Cioè: o la percezione amorosa 6 del proprio destino, o l’ottusità istintiva dell’amor proprio. Ora, per me non è sempre chiaro nel dettaglio delle circostanze capire quando sono mossa da un’affezione a me e quando, invece, sono mossa dall’ottusità dell’amor proprio. Tra l’altro, una cosa che mi colpisce, è che anche nel concetto di amor proprio c’è la parola amore; non voglio essere filosofica, però è come se il diavolo si insinuasse comunque in una modalità non proprio sempre riconoscibile. Certo, certo. Ma tu lo vedi nei rapporti, quanto tu ami l’altro e sei disponibile ad affermare l’altro, il suo destino, il bene dell’altro, e quando invece sei tesa ad affermare te anche nel rapporto con l’altro. E questo è una lama sottilissima, no? Lo facciamo nei rapporti, lo facciamo nel lavoro. Ci piace fare il lavoro bene, ma è affermare il lavoro o affermare noi? Le opere nascono per rispondere a un bisogno e a volte per rispondere a questo bisogno ci mettiamo tutto, ma a un certo punto se non abbiamo più mezzi dobbiamo fermarci; invece a volte vogliamo andare avanti non già per affermare l’opera, ma per affermare noi stessi, perché se facciamo un’opera più grande qualche gloria la guadagniamo anche noi… Lì si incomincia a introdurre l’ottusità dell’amor proprio. Tu hai mai pensato perché Gesù considera una tentazione quando il diavolo Gli dice nel Vangelo: «Ma fai che queste pietre diventino pane»? Avrebbe fatto l’ong più grande dell’universo, avrebbe risolto il problema della fame nel mondo per il resto della vita, meglio di così si muore! Risposta a un bisogno: la gente sarebbe stata contenta. Perché non accetta? Perché la considera una tentazione? Perché tra una cosa e l’altra c’è l’affermazione di sé, l’ottusità dell’amor proprio. Allora, che cosa fa la differenza tra la vera affezione a sé e l’ottusità dell’amor proprio? Anche se tu fai la ong più grande dell’universo, sarà sempre una goccia rispetto al bisogno tuo, perché tu sei fatta per l’infinito! Anche se tu affermi fino all’infinito qualcosa di te, non è questo che ti compie, perché quello che ti compie è riconoscere l’infinito. È soltanto questa la vera affermazione di te, che ti rende libera dall’ottusità dell’amor proprio e che ti consente di obbedire. Se il Mistero ti dà per fare tre, fai tre, perché tu non hai bisogno di fare cinque per affermare te stessa; infatti anche se riuscissi a farlo, sarebbe inutile, perché sarebbe una goccia nell’oceano del tuo bisogno dell’infinito. Ma noi siamo così scemi – scusate – che pensiamo, a causa della mancanza di chiarezza di cosa siamo, di affermare di più noi stessi attraverso queste gocce. Ma questa è un’ottusità, è una incapacità di percepire le cose come stanno. Tanto è vero che dopo averlo fatto siamo vuoti, perché non è che la gente non faccia migliaia di tentativi. In che cosa si vede che è ottusità dell’amor proprio e non vera affezione a sé? Perché l’una ti lascia vuoto e l’altra ti dà una tenerezza verso di te che non puoi darti da te. E con la presenza dell’Infinito, con il riconoscimento di Colui che ti fa adesso, con tutta la tenerezza del Mistero, tu non hai bisogno di altro. Hai solo bisogno di riconoscere Qualcuno che ti sta dando adesso a te stesso; altrimenti non potrai avere un istante di tenerezza vera con te, di affezione vera a te, e quindi cercherai nell’ottusità dell’affermazione di te, nell’amor proprio, quello che non riesci ad avere, quello che non riconosci come dato a te. Così ti metti per una strada che come unica cosa ti porterà a incastrarti sempre di più, perché anche se riesci a passare sopra tutti i cadaveri che vai lasciando per la strada, sarà inutile, non funziona, neanche come logica, neanche come strategia. Fino a questo punto siamo ottusi! Una cosa è che uno lo faccia per debolezza, un’altra è che lo faccia perché non capisce, perché se uno capisse, non perderebbe il tempo a percorrere questa ipotesi che, se anche riuscisse in qualche cosa, non ti risolverebbe alcunché, anzi ti lascerebbe con un buco più grande di quello che avresti voluto risolvere. Per questo ci conviene capire certe cose. Ma questa è una strada che impariamo soltanto percorrendola. Perché tante cose ci risultano faticose? Perché, non capendo, complichiamo ancora di più le cose; se invece incomincio a prendere sul serio che cosa succede quando io riconosco di essere fatto così, di essere amato così (ma a noi sembra astratto rispetto a tutto quello che abbiamo in testa, e ci sembra più concreto riuscire, rimanendo vuoti), se uno non incomincia a rendersi conto di che cosa è successo nell’incontro, di che cosa significa Cristo, in modo che il suo io trabocchi di gratitudine, di affezione a sé, allora avrà bisogno di affermare l’ottusità dell’amor proprio. Dobbiamo costantemente imparare il contenuto della nostra autocoscienza. Sei fatta per l’infinito, e allora agisci per quella inquietudine che hai dentro. Non è che sei in pace come se questa inquietudine non definisse ogni fibra del tuo essere. Devi cercare, perché urge, urge! Allora, se cerchiamo per la 7 strada sbagliata, complichiamo la vita nostra e quella degli altri. Questo per dire il cammino che abbiamo davanti. È questo quello che il Papa ci ha ricordato al Sinodo, su cui volevo dire una parola finale. Diceva domenica scorsa nella messa conclusiva, parlando del cieco Bartimeo (quel cieco che, sentendo che passa Gesù, incomincia a gridare, e gli altri cercano di farlo tacere): «Bartimeo potrebbe rappresentare quanti vivono in regioni di antica evangelizzazione, dove la luce della fede si è affievolita [il deserto, il deserto di cui parlava: deserto inospitale] e si sono allontanati da Dio, non lo ritengono più rilevante per la vita: persone che perciò […] hanno perso l’orientamento sicuro e solido della vita e sono diventati, spesso inconsciamente, mendicanti del senso dell’esistenza». Sono le tante persone che hanno bisogno di un nuovo incontro con Gesù perché hanno perso la coscienza del Battesimo. Questo è ciò che la Chiesa col Sinodo ha voluto ancora riconoscere, come dice il Papa all’Angelus: «È solo Lui, Gesù Cristo, la vera novità che risponde alle attese dell’uomo di ogni epoca». Ma come possiamo trasmettere questa novità? Nessuno più, davanti a questo deserto inospitale, pensa che basti una strategia pastorale diversa. E questo nel Sinodo è emerso chiaramente. Perciò in questo mese nell’aula sinodale si è sentito tante volte esprimere il desiderio della conversione; se noi non ci convertiamo, non potremo portare ai nostri compagni di strada, vicini, colleghi, questa novità in questa terra che è diventata inospitale (come in tanti sappiamo). Allora il Papa riassumeva: i veri protagonisti della vera evangelizzazione sono i santi, non gli strateghi, i santi! «Così sono i nuovi evangelizzatori: persone che hanno fatto l’esperienza di essere risanati da Dio, mediante Gesù Cristo. E la loro caratteristica è una gioia del cuore». Per questo vogliamo rispondere a questa urgenza che ha la Chiesa, e lo possiamo fare perché proprio per questo ci è stata data la grazia del carisma. Noi siamo testimoni di come, senza questa nuova evangelizzazione, tanti di noi forse non sarebbero qui, perché avevano sentito parlare di Cristo e avevano pensato che fosse scontato, che non interessava la vita. Siamo stati scelti, ci è stata data questa grazia per poterla comunicare agli altri; ma potremo comunicarla non attraverso una strategia, ma soltanto attraverso la nostra diversità, se nel modo di stare nel reale sapremo ridestare l’interesse per il cristianesimo, per Cristo. E questo lo possiamo comunicare solo vivendolo noi. Per questo il percorso che faremo quest’anno non può avere altro scopo che, come dice il Papa introducendo l’Anno della Fede, riscoprire Cristo, riscoprire la bellezza di Cristo. Soltanto così possiamo diventare anche noi testimoni, lì dove siamo. La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 28 novembre alle ore 21.30. Riprenderemo il testo All’origine della pretesa cristiana perché, come tutti sappiamo, è il percorso della fede che hanno fatto gli apostoli. Il Papa ha indetto l’Anno della Fede e per questo noi ci uniamo alla Chiesa, facendo il percorso della fede dei discepoli, affinché possiamo anche noi fare lo stesso loro percorso. Riprenderemo il sesto capitolo: «La pedagogia di Cristo nel rivelarsi». Accompagneremo il lavoro di Scuola di comunità con alcuni brani del Papa che saranno pubblicati su Tracce di novembre e nei mesi: come avete visto, da quando è incominciato l’Anno della Fede, il Papa ha cominciato le catechesi del mercoledì sulla fede. Che cosa possiamo fare di meglio che vivere l’Anno della Fede accompagnati da don Giussani e dal Papa? Non penso che abbiamo qualcosa di più interessante da fare. Ricordo che è attivo un indirizzo mail a cui potete inviare domande o brevi interventi sulla parte della Scuola di comunità a tema. Vi chiedo di inviarli entro la domenica sera precedente al nostro incontro in modo tale da avere tempo di leggerli. L’indirizzo mail è: sdccarron@comunioneliberazione.org e vi raccomando di usarlo solo ed esclusivamente per la Scuola di comunità. Giornata nazionale della colletta alimentare. La proposta della Giornata nazionale della colletta alimentare, che si terrà sabato 24 novembre organizzata dalla Fondazione Banco Alimentare, è l’occasione anzitutto per chi vi partecipa di vivere un gesto di gratuità con la coscienza che san 8 Paolo ci ricorda: «Gratuitamente avete ricevuto». È questa coscienza che possiamo testimoniare sia a quanti saranno con noi ad aiutare a collaborare al gesto, sia a quelli che si fermano per dare il loro contributo per la colletta. Anche questo è un gesto che si può ridurre, oppure si può vivere come un gesto in cui si condivide il cibo e il gusto del vivere, e la fede, e le ragioni per cui lo facciamo. A volte si creano spazi di dialogo con le persone che si incontrano con cui possiamo interloquire su quello che abbiamo a cuore e che, come dicevo prima, tanti aspettano. È con questa coscienza che intendiamo vivere poi anche il gesto delle tende proposte da Avsi durante il periodo natalizio. Veni Sancte Spiritus

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