giovedì 22 novembre 2012

I malati sono una benedizione per la mia vita


Questa è la seconda parte dei racconti che descrivono due mesi trascorsi nella Clinica da Dea, gentile signora, volontaria della Clinica Divina Provvidenza San Riccardo Pampuri. Sono piccole riflessioni, semplici e sincere, nate dal suo cuore attento e commosso. Tutti i giorni lei viene in Clinica con il suo camice bianco, in attesa di servire, di vedere come il Mistero accade e per giudicare con occhi aperti la realtà a partire dalla presenza di Cristo. Alcune di queste storie sono già state lette dal Cielo, dove il volto sofferente di Cristo in ogni paziente si è trasfigurato per sempre in un volto glorioso. Che questi santi pazienti ci benedicano dal Cielo.
paldo.trento@gmail.com




Cintia è una ragazza giovane, malata di cancro, che è stata operata alla testa e che di solito non sorride mai. Da alcuni giorni, invece, è più serena e raggiante e questo da quando le abbiamo suggerito di chiedere a Dio il perché della sua malattia, affinché ricevesse una risposta di fede, la grazia della fede, utile a capire ciò che oggi non può capire. «Il Signore ha le sue vie, ma sei benedetta, anche se questo non si può capire facilmente», le ricordo sempre. Oggi ho visto che le hanno cambiato stanza e sono stata contenta, perché credo che si stesse annoiando dove era. Ha mangiato bene e ha chiesto due volte il minestrone e il pane. L’infermiera che la sta seguendo ha detto che questa settimana sta molto meglio. Cintia ha due bambini, un maschio di 12 anni e una femmina di 2. È una madre single e i bambini ora stanno con una zia. Qualche giorno fa ho visto la madre di Cintia che è venuta a visitarla e lei era a letto sorridente. È la prima volta che l’ho vista così. Sta meglio quando è circondata dalla sua famiglia. Questo è essenziale nel malato terminale: trovare affetto a fianco del suo letto solitario, credere e convincersi che la speranza non voglia dire per forza alzarsi e uscire per una passeggiata, ma raggiungere il cielo.
Oggi è arrivata una donna di circa 53 anni, il suo nome è Ernesta. È di Puerto Casado e le hanno diagnosticato il cancro. Ha 12 figli, due sono morti e l’ultima, una bambina di 6 anni, la preoccupa molto perché vorrebbe che stesse con lei. Probabilmente la porteranno in una Casita di Belén. Suo marito viene a trovarla di notte per starle vicina. Un giorno ho visto Ernesta con gli occhi pieni di lacrime. Mi hanno riferito che aveva la pancia gonfia e questo la faceva soffrire molto. Un’infermiera doveva stare sempre al suo fianco per medicarla. Suo marito e sua figlia maggiore erano al suo fianco. Il marito aveva il volto distrutto mentre la figlia cercava di abbozzare un sorriso, ma era solo una smorfia per non peggiorare ancora di più lo stato di sua madre. Questa giovane donna con un’immensa famiglia arrivata per stare al suo fianco, per assisterla, ma senza poter fare nulla… Tutte le parole se ne vanno come la sua vita. Senza capire il significato del dolore, la vita scivola, come gli avanzi sotto il suo letto in cui è riposto il sacco che raccoglie i liquidi dei reni.
Il 27 gennaio è morta Pastora, la donna che mi chiedeva sempre del figlio che all’inizio la veniva sempre a trovare e poi se ne è andato e non è più tornato. Io le ho riposto che i figli hanno sempre molto da fare, ma che sicuramente sarebbe ritornato… sì, è venuto oggi a cercarla con altri familiari. La donna aveva un cancro agli occhi, nel volto e nel collo alcuni tumori enormi. Nonostante fosse sfigurata aveva un grande sorriso e non si è mai lamentata del dolore. L’hanno portata nel suo paese Ybycuí, ma prima Antonella, la ragazza della reception, ha dovuto sbrigare alcune pratiche, affinché le facessero l’imbalsamazione a causa del calore eccessivo di quel periodo.
«Grazie per avermi ascoltata»
Nery è arrivato otto giorni fa, è ammalato di Hiv e ha nel cervello un tumore enorme. Ha 42 anni, è bello, robusto, pelle bianca, capelli abbastanza chiari. Adesso pesa già molto meno, è visibilmente più magro… passeggia e conversa con sua moglie Zunny la quale mi ha raccontato che hanno cinque figli: un maschio di 19 anni, un altro di 18, un altro di 15 e credo due bambine, la più piccola di 6 anni. Dopo averle parlato molto e averla incoraggiata a stare di fronte a questa enorme croce che non sa come portare e che lei definisce «tragedia e castigo», le ho chiesto se aveva fede e mi ha risposto di sì e che per lei era già un miracolo il fatto di essere arrivata in Clinica, che per lei era un luogo benedetto. Quando l’ho salutata per andarmene e le ho detto che sarei ripassata il giorno dopo, mi ha risposto: «Grazie per avermi ascoltata».
È enorme ciò che sento attraverso le parole di questa gente che non conosco e che abbraccio come se fossero miei familiari, perché è così che ci sentiamo in mezzo al dolore… non esistono nomi, né cognomi quando la vita se ne va, si spegne, si chiude il sipario dell’Opera delle nostre vite sotto le lenzuola bianche, impeccabili, dei letti della Clinica. Si chiude la vita, ma in molti casi si porta la vita cristiana nelle famiglie, si produce l’unità, incontro di molte famiglie, anche se spessp questo bisogna costruirlo. Cristo è presente in questi esseri sofferenti e questo è il luogo in cui Dio ci spiega il significato della croce; è questo il valore della sofferenza, senza questo significato cristiano niente avrebbe senso né valore tra gli umani.
Marciana è stata qui solo 8 giorni. È arrivata con il marito, entrambi giovani, circa 32 anni e con due bimbi. Bella ragazza con un viso angelico, con la pelle scura, come fosse abbronzata, e i capelli ricci. Le ho detto che qui avrebbe trovato molto amore ma quando è arrivata non riusciva a parlare a causa dei grandi dolori; nei giorni successivi quasi non mangiava e non ha mai potuto sorridere. Provava molta sofferenza anche nel lasciare i figli. Di fronte a tanto dolore provato da qualcuno così giovane, uno non trova le parole, si può solo guardarli e dargli un po’ di affetto attraverso gesti semplici.
Lo scorso febbraio hanno portato una signora di 46 anni malata di cancro e con il volto totalmente contratto dal dolore. L’accompagnava senza dire una parola la figlia di 18 anni, la più piccola delle tre. Ho detto alla mamma che qui avrebbe ricevuto molto amore e che tutti l’avrebbero amata e lei mi ha risposto che anche lei avrebbe imparato ad amarci tutti. Le ho spiegato che i medici le avrebbero attenuato il dolore e così è stato. Ma il cancro è avanzato velocemente. Quando vado a trovarla la trovo comunque bene, con un volto molto sereno e la figlia ha un sorriso dolce, proprio come la madre. Bisogna solo aspettare che Dio dica quando e come. Alcuni giorni fa mi ha detto: «Ti voglio bene», e mi ha commossa. Vengo quasi tutti i giorni a trovarla e le parlo.
L’angelo della ClinicaVittorino, l’angelo della Clinica, si trova in una stanza con altri due bambini idrocefalici. Sono i tre bambini a cui tutti sono affezionati. Vittorino è il più piccolo, ha compiuto cinque anni il 12 aprile. Tutti i giorni vado a trovarlo, lo accarezzo dolcemente, gli parlo e così fanno tutti, anche i malati ambulatoriali lo vengono a trovare e gli chiedono dei miracoli. Come la ragazza che voleva sposarsi, quella che voleva rimanere incinta, quella malata di tumore ed un’altra che ha trovato lavoro. Un giorno ho chiamato in Clinica e mi hanno detto che stava male. Sono andata a trovarlo ma non si poteva entrare. Il mio desiderio come volontaria è quello di portare un po’ di amore a ciascun ammalato, portargli un sorriso, un gelato o un piccolo regalo, una carezza, una piccola conversazione per tagliare la distanza, affinché si sentano amati come in una famiglia. Per me fare la volontaria vuol dire riuscire ad amare veramente ciò che faccio, ma rispettando sempre gli ordini dei medici o degli infermieri che lavorano con molta passione. Ora Vittorino è molto grave quindi non si può andare a trovarlo, non si può entrare nella sua stanza. Possiamo solo aspettare e pregare per lui.
La forza del Rosario
Hipólito è un malato che parla molto forte e dice sempre il Rosario. Adesso è in una stanza in cui ha un quadro della Madonna di fronte al letto. Prega molto la Madonna. Alcuni giorni fa gli ho portato la cena e casualmente è entrata una mosca. Ho cercato di farla uscire dalla stanza di Hipólito spegnendo la luce perché attratta da un lume esterno se ne andasse. Ho anche acceso il ventilatore al massimo per cercare di darle fastidio. Ma quando credevo che se ne fosse andata e ho riacceso la luce, ho trovato la mosca davanti alla sua cena, come se niente fosse. Nella Clinica è tutto talmente curato e pulito che non si vede mai una mosca… È incredibile! Gli ho detto: «Guarda Hipólito, chiediamo alla Madonna, che tu preghi molto, che ti faccia avere pazienza con questa mosca e vedrai che ti sentirai bene». Mi ha risposto: «Sì signora, sì e voglio recitare il Rosario anche con lei». Mi è piaciuta l’idea e gli ho detto che sarei tornata lunedì per pregare con lui. Il giorno dopo sono andata in Clinica per un altro motivo però sono passata da lui per un saluto così gli ho detto che se voleva potevamo recitare il Rosario subito. Hipólito mi ha risposto che mi stava pensando molto, stava domandando alla Madonna che andassi a pregare con lui. E Maria lo ha ascoltato. Abbiamo recitato il Rosario insieme, Hipólito era molto contento. Abbiamo inoltre recitato la giaculatoria che ripete padre Aldo: «Sacro cuore di Gesù in te confido, sacro cuore di Maria siate la salvezza dell’anima mia, divina provvidenza di Dio, provvedi per noi». L’abbiamo ripetuta varie volte per impararla a memoria e perché lui possa sempre ripeterla: ne è rimasto entusiasta. Sono stata benedetta, attraverso un paziente che mi chiedeva di pregare con lui.

Dea Frizza

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