Ogni desiderio umano è «eco di un desiderio fondamentale, che non è mai pienamente saziato», ha detto ieri il Papa. Antica verità cristiana proclamata da Agostino, 'inquietum est cor nostrum donec requiescat in te' - inquieto è il nostro cuore, finché non riposi in Te. E sa benissimo, il Papa, e lo ha aggiunto subito, che molti nostri contemporanei replicherebbero di non saper nulla di questo desiderio di Dio, di non avvertirlo affatto. Ma ancora una volta Benedetto argomenta, di nuovo spiega: come lo stesso amore umano, se nel tempo matura e decanta e si fa trasparente, riveli che nemmeno la persona amata basta alla fine, per essere sazi davvero.
In quel misterioso desiderio. (Nel tempo in cui ogni desiderio è ammesso e gridato e rivendicato come un diritto, la domanda di Dio è forse l’unica diventata indicibile e come clandestina). Ma proprio in un’epoca 'refrattaria' al trascendente, china sul qui e sull’ora e su ciò che le nostre mani sanno prendere e trattenere, Benedetto XVI rivendica, nell’Anno della Fede, la possibilità di riaprire un cammino verso il senso religioso della vita. Parla di una «pedagogia del desiderio», della necessità di rieducare noi stessi al desiderio il più grande e negato. La pedagogia di Benedetto sta in due soli punti. Primo, imparare o reimparare il gusto delle gioie autentiche, «dalla più tenera età». Le gioie vere per il Papa sono la famiglia, l’amicizia, la carità, ma anche l’arte, e la natura. A questo, dice, dobbiamo ritornare, per «produrre anticorpi» alla banalizzazione in cui viviamo. (E suona quasi strano come un uomo che ci immaginiamo solo nelle stanze del Vaticano, lontano dalle nostre comuni giornate, sappia così bene quanto possa succedere di ritrovarsi, la sera, schiacciati dalla mole di parole vuote, e televisive litanie di accuse e rabbia, e musica sempre accesa, e dal vocìo di una rete virtuale cui non si sfugge).
C’è un bisogno, profondo, di fare silenzio e tornare a ciò che davvero ci alimenta. L’amicizia, la memoria che ci lega ai vecchi, e quella bellezza che in sé contiene un presentimento del vero. Che sia un verso di Dante o l’armonia di una chiesa o le note di un violino. O l’ora dell’alba, quando tutto sembra vergine e nuovo. O semplicemente le foglie degli alberi in questo novembre, di uno straordinario oro. C’è un’urgenza, grande, di mostrare e dire queste cose ai figli. O magari di seguirne lo sguardo, se sono piccoli, e più capaci di noi nel riconoscere nel salto da fiera di un gatto una bellezza antica, che li incanta.
Il secondo punto della pedagogia del desiderio sta nel «non accontentarsi mai di quanto si è raggiunto». Nel ricordare che nulla di finito può bastare al cuore dell’uomo. E nel tendere così, «disarmati», verso ciò che da soli non ci possiamo prendere. L’inquietudine dunque come compagna di strada: ma l’inquietudine bella di chi, pur non possedendo e non vedendo ancora faccia a faccia, tuttavia ostinatamente procede. Certo di una meta, oltre la fine della strada. E attento ai segni, come quei contadini che dal colore del tramonto sanno l’alba che verrà, e dal tacere degli uccelli la tempesta che arriva. Di modo che la pedagogia di Benedetto potrebbe stare in questa descrizione dei Magi, da lui stesso fatta nell’ultima Epifania: «Erano persone dal cuore inquieto, che non si accontentavano di ciò che appare ed è consueto. Erano uomini alla ricerca della promessa, alla ricerca di Dio. Ed erano uomini vigilanti, capaci di percepire i segni di Dio, il suo linguaggio sommesso e insistente».
Così erano quei tre, che non avevano certezza di trovare ciò che andavano cercando. Partiti da così lontano, e soli, la notte, nella immensità del deserto. Mentre forse i cammellieri, come ha immaginato il poeta Eliot, nei bivacchi tra loro mormoravano che i padroni erano dei pazzi a abbandonare casa e ricchezze, per cercare che cosa? E non alzavano gli occhi a quella strana, splendente luce nel cielo; e parlavano di soldi, e bevevano. E, di quell’istante formidabile del tempo, non vedevano niente.
MARINA CORRADI
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