Testo di riferimento: All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, pp. 71-84; Lettera
alla Fraternità, 1 novembre, 2012.
• Il giovane ricco
• What wondrous love is this?
Gloria
Abbiamo a tema due testi: il capitolo sesto de All’origine della pretesa cristiana e la mia lettera alla Fraternità. Il capitolo ha come argomento la pedagogia di Gesù. Potremmo leggere questo capitolo soltanto come qualcosa che riguarda il passato, come una bella descrizione di che cosa è successo ad altri (invece sono curioso di sapere come lo avete letto, ciascuno di voi), ma la lettera ci impedisce di soccombere a questo rischio, ci impedisce di partire da altro che non sia l’unico punto che abbiamo a disposizione, cioè il presente. E per questo voglio iniziare da alcuni vostri contributi legati alla lettera, perché è solo dal presente che possiamo entrare nel capitolo. Nella lettera partivo dall’esperienza fatta al Sinodo. All’apertura dell’Anno della Fede il Papa aveva detto che la fede non è più un presupposto ovvio, e quindi che il deserto in cui ci troviamo non può fiorire semplicemente grazie a una strategia un po’ più scaltra (fin lì ci si arriva: non basta migliorare la strategia della comunicazione pastorale) e perciò occorre la conversione. Ma subito uno si chiede che cos’è la conversione, perché con la stessa parola “conversione” possiamo descrivere situazioni diverse; anche i farisei parlavano della conversione, erano tesi a compiere i seicento e passa precetti, erano disponibili a tutte queste pratiche, ma – come noi – non erano disponibili alla vera conversione: cedere a una Presenza presente. Tutta la resistenza che abbiamo visto, e che vediamo nel capitolo sesto, dice qual è la novità (con cui alcuni di voi hanno familiarità perché stanno leggendo il libro. La conversione al cristianesimo nei primi secoli, in cui Bardy descrive proprio questa differenza tra ogni altro modo di concepire la conversione e la conversione cristiana).
Allora anche tra di noi possiamo pensare alla conversione, diciamo, in modo farisaico:
disponibili a cambiare qualcosa; ma secondo la nostra immagine e le nostre idee.
Se facciamo così, allora ritorniamo a porre la nostra speranza nel migliorare quello che noi
siamo in grado di migliorare, e non nel convertirci a qualcosa di presente.
Per sottolineare che questo non è un problema del passato, nella lettera, a un certo punto,
cito don Giussani: all’inizio non fu così, all’inizio «il Movimento è nato da una presenza che
si imponeva», come per il popolo di Israele all’inizio era
una presenza che si imponeva, ma poi come mai ci siamo affidati, come loro, all’organizzazione, ai
piani pastorali? Perché non ci rendiamo conto che la conversione coincide con la sequela: «Affinché la nostra vita possa essere così cambiata, occorre la nostra disponibilità alla conversione, cioè alla sequela». E che cos’è la sequela (per non fare con altre parole la frittura solita)? «La sequela è il desiderio di rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato e ti provoca con la sua presenza nella vita della comunità, è il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è a questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri, cui vuoi aderire, dentro questo cammino». Allora la prima domanda che mi ha fatto uno di voi è proprio questa, riguarda il seguire: «Mi ha colpito che nella lettera che ci hai inviato (e di cui ti ringrazio tantissimo) due volte si ripete: “Rivivere l’esperienza della persona che ti ha provocato”, e “solo chi è disponibile a seguire un maestro, cercando di riviverne l’esperienza, potrà dare un contributo all’altezza della situazione”. Allora, mi puoi aiutare a capire cosa vuol dire questo rivivere l’esperienza di un altro?». Per rispondere – è meglio farlo con le testimonianze che con le spiegazioni – vi leggo questa lettera: «Ti scrivo per raccontarti ciò che mi è successo in seguito all’ultima Scuola di comunità. Mentre ascoltavo ciò che tu dicevi, tutti gli interventi che si
succedevano, ero profondamente colpita e commossa, ma a un certo punto qualcosa mi ha
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disturbata, per la precisione quando hai detto: “Anche se tu affermi fino all’infinito qualcosa di te,
non è questo che ti compie, perché quello che ti compie è riconoscere l’infinito. È soltanto questa la vera affermazione di te, che ti rende libera dall’ottusità dell’amor proprio e che ti consente di
obbedire”. E io mi sono sentita travolta da queste parole. Travolta perché le ho avvertite come
estranee, come astratte. Tutto ciò che avevo sentito fino a un secondo prima, che mi aveva
sinceramente colpita e commossa, non teneva più. Ero disorientata. Ti dico che lavoro ha innescato questo in me, l’avventura che questo ha generato. All’inizio non capivo bene cosa mi avesse così disorientata, fingevo, anzi, di non avvertire questo disagio, cercavo di lasciarlo da parte. Il resto era stato bello, no? Allora perché non accontentarmi? Perché non mi bastava? Mi facevo dei problemi inutili? Ma in fondo al cuore sapevo quale fosse stato il punto di rottura, ovvero quando avevi detto: “Anche se tu affermi all’infinito qualcosa di te, non è questo che ti compie”. Io avevo immediatamente pensato al mio ultimo esame, all’ingiustizia che avevo subito essendomi stato dato un voto che non meritavo. Dentro di me avevo subito obiettato: cosa c’entra il fatto di aver preso un venticinque anziché trenta con il fatto che sono fatta per l’infinito? Mi sembrava astratto, eppure io come so bene che sono fatta per l’infinito, quante volte l’ho visto e saputo! Ma di fronte a quel fatto non c’era niente di più astratto, non teneva. Poi tu hai detto: “A noi sembra astratto rispetto a tutto quello che abbiamo in testa, e ci sembra più concreto riuscire, rimanendo vuoti”: esattamente ciò che pareva a me. Un particolare come quel voto ingiusto, minimo rispetto ai grandi problemi della vita, mi pareva molto più concreto dell’essere fatta per l’infinito. Questa obiezione pian piano ha insinuato in me un dubbio su tutta la mia vita: l’essere fatta per l’infinito cosa c’entrava con quel particolare? Cosa c’entra con i problemi di tutti i giorni? Il giorno seguente, così, questo tarlo mi ha impedito letteralmente di godere ciò che avevo tra le mani, e arrivando a casa la sera, prima di addormentarmi, mi sono domandata: perché sono così infinitamente triste? Ero stufa di esserlo. A quel punto allora ho pregato Lui, ma come può una figlia pregare un padre: mi lascerai finire la mia giornata così? Non mi verrai a prendere? E ho iniziato a riguardare tutta la mia giornata, dalla messa la mattina all’aver seguito un corso che mi appassionava, dal vedere il volto di un amico alla cena inaspettata preparatami da mia nonna; era stata una giornata piena di bellezza, eppure io ero triste, immensamente. Allora all’improvviso mi sono accorta: se tutti questi fatti belli non mi hanno riempito il cuore oggi, è vero che io sono fatta per l’infinito. Nulla di più bello e giusto vissuto fino a quel momento mi aveva fatto respirare. Solo l’accorgermi della capacità del mio cuore, irriducibile a tutto ciò che a me sembrava quello che chiamavo concreto, solo l’accorgermi di essere io questo rapporto con un Tu, mi ha improvvisamente liberata e riempita di una gioia senza pari.
Non è stato un ragionamento – un ragionamento non riempie mai il cuore –, è stato un
riconoscimento; pur pensandomi in un modo mi sono scoperta in un altro, anzi, mi sono piegata a
riconoscere ciò che si svelava come vero nella mia esperienza, ho scoperto cioè la mia vera natura. Ecco perché tutto ciò che avevo sentito prima alla Scuola di comunità non bastava, dovevo arrivare a giudicare fino a lì, perché un dubbio (almeno nella mia vita) non rimane mai circoscritto e in poco tempo si prende tutto e alla fine uno, non si sa come, si scopre scettico. Ma il dubbio ha sempre un’origine in un punto preciso che chiede, urla di essere guardato. Non è che io non avessi bisogno di quei fatti belli, ma avevo bisogno di un rapporto con Chi me li donava; senza quel rapporto quei fatti rimanevano muti. Questo, che può sembrare un fatto senza molta rilevanza, mi ha invece introdotto al metodo che tu ci stai indicando da tanto tempo, e ora la frase: “Tu sei fatta per l’infinito” non mi risulta più astratta, perché la posso ricondurre a un’esperienza reale che nessuno mi potrà mai più togliere. L’altra conseguenza di questo è l’accorgermi che io sono stata fatta bene, bene perché anche se io riduco me e la realtà, tutto di me e della realtà riapre continuamente per farmi riconoscere ciò che sono realmente. Banalmente mi penso in un modo e soffoco, e mi scopro in azione in un altro e respiro. Non ti sarò mai abbastanza grata del richiamo che tu sei continuamente per la mia vita, grazie. Post scriptum: non so ancora perché io abbia preso venticinque, anziché un voto più alto come forse avrei meritato, ma se la ferita che tale fatto ha generato ha portato a farmi accorgere di ciò che ti ho appena raccontato, benedetto venticinque!».
Ecco, se adesso leggiamo la descrizione che Giussani fa dell’esperienza vi renderete conto che è
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diverso ripetere una frase che ci sembra costantemente astratta rispetto l’immedesimarci con
un’esperienza. Seguire non è ripetere la frase di don Giussani, non è attaccarsi a una persona
sentimentalmente o personalisticamente, perché questo attaccamento personalistico è la modalità
con cui noi nascondiamo la nostra mancanza di sequela, che invece è rivivere l’esperienza della
persona che ti ha provocato. E qual è la persona che ha provocato tutti noi? La persona di Giussani:
seguendolo, a che cosa ci conduce? «Il desiderio di partecipare alla vita di quella persona nella
quale ti è portato qualcosa d’Altro». Se per noi seguire la persona che ci ha provocato non giunge
fino a rifare e a rivivere la sua esperienza, noi non seguiamo, anche se diciamo di seguire. Non lo
dico come un rimprovero; è perché poi non possiamo lamentarci che non succeda quello che
descrive lui! Basta che uno si prenda tutto il tempo di cui ha bisogno per farlo, senza scandalizzarsi, e capisce dove porta: «Partecipare alla vita di quella persona nella quale ti è portato qualcosa d’Altro, ed è questo Altro ciò cui sei devoto, ciò cui aspiri». La nostra aspirazione è a questo Altro, non alla persona che mi introduce a questo Altro. Se io mi blocco lì, se io mi fermo lì, io non seguo e quindi non faccio l’esperienza, e per questo continuo a dire che è astratto, perdendo tempo in continuazione. Solo uno che fa tutta questa esperienza può rendersi conto che il Mistero è così concreto, come ha descritto questa lettera, è radicalmente concreto, tanto che se non trovo una risposta, io non respiro, io sono stufo, io sono triste. È così concreto il Mistero che non possiamo vivere niente senza fare il paragone tra questo essere fatti per l’infinito e quel che troviamo; altro che astratto, è la cosa più concreta! E se noi non capiamo questo, se non stabiliamo un paragone tra quello che desideriamo e ogni fibra dell’essere che è fatta per l’infinito, qualsiasi cosa incontriamo ci delude, non capiamo e ci arrabbiamo con noi stessi perché ci sembra tutto ingiusto. Invece niente è più reale, più concreto, più radicale del fatto di essere fatti così, per l’infinito, in ogni fibra dell’essere. Questo è rifare l’esperienza, che è molto diverso dal fare un discorso sull’esperienza, lo vediamo subito dal respiro che provoca. È questo che dicevo la volta scorsa parlando di san Pietro, di quando ha tirato fuori la spada per difendere il suo Amico. E una di voi mi dice: «Ma che commento hai fatto?! Pietro non si è mosso per cattiveria, come noi non ci muoviamo per cattiveria tante volte pensando di seguire, come uno che si attacca a un altro, si muove per un’affezione a quest’altro, non è cattiveria; voleva difendere l’Amico secondo la sua misura e io avrei fatto forse uguale, anzi, tante volte agisco mossa da un’idea buona, ma poi il risultato non lo è altrettanto.
Dov’è l’inghippo?» Dov’è l’inghippo? Dobbiamo tornare di nuovo costantemente a Gesù, al
dialogo di Gesù con Pietro, perché una volta che lui ha detto: «Tu sei il Messia», subito ha pensato
che aveva già colto la questione; e appena Gesù ha incominciato a parlare della passione ha
esclamato: «No, questo no, per carità, ci mancherebbe!». Allora Gesù (Gesù!), che non vuole che si attacchi a Lui sentimentalmente, ma che vuole introdurre all’esperienza che Lui fa, reagisce:
«Pietro, allontanati da me, perché tu pensi come gli uomini e non come Dio. Se tu vuoi essere con
me, tu devi fare la mia esperienza, tu devi entrare fino a lì, altrimenti potrai dire che sei attaccato a me, ma tu non mi segui, e quando tu cerchi di difendermi con la spada tagliando l’orecchio al primo che passa, tu dici che lo fai per difendere me. Io non ho bisogno di questa difesa, Io ti sfido di nuovo a che tu faccia la mia esperienza. Ma non ti rendi conto che mio Padre ha legioni di angeli, che potrebbe metterli in campo e “asfaltare” tutti? Ma a me non interessa questo, ma che tu faccia la mia esperienza». E quando i due di Emmaus si scandalizzano: «Ma voi non capite che doveva succedere tutto questo?». Il Vangelo usa il termine greco dein, cioè «era necessario» che succedesse questo (che è una modalità di dire Dio). Allora seguire non è soltanto attaccarci
personalisticamente, perché Gesù non lo vuole, non vuole questo tipo di attaccamento, e se vuole
attaccare a sé i discepoli, come ci ha insegnato sempre don Giussani, è per condurli al Padre. Non
gli basta l’attaccarli a sé. Perché? Perché se bastasse un attaccamento sentimentale o personalistico, la sua sarebbe una presa in giro. Perché non ci basta, perché siamo fatti per l’infinito. Come la ragazza che mi ha scritto: era qui contentissima di quel che stavamo dicendo, ma se io non la sposto dicendo che, se anche si compisse l’esito che desideriamo, questo non basta, non sono amico suo.
L’unica possibilità è che io ti dica: anche se tu affermi fino all’infinito qualcosa, non è questo che ti
compie, perché quello che ti compie è riconoscere l’infinito. E se non ti avessi detto così, anche al 4
prezzo che tu non capisca per un po’ non ci saremmo aiutati. Perché è questo che don Giussani dice nel capitolo sesto parlando della rinuncia a se stessi. Mi scrive uno di voi: «Perché dobbiamo
rinunciare a noi stessi se abbiamo detto che è il tempo della persona?». Dobbiamo rinunciare a una nostra misura affinché sia veramente il tempo della persona! Perché il tempo della persona è questo tempo dell’infinito per cui siamo fatti, e non c’è un tempo della nostra persona che non coincida con questo. E quando uno lo scopre nell’esperienza, come in altri testimoni di cui adesso leggo sinteticamente, allora qualcosa comincia ad accadere, altrimenti qualsiasi evento succeda svela la nostra inconsistenza. «La mia ragazza è partita da qualche settimana per l’estero, dove non c’è traccia della Chiesa: la Cina. Dopo qualche giorno mi provoca dicendo che si accorge di come il suo essere cristiana è molto legato alla cultura nella quale è cresciuta e al luogo dove viveva, l’Italia, ma nel momento in cui si è allontanata fisicamente da questa cultura allora scoppia la domanda grande. Mi ha scritto: “Ma io cosa ci faccio con Cristo? Ma qui serve veramente Cristo per campare oppure è il passatempo che utilizzavo in Italia? Perché alla fine vedo che la gente qui campa lo stesso, anzi, si fanno meno discorsi e si impiega più il tempo a rimboccarsi le maniche per fare. Mi accorgo che per assurdo io potrei tornare tra sei mesi miscredente, scoprendo che là Cristo non esiste”. Per me questo è stato come un terremoto, e di getto non ho potuto che risponderle, con le lacrime agli occhi, che non potevo fare altro che pregare che Cristo si incarnasse davanti ai suoi occhi anche in Cina, ma non solo per lei, ma soprattutto per darne testimonianza anche a me, perché se così non fosse, vorrebbe dire che Lui non è realmente risorto e che non è altro che una favola che ci raccontiamo qui in Italia, noi cresciuti in questa cultura cristiana e nel movimento, ma che appena si mette il naso fuori dal nostro “cortile” (per usare un tuo termine che mi ha sempre colpito), Cristo sparisce. E mi sono accorto che la sfida era lanciata a me, qui dove vivo: quante volte riduco il mio essere cristiano a una serie di attività, riti e incontri, frutto dell’educazione che ho ricevuto dal movimento e dall’amicizia che mi hanno fatto compagnia, quante volte mi ritrovo a vivere come un pagano (detta alla Bardy), dove la religione è quella propria della città dove si vive, è ridotta a un formalismo di rito e di gruppo. Mentre ora mi si spalanca la domanda: ma chi sei tu, Gesù? Al di là delle attività, dei riti… Chi sei tu, Gesù, per la mia vita? Dove poggia la mia vita? Su un personaggio di una favola o su un pieno? Non voglio più cincischiare davanti a questa domanda e capisco che alla base ci sta una vera e propria decisione di percorrere quella strada che porta alla certezza. Ed è una sfida che sento come una grazia, una grazia per lei in Cina che si è accorta di questo e per me in Italia, e vedo che anche il nostro rapporto si sta trasformando e diventando sempre più vero nel testimoniarci a vicenda i segni della Sua presenza reale nelle nostre realtà; è la compagnia più grande che ci possiamo fare, ma senza il tuo aiuto e la strada che ci indichi non potremo farcela. Per meno di questo, per meno di questa certezza, non mi accontento più».
E un’altra lettera dice: «Sono un ingegnere e per lavoro mi capita di partire per l’estero spesso, e in uno di questi viaggi [l’ultimo che arriva ci può sorpassare da destra e da sinistra] ho avuto la
possibilità di lavorare con una collega che oggi è la mia morosa. Lei non era molto religiosa, anzi,
per alcune vicende si era anche allontanata dalla Chiesa, ma incuriosita da me e, a detta sua, dalla
mia fede, in tempi davvero rapidissimi ha ripreso il suo cammino di fede attaccandosi al movimento e all’esperienza di Giussani, fino a farla propria. Quello che mi stupisce è come in così breve tempo lei faccia capo alla sua esperienza alla luce della Scuola di comunità e quello che le racconto io, tanto che spesso è lei a indicare il cammino. Ti faccio un esempio: in questo periodo è all’estero, mentre io sono rimasto a lavorare in Italia, quindi ci possiamo sentire una volta al giorno, la sera per via del fuso orario. Ogni volta che ci sentiamo parliamo di cosa è successo nella giornata, tiriamo le somme e a volte il lamento di ciò che non va prevale. Ieri toccava a me, e io, dopo una giornata di forte stress sul lavoro, ho elencato tutto ciò che non andava con il capo, i colleghi, i committenti, che quindi stavo pensando di mandare tutto all’aria cominciando a cercare un lavoro più consono al mio carattere. E un po’ irascibile lei mi ha stupito dicendomi: “Ma se Cristo non c’entra anche con il capo che non ti valorizza e ti tratta male, allora non c’entra del tutto. Ma ti pare che al Signore sia sfuggito questo episodio? O Cristo c’entra con tutto, oppure è solo teoria”. Davanti a lei che mi contestava, cioè metteva tutti i miei dubbi dentro a un contesto più ampio, non ho potuto che stare
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in silenzio e “gustarmi” come Cristo usasse lei per riprendermi. Sì, perché lei non sa il discorso su
Cristo che magari so io, non ha ancora partecipato ad alcuna Scuola di comunità, ma dalla sua ha
l’esperienza, infatti mi dice che queste cose gliele ho dette io qualche giorno fa; in realtà neanche le ricordo. Adesso capisco meglio la frase di san Paolo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me”.
Perché non è un problema di cose da fare, di regole da seguire, anche perché il fare stanca, ma è
l’essere sorpresi di come Lui si manifesta anche negli ultimi arrivati [cioè in uno che fa
un’esperienza, che mette davanti un’esperienza anche se è l’ultimo arrivato: questo sta seguendo e l’altro no, anche se l’altro sa il discorso o se partecipa a certi gesti]. Grazie a questa discussione, il lamento così pesante e sterile è svanito e ha dato spazio alla sorpresa della Sua presenza che ti
accompagna nelle vicende di tutti i giorni senza tralasciare niente». Potrei continuare a lungo, per
dire: seguire è – come dice don Giussani – rivivere l’esperienza, perché senza questo noi non
arriviamo all’Altro per cui siamo fatti, «ciò cui il nostro cuore aspira, desidera».
Sono segretaria di una scuola superiore, dove abbiamo un ragazzo che è gravemente malato.
Settimana scorsa ho accompagnato dei professori che andavano a trovarlo, mentre loro parlavano
con lui io sono stata un’ora e mezza con la mamma che mi poneva tutte le sue domande, tutto il suo
dramma, diceva: «Se morirà io impazzirò, aiutami». Io le ho risposto per tutto quello che ci
insegnano, che so. Sono andata via, sono salita in macchina e ho telefonato a mio marito: «Io non
sono contenta perché questo colloquio non mi ha soddisfatto». C’era qualcosa dentro di me che
non tornava, infatti ho pensato: non mi chiamerà più perché devo aver “toppato” qualcosa, anche
se non capivo che cosa. Due giorni fa mi chiama alle otto di sera e mi dice: «Sono disperata perché
continuo a pensare a quel 20% di possibilità che lui ha, continuo a pensare alla prossima
risonanza, sto impazzendo. Cosa devo fare?». Allora io le ho detto: «Che cosa è successo oggi?»;
lei mi diceva: «Oggi ha mangiato»; e io: «Guardiamo quel che è successo oggi: ha mangiato, ha
sorriso, per cui cena con la tua famiglia e goditi quello che hai oggi perché domani neanche io so
se mi alzo. Goditi l’istante, ringrazia che c’è». E lei mi dice: «Grazie, sapevo che dovevo chiamarti
perché io avevo bisogno di sentirmi dire questo adesso». Quando ho riattaccato ho sobbalzato
perché mi è venuto subito in mente l’esempio del re del Portogallo: non è che ha fatto tanti
discorsi, prima ha aggiustato le cose e aiutato la gente, e poi, alla domanda, si è rivelato. Quindi
alla mattina sono corsa dal mio capo a dirgli: «Vedi? Io non devo avere il problema religioso con
lei, perché non è quello il punto, io devo aiutarla e farle compagnia nella realtà; poi, se Lui si
rivelerà (magari attraverso di me), non lo so». Questo capitolo sesto da lunedì mi ha veramente
cambiato la giornata, sono due giorni che godo del fatto di essere come il re del Portogallo.
È così. Il problema non è darle la teoria del re del Portogallo, è rifare l’esperienza in modo tale che
lei possa sentire pertinente quello che dici al bisogno che ha; che cosa il Mistero farà, poi, con quel tuo gesto concreto per lei, lo staremo a vedere.
Io ho un episodio che vorrei che mi aiutassi a comprendere. Un giorno ero con un mio collega da
un cliente, nel cui ufficio erano esposte delle immagini sacre. Tornando in macchina questo mio
collega mi ha detto: «È scandaloso, è scioccante che un dirigente esponga delle immagini sacre nel
proprio ufficio; è un ente pubblico, per cui non ci devono essere immagini sacre». Allora io ho
detto: «Senti, io negli enti pubblici ho trovato immagini di tutti i tipi, anche calendari con donne
nude e uomini nudi. Ognuno espone quello che vuole. E perché uno non può esporre un’immagine
sacra?». Però lui a questo punto ha detto una cosa che mi ha stupito: «Sì, in fondo l’ateo è colui
che non ha una presenza a cui rispondere». Punto. Questa cosa mi ha come squartato, nel senso
che, a un certo punto, mi sono detto: io non sono ateo perché ho una Presenza a cui rispondere.
Però mi sono accorto di questo, che se la presenza è legata solo al mio riconoscimento, è come
qualcosa che quasi mi fabbrico io, mentre una presenza è qualcosa di oggettivo.
Sì.
Voglio dire: tu hai una biro in mano, questa biro è presente, e la vedo; io ho una biro nel mio
astuccio, quella biro è presente, anche se non è visibile.6
Certo.
Io volevo che tu mi aiutassi a capire come mai io sono molto più legato a questa idea che la
presenza la devo in qualche modo…
…Generare.
Esatto.
Lasciamo la questione aperta, perché questo è il punto del capitolo sesto. Perché dobbiamo
sorprendere in quale momento della nostra esperienza, adesso, ci scontriamo con qualcosa di
presente che non possiamo avere il dubbio di crearcelo noi. A questo non si risponde con una teoria, si risponde con una presenza che ti stupisce, e questa non la generi tu. La cosa migliore è
riconoscerlo, documentarlo, testimoniarcelo a vicenda.
Io volevo dire due cose sulla scorsa Scuola di comunità. Una riguarda il commento all’episodio del
Vangelo dell’Orto degli Ulivi sulla questione della spada: mi aveva particolarmente colpito il
giudizio che avevi dato, soprattutto perché ritengo che quel tipo di giudizio possa in qualche modo
riguardare e giudicare la stessa storia della Chiesa e la stessa storia del movimento. Perché
quando tu con ironia dici, rispetto al taglio dell’orecchio: «Forse il Mistero si è distratto?», poni
un interrogativo di riflessione sulla questione e questo mi fa dire…
La teologia dice che la provvidenza di Dio non sbaglia mai. Per questo tutto quello che succede è
dentro la provvidenza di Dio; non perché il Mistero voglia il male o sia responsabile del male che
noi facciamo, ma lo permette, in un certo modo, mi spiego? Allora la questione è se attraverso tutto questo è possibile vincere il male. Gesù come vince il male? Come lo sconfigge definitivamente, in modo che il male non faccia il male più grave che può fare? E qual è il male più male? Rompere il legame con il Mistero. Questo è il male, perché intacca quella che è la nostra possibilità di salvezza. Non mollando sul legame col Padre. Infatti noi vediamo tanti amici nostri, tante persone, che nella difficoltà, come abbiamo sentito, o nella malattia o nelle situazioni più diverse, fioriscono perché non è intaccato questo rapporto col Mistero, e Lui ci ha testimoniato questo dandoci la possibilità di vedere come noi, anche se il Mistero non ci risparmia niente, possiamo vincere il male perché Lui l’ha vinto. Questo è il contributo più grande che ci dà; non risparmiarcelo, non stravincere e poi lasciarci da soli; no, mostrando a ciascuno di noi che quel legame è più potente della morte, più potente del male, perché il male in Lui non è riuscito – come dico sempre – a “slegarlo” dal Padre.
E questo è decisivo perché quando si introduce il sospetto è questo che ci ammazza veramente, che veramente ci ferisce fino al midollo, perché è come rompere la possibilità della salvezza, il legame che ci salva.
Tra l’altro questo fa emergere in modo netto che il giudizio che esce dalla Scuola di comunità è
utile su tutto.
Assolutamente.
Assolutamente su tutto, fino a toccare anche questi aspetti.
Se non servisse con tutto, non sarebbe vero, lo abbiamo appena sentito dalle lettere.
L’altra questione che mi ha colpito è quando tu, rispondendo a una domanda, ponevi la questione
dell’eterno; perché io sono uscito dalla Scuola di comunità quella sera con una esperienza di
respiro così impressionante che mi è parso quasi di non aver mai respirato come in quella
circostanza, come quella sera, con la conseguenza che il mese che è venuto dopo ho vissuto le
circostanze normali, quotidiane (il lavoro, le problematiche, eccetera) con una serenità e una
intensità che, oserei dire senza esagerare, non avevo sperimentato fino a quel momento lì.
Questo mi consente di rilanciare la sfida per la prossima Scuola di comunità, che continueremo a
fare su questo capitolo sesto: che cosa c’entra quel che hai appena detto adesso con la Scuola di
comunità? Perché, dopo quanto abbiamo detto stasera sulla lettera alla Fraternità e sulla sequela, adesso possiamo continuare a lavorare su questo capitolo fino alla prossima volta: non cerchiamo di fare commenti sul testo, ma di rilevare situazioni in cui ci è successo qualcosa di quello che dice il testo, perché se è un’esperienza noi dobbiamo poterla fare adesso, altrimenti non possiamo fare il cammino della certezza che lì viene descritto, il cammino attraverso cui il Mistero ha rivelato
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veramente la Sua pretesa unica. Vi leggo questo brano di Guardini per introdurvi alla lettura e al
lavoro su questo capitolo: Gesù testimoniava «un continuo, silenzioso trascendere i limiti delle
umane possibilità, in una grandezza e in una vastità che si percepiscono dapprima come una
naturalità benefica, come una libertà che appare naturale, come umanità semplicemente sensibile».
Dov’è la pretesa? Tante volte, siccome non appare in tutta la clamorosità, non la cogliamo, ci
sembra che noi siamo degli sfortunati rispetto a quelli del Vangelo che hanno avuto la possibilità di
toccare con mano i gesti clamorosi di Gesù. Ma Guardini scrive che quello che colpisce di più è
questo «continuo, silenzioso trascendere i limiti delle umane possibilità», quasi che sembra una
naturalità benefica, ma che nel tempo «finisce per rivelarsi semplicemente come un miracolo […]
un passo silenzioso che trascende i limiti segnati alle umane possibilità, ma [attenzione!] ben più
portentoso della immobilità del sole e del tremare della terra». Ben più portentoso. E siccome noi
questo tante volte non lo cogliamo, allora Cristo ci sembra astratto, e continuiamo a parlare e a
ripetere frasi quasi cercando di convincerci. Non funzionerà mai così. È lì, in quello che vedo, che
c’è qualcosa di ben più portentoso dell’immobilità del sole e del tremare della terra. E quello che
inizialmente sembrava frutto di una benevolenza o di una libertà naturale o semplicemente di una
sensibilità umana è in realtà un miracolo, i fatti riguardanti Gesù narrati dal Vangelo sono più
prodigiosi del tremare della terra. Allora ci rendiamo conto di quale attenzione, convivenza,
disponibilità a cogliere quella prodigiosità nel quotidiano occorra, perché il nostro problema è la
riduzione che noi facciamo della presenza del divino, di Cristo, all’espressione di una mera natura
benefica: ma cosa c’è di diverso da una apparente simpatia, da un’umanità «semplicemente
sensibile»? E non capiamo che questo è un miracolo. Per noi un miracolo è solo qualcosa di
strepitoso, invece questo trascendere i limiti segnati alle umane possibilità è ben più portentoso del tremare della terra. Per questo se noi vogliamo rifare l’esperienza dei discepoli, dobbiamo aiutarci e sorprenderci cogliendo questo nella nostra esistenza, perché è lì dove incominceremo a vedere la pretesa che ha Gesù sulla vita; altrimenti “pretesa” sarà un’altra parola, che non ha presa su di noi.
Ma la pretesa cristiana è irriducibile, tanto che in alcuni genera, come vedremo, perfino ostilità! Per questo aiutiamoci a guardare la vita che viviamo con questo capitolo negli occhi, per sorprendere nell’esperienza quello che accade. Perché seguire è rivivere l’esperienza di un altro.
La prossima Scuola di comunità si terrà mercoledì 19 dicembre alle ore 21.30.
Continueremo il lavoro sul sesto capitolo de All’origine della pretesa cristiana e anche sulla lettera
alla Fraternità.
Mi permetto di raccomandarvi la rivista Tracce, questo è il periodo della campagna abbonamenti,
come sapete. Tracce è l’unico strumento di cui ci sentiamo direttamente responsabili, che cerca di
documentare la novità di vita che Dio fa accadere tra noi ed esprime i tentativi di giudizio che il
cammino tra noi fa maturare. È sempre stato utile diffonderla, perché è comunicare quello che il
Mistero fa accadere, ma tutti capiamo che è specialmente importante adesso, con tutto quello che si
dice di noi sui giornali, per la riduzione che alcuni fanno della nostra esperienza: quello che noi
possiamo offrire non è soltanto una dialettica o un controbattere, ma testimoniare una vita. Allora
diffondere Tracce adesso ha un’urgenza particolare per permettere a tante persone di buona volontà, che forse non hanno altra possibilità di conoscerci, di poter rivedere il giudizio o l’idea che si sono fatte e che si fanno del movimento. Due ragazzi raccontavano di un incontro con una persona che stava dicendo di tutto e di più su tutto, e allora, dopo essersi arrabbiati mentre mangiavano e la sentivano parlare, alla fine le hanno dato Tracce. A qualcuno, vedendo qualche programma TV, è venuta la voglia di andare a vendere Tracce. L’insistenza sulla diffusione è decisiva soprattutto perché fa emergere la coscienza che abbiamo di quello che ci è capitato; e che io mi aspetto (per fare un esempio) che qualcuno tra noi, di fronte alla situazione attuale, non vada in confusione e non domandi impaurito: «Cosa facciamo?», ma proponga Tracce o lo rilegga lui stesso per rispondere ai dubbi che gli vengono, lo rilegga perché siamo noi i primi ad avere bisogno della
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testimonianza che Dio dà davanti a noi. Come per il cieco nato, anche per ciascuno di noi è
possibile essere un “io” diverso e non succube dell’ambiente, essere nella mischia e non fuori dal
reale, perché ciascuno di noi è un io che pesca la sua consistenza nell’evento insuperabile che gli è
capitato, che ha incontrato; e allora in ogni circostanza, anche in quella che sembra più ostile, uno
non è fermato, bloccato nel rispondere con creatività, cioè non reagisce negativamente, ma propone una presenza, propone un’esperienza, per esempio dicendo: «Volete sapere che cos’è Cl? Ve lo dico io, e metto io la mia faccia per dirvi che cos’è, ve lo racconto attraverso uno strumento che è questo, Tracce». È una possibilità a portata di ciascuno.
Volantone di Natale. Sono due i testi, uno di Benedetto XVI e uno di don Giussani. L’immagine è
l’Adorazione dei Magi di Gaetano Previati. Il testo del Papa è questo:
«Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Dio ci è diventato così vicino che Egli stesso è un uomo: questo ci deve sconcertare e sorprendere sempre di nuovo! Egli è così vicino che è uno di noi. Conosce l’essere umano, lo conosce dal di dentro, lo ha provato con le sue gioie e le sue sofferenze. Come uomo, mi è vicino, vicino “a portata di voce”».
E questo è il brano di Giussani:
«Il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti tutti i giorni, non era quello delle gambe raddrizzate, della pelle mondata, della vista riacquistata. Il miracolo più grande era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è nulla che convinca l’uomo come uno sguardo che afferri e riconosca ciò che esso è, che scopra l’uomo a se stesso. Gesù vedeva dentro l’uomo, nessuno poteva nascondersi davanti a lui, di fronte a lui la profondità della coscienza non aveva segreti».
Il Libro del mese per dicembre e gennaio (come potrebbe essere diversamente?) è L’infanzia di
Gesù di Benedetto XVI, appena uscito. Questo libro è un altro regalo che il Papa ci fa per
accompagnarci in questo Anno della Fede.
Veni Sancte Spiritus
Canti:
.IL GIOVANE RICCO di Claudio Chieffo
Lui stava parlando,
seduto sopra i gradini,
di quella casa bianca,
in mezzo a tanti bambini.
Erano tutti sudati,
Pietro cercava da bere,
c'erano anche i soldati,
io non riuscivo a vedere.
Va', vendi tutto quello che hai e vieni con me. (2 v.)
Mi feci avanti pian piano,
flnchè non giunsi tra i prirni,
tenevo la testa bassa
e gli occhi fissi ai gradini.
Lui continuava a parlare,
sembrava dicesse a me.
Guardavo fisso la terra
e mi chiedevo perche'.
Sentivo quelle parole,
ma non volevo capire;
poi mi riprese la folla
e non lo volli seguire.
Lui stava parlando,
seduto sopra i gradini
di quella casa bianca,
in mezzo a tanti bambini.
.WHAT WONDROUS LOVE IS THIS?
What wondrous love is this, O my soul, O my soul!
What wondrous love is this, O my soul!
What wondrous love is this that caused the Lord of bliss
To bear the dreadful curse for my soul, for my soul,
To bear the dreadful curse for my soul.
What wondrous love is this, O my soul!
What wondrous love is this that caused the Lord of bliss
To bear the dreadful curse for my soul, for my soul,
To bear the dreadful curse for my soul.
When I was sinking down, sinking down, sinking down,
When I was sinking down, sinking down,
When I was sinking down beneath God’s righteous frown,
Christ laid aside His crown for my soul, for my soul,
Christ laid aside His crown for my soul.
When I was sinking down, sinking down,
When I was sinking down beneath God’s righteous frown,
Christ laid aside His crown for my soul, for my soul,
Christ laid aside His crown for my soul.
To God and to the Lamb, I will sing, I will sing;
To God and to the Lamb, I will sing.
To God and to the Lamb who is the great
While millions join the theme, I will sing, I will sing;
While millions join the theme, I will sing.
To God and to the Lamb, I will sing.
To God and to the Lamb who is the great
I Am;
While millions join the theme, I will sing, I will sing;
While millions join the theme, I will sing.
And when from death I’m free, I’ll sing on, I’ll sing on;
And when from death I’m free, I’ll sing on.
And when from death I’m free, I’ll sing and joyful be;
And through eternity, I’ll sing on, I’ll sing on;
And through eternity, I’ll sing on.
And when from death I’m free, I’ll sing on.
And when from death I’m free, I’ll sing and joyful be;
And through eternity, I’ll sing on, I’ll sing on;
And through eternity, I’ll sing on.
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