venerdì 19 settembre 2014

Chagall e il nostro desiderio d’infinito. L’arte svela il rapporto tra uomo e Dio


L’articolo che l’Arcivescovo ha scritto per il «Corriere della sera» in occasione dell’inaugurazione delle mostre allestite a Palazzo Reale e al Museo Diocesano di card. Angelo Scola 
La Mostra «Marc Chagall e la Bibbia», sezione del Museo diocesano all’interno della retrospettiva Chagall allestita a Palazzo Reale, mi riporta ad alcune suggestioni nate in me a partire dall’occasione, avuta qualche anno fa, di visitare una ricca mostra su Chagall, alla Fondazione Gianadda di Martigny. Non si può comprendere Chagall senza tener conto della sua ricerca inesausta intorno al tema del rapporto tra l’uomo e Dio. Le gouaches a tema biblico sono come il primo passo di questa ricerca, la sua prima intuizione. Attraverso il colore, la velocità del tratto, l’immediatezza espressiva, esse comunicano tutta la vibrazione dell’umano desiderio d’infinito. Nella creazione artistica di Marc Chagall, infatti, non è la narrazione che conta. Prevale l’effetto visivo di forme e colori che sembrano danzare nello spazio. La sua pittura diventa provocazione alla libertà di ogni uomo, anche ad una visione del mondo senza Dio.
Il mistero
Chagall conduce al mistero. La parola mistero però, come egli stesso chiarì esplicitamente, non rimanda alla sfera del non ancora noto che stimoli l’immaginario, ma alla profondità dello spirito: «Tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse ancora più reale del mondo apparente». Nasce da qui nell’artista l’interesse vivissimo per la Bibbia, fonte inesauribile d’ispirazione per la sua vita prima che per la sua arte. «Mi sono riferito a quel grande libro universale che è la Bibbia. Fin dall’infanzia, mi ha riempito di visioni sul destino del mondo e mi ha ispirato nel mio lavoro. Nei momenti di dubbio, la sua grandezza e la sua saggezza altamente poetiche mi hanno quietato. Essa è per me come una seconda natura». Nella lunghissima esistenza di Chagall, che ha percorso l’intera drammatica parabola del XX secolo, la figura di Cristo crocifisso è ricorrente. Questo dato dice che il pittore riconosce nel Crocifisso un nucleo incandescente per l’interpretazione dell’umano. Ed il Crocifisso è ancor più tale per il travaglio dell’uomo moderno. Si può vedere nelle raffigurazioni di Cristo crocifisso la risposta cristiana al problema della sofferenza.
Il discorso sul dolore
Ma tale risposta non è una spiegazione. Gesù Cristo, il Figlio fattosi uomo per noi, Colui che poteva non morire, non fa un «discorso» sul dolore ma lo assume tutto su di sé. Così «inghiotte» da sotto «la morte per la vittoria», come suggerisce San Paolo (1Cor 15,54) riprendendo il profeta Osea. In obbedienza alla volontà del Padre, si consegna sponte (Anselmo) alla morte non solo per solidarietà con ogni donna ed ogni uomo, ma «al posto» di essi. Non solo con noi, ma per noi. La Sua è una morte veramente singolare, diversa dalla comune morte. La Sua morte è vittoria sulla comune morte. Guardando Crocifissione messicana (1945) sorprende la partecipazione degli animali, del cosmo, della «città» tutta al ludibrio della croce, ma ancor più attira l’abbraccio, in primo piano, delle due donne. Tenerezza nel dolore che anticipa, almeno per la sensibilità cristiana, la natura gloriosa della croce, l’«esaltazione della croce». È facile passare allora alla Creazione dell’uomo (1956), ove, portandolo in braccio, Dio gli dona il soffio della vita. La tenera misericordia del creatore fin dall’inizio tiene l’uomo vicino al cuore e nell’abbandono del Crocifisso, misericordia personificata, accoglie l’istanza di ciascuno di noi di fronte all’ombra sempre incombente della nostra morte che si fa domanda. La supplica ardente di Rilke che invoca per ciascuno «la sua morte, la morte che fiorì da quella vita in cui ciascuno amò, pensò, e sofferse».

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