venerdì 7 marzo 2014

«Wojtyla, uomo di Dio con il coraggio della Verità» Benedetto XVI ricorda Giovanni Paolo II

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Intervista di Wlodzimierz Redzioch a Benedetto XVI conte­nuta nel libro «Accanto a Giovanni Paolo II. Gli amici & i collaboratori raccontano», appena pub­blicato dalle edizioni Ares. 


Santità, i nomi di Karol Wojtyla e Joseph Rat­zinger sono legati, a vario titolo, al Concilio Va­ticano II.Vi siete conosciuti già durante il Con­cilio?
 Il primo incontro consapevole tra me e il cardi­nal Wojtyla avvenne solamente nel Conclave in cui venne eletto Giovanni Paolo I. Durante il Concilio, avevamo collaborato entrambi alla «Costituzione sulla Chiesa nel mondo contem­poraneo », e tuttavia in sezioni diverse, cosicché non ci eravamo incontrati. Nel settembre del 1978, in occasione della visita dei vescovi po­lacchi in Germania, ero in Ecuador come rap­presentante personale di Giovanni Paolo I. La Chiesa di Monaco e Frisinga è legata alla Chie­sa ecuadoriana da un gemellaggio realizzato dal­l’arcivescovo Echevarría Ruiz (Guayaquil) e dal cardinal Döpfner. E così, con mio enorme di­spiacere, perdetti l’occasione di conoscere per­sonalmente l’arcivescovo di Cracovia. Natural­mente avevo sentito parlare della sua opera di filosofo e di pastore, e da tempo desideravo co­noscerlo. Wojtyla, dal canto suo, aveva letto la mia
 Introduzione al Cristianesimo , che aveva an­che citato agli esercizi spirituali da lui predicati per Paolo VI e la Curia nella Quaresima del 1976. Perciò è come se interiormente attendessimo entrambi di incontrarci. Ho provato sin dall’ini­zio una grande venerazione e una cordiale sim­patia per il metropolita di Cracovia. Nel pre-Con­clave del 1978 egli ana­lizzò per noi in modostupefacente la natura del marxismo. Ma so­prattutto percepii subito con forza il fascino u­mano che egli emanava e, da come pregava, av­vertii quanto fosse profondamente unito a Dio. 
 Che cosa ha provato quando Giovanni Paolo II l’ha chiamata per affidarle la guida della Con­gregazione per la dottrina della fede?

 Giovanni Paolo II mi chiamò nel 1979 per no­minarmi prefetto della Congregazione per l’e­ducazione cattolica. Erano trascorsi appena due anni dalla mia consacrazione episcopale a Mo­naco e ritenevo impossibile lasciare così presto la sede di san Corbiniano. La consacrazione e­piscopale rappresentava in qualche modo una promessa di fedeltà verso la mia diocesi di ap­partenenza. Pregai dunque il Papa di soprasse­dere a quella nomina [...]. Fu nel corso del 1980 che mi disse di volermi nominare, alla fine del 1981, prefetto della Congregazione per la dot­trina della fede quale successore del cardinale Šeper. Poiché continuavo a sentirmi in obbligo nei confronti della mia diocesi di appartenen­za, per l’accettazione dell’incarico mi permisi di porre una condizione, che peraltro ritenevo ir­realizzabile. Dissi che sentivo il dovere di conti­nuare a pubblicare lavori teologici. Avrei potu­to rispondere affermativamente solo se questo fosse stato compatibile con il compito di pre­fetto. Il Papa, che con me era sempre molto be­nevolo e comprensivo, mi disse che si sarebbe informato su tale questione per farsi un’idea. Quando successivamente gli feci visita, mi spiegò che pubblicazioni teologiche sono compatibili con l’ufficio di prefetto; anche il cardinal Garro­ne, disse, aveva pubblicato lavori teologici quand’era prefetto della Congregazione per l’e­ducazione cattolica. Così accettai l’incarico, ben conscio della gravità del compito, ma sapendo anche che l’obbedienza al Papa esigeva ora da me un «sì».
 
 Potrebbe raccontarci come si svolgeva la col­laborazione
 fra voi?
 La collaborazione con il Santo Padre fu sempre caratterizzata da amicizia e affetto. Essa si svi­luppò soprattutto su due piani: quello ufficiale e quello privato. Il Papa ogni venerdì, alle sei del pomeriggio, riceve in udienza il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, che sottopone alla sua decisione i problemi emersi.
 Hanno naturalmente la precedenza i problemi dottrinali, a cui si aggiungono anche questioni di carattere disciplinare – la riduzione allo stato laicale di sacerdoti che ne hanno fatto richiesta, la concessione del privilegio paolino per quei matrimoni nei quali uno dei coniugi non è cri­stiano, e così via. In seguito si aggiunse anche il lavoro in corso per la stesura del Catechismo del­la Chiesa cattolica . Di volta in volta, il Santo Pa­dre riceveva per tempo la documentazione es­senziale e dunque conosceva in anticipo le que­stioni delle quali si sarebbe trattato. In questo modo, sui problemi teologici abbiamo sempre potuto conversare fruttuosamente. Il Papa era molto ferrato anche sulla letteratura tedesca contemporanea, ed era sempre bello – per am­bedue – cercare insieme la decisione giusta su tutte queste cose [...]. Infine, era abitudine del Pa­pa invitare a pranzo i vescovi in visita ad limina, come anche gruppi di vescovi e sacerdoti di di­versa composizione, a seconda della circostan­za. Erano quasi sempre «pranzi di lavoro» nei quali spesso era proposto un tema teologico. [...] Il gran numero di presenti rendeva sempre varia la conversazione e di ampio respiro. E tuttavia c’era sempre posto anche per il buon umore. Il Pa­pa rideva volentieri e così quei pran­zi di lavoro, pur nella serietà che s’im­poneva, di fatto erano anche occa­sioni per stare in lieta compagnia. 
 Quali sono state le sfide dottrinali che avete affrontato insieme duran­te il suo mandato alla Congregazio­ne per la dottrina della fede?

  La prima grande sfida che affron­tammo fu la Teologia della liberazio­ne che si stava diffondendo in Ame­rica Latina. Sia in Europa che in A­merica del Nord era opinione comune che si trattasse di un sostegno ai poveri e dunque di u­na causa che si doveva approvare senz’altro. Ma era un errore. La povertà e i poveri erano senza dubbio posti a tema dalla Teologia della libera­zione e tuttavia in una prospettiva molto speci­fica. Le forme di aiuto immediato ai poveri e le riforme che ne miglioravano la condizione ve­nivano condannate come riformismo che ha l’effetto di consolidare il sistema: attutivano, si affermava, la rabbia e l’indignazione che inve­ce erano necessarie per la trasformazione rivo­luzionaria del sistema. Non era questione di aiu­ti e di riforme, si diceva, ma del grande rivolgi­mento dal quale doveva scaturire un mondo nuovo. La fede cristiana veniva usata come mo­tore per questo movimento rivoluzionario, tra­sformandola così in una forza di tipo politico. Le
 tradizioni religiose della fede venivano messe a servizio dell’azione politica. In tal modo la fede veniva profondamente estraniata da se stessa e si indeboliva così anche il vero amore per i po­veri. [...] Uno dei principali problemi del nostro lavoro, negli anni in cui fui prefetto, fu lo sforzo per giungere a una corretta comprensione del­l’ecumenismo. Anche in questo caso si tratta di una questione che ha un duplice profilo: da un lato, va affermato con tutta la sua urgenza il com­pito di operare per l’unità e vanno aperte stra­de che ad essa conducono; dall’altro, bisogna respingere false concezioni dell’unità, che vor­rebbero giungere all’unità della fede attraverso la scorciatoia dell’annacquamento della fede. [...]. Da ultimo ci siamo occupati anche della questione relativa alla natura e al compito del­la teologia nel nostro tempo. Scientificità e le­game con la Chiesa a molti oggi sembrano ele­menti in contraddizione fra loro. E tuttavia la teologia può sussiste­re unicamente nel­la Chiesa e con la Chiesa. Su questa questione abbia­mopubbli­cato una
 Istru­zione.

 Benedetto XVI
 
 Fra le molte encicliche di Giovanni Paolo II qua­le
 considera la più importante?
 Penso che siano tre le encicliche di particolare importanza. In primo luogo vorrei menzionare la
 Redemptor hominis, la prima enciclica del Pa­pa, in cui egli ha offerto la sua personale sintesi della fede cristiana [...] In secondo luogo vorrei menzionare l’enciclica Redemptoris missio [...]. In terzo luogo vorrei citare l’enciclica sui pro­blemi morali Veritatis splendor . Ha avuto biso­gno di lunghi anni di maturazione e rimane di immutata attualità. La Costituzione del Vatica­no II «sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», di contro all’orientamento all’epoca prevalen­temente giusnaturalistico della teologia mora­le, voleva che la dottrina morale cattolica sulla figura di Gesù e il suo messaggio avesse un fon­damento biblico. Questo fu tentato attraverso degli accenni solo per un breve periodo, poi andò affermandosi l’opinione che la Bibbia non avesse alcuna morale propria da annunciare, ma che rimandasse ai modelli morali di volta in volta vali­di. La morale è questione di ragione, si diceva, non di fede. Scomparve co­sì, da una parte, la morale intesa in senso giusnaturalistico, ma al suo po­sto non venne affermata alcuna con­cezione cristiana. E siccome non si poteva riconoscere né un fonda­mento metafisico né uno cristologi­co della morale, si ricorse a soluzio­ni pragmatiche: a una morale fonda­ta sul principio del bilanciamento di beni, nella quale non esiste più quel che è veramente male e quel che è ve­ramente bene, ma solo quello che, dal punto di vista dell’efficacia, è meglio o peggio. Il grande compito che il Papa si diede in que­st’enciclica fu di rintracciare nuovamente un fondamento metafisico nell’antropologia, co­me anche una concretizzazione cristiana nella nuova immagine di uomo della Sacra Scrittura. Studiare e assimilare questa enciclica rimane un grande e importante dovere. Di grande signifi­cato è anche l’enciclica Fides et ratio nella qua­le il Papa si sforza di offrire una nuova visione del rapporto tra fede cristiana e ragione filosofica. Da ultimo è assolutamente necessario menzio­nare la Evangelium vitae , che sviluppa uno dei temi fondamentali dell’intero pontificato di Gio­vanni Paolo II: la dignità intangibile della vita u­mana, sin dal primo istante del concepimento. 
 Quali erano i tratti salienti della spiritualità di Giovanni Paolo II?

 La spiritualità del Papa era caratterizzata so­prattutto
 dall’intensità della sua preghiera e per­tanto era profondamente radicata nella cele­brazione della Santa Eucaristia e fatta insieme a tutta la Chiesa con la recita del Breviario. Nel suo libro autobiografico Dono e mistero è possibile vedere quanto il sacramento del sacerdozio ab­bia determinato la sua vita e il suo pensiero. Co­sì la sua devozione non poteva mai essere pura­mente individuale, ma era sempre anche piena di sollecitudine per la Chiesa e per gli uomini [...]. Tutti noi abbiamo conosciuto il suo grande amore per la Madre di Dio. Donarsi tutto a Ma­ria significò essere, con lei, tutto per il Signore [...]. 
 Santità, Lei ha aperto l’iter per la beatificazio­ne con anticipo sui tempi stabiliti dal Diritto ca­nonico. Da quanto tempo e in base a che cosa si è convinto della santità di Giovanni Paolo II?

 Che Giovanni Paolo II fosse un santo, negli an­ni della collaborazione con lui mi è divenuto di volta in volta sempre più chiaro. C’è innanzitut­to da tenere presente naturalmente il suo in­tenso rapporto con Dio, il suo essere immerso nella comunione con il Signore di cui ho appe­na parlato. Da qui veniva la sua letizia, in mez­zo alle grandi fatiche che doveva sostenere, e il coraggio con il quale assolse il suo compito in un tempo veramente difficile. Giovanni Paolo II non chiedeva applausi, né si è mai guardato in­torno preoccupato di come le sue decisioni sa­rebbero state accolte. Egli ha agito a partire dal­la sua fede e dalle sue convinzioni ed era pron­to anche a subire dei colpi. Il coraggio della ve­rità è ai miei occhi un criterio di prim’ordine del­la santità. Solo a partire dal suo rapporto con Dio è possibile capire anche il suo indefesso im­pegno pastorale. Si è dato con una radicalità che non può essere spiegata altrimenti. Il suo impe­gno fu instancabile, e non solo nei gran­di viaggi, i cui programmi erano fitti di
appuntamenti, dall’ini­zio alla fine, ma anche giorno dopo giorno, a partire dalla Messa mattutina sino a tarda not­te. Durante la sua prima visita in Germania (1980), per la prima volta feci un’esperienza mol­to concreta di questo impegno enorme. Per il suo soggiorno a Monaco di Baviera, decisi per­tanto che dovesse prendersi una pausa più lun­ga a mezzogiorno. Durante quell’intervallo mi chiamò nella sua stanza. Lo trovai che recitava il Breviario e gli dissi: «Santo Padre, Lei dovreb­be riposare»; e lui: «Posso farlo in Cielo». Solo chi è profondamente ricolmo dell’urgenza del­la sua missione può agire così. [...] Ma devo ren­dere onore anche alla sua straordinaria bontà e comprensione. Spesso avrebbe avuto motivi suf­ficienti per biasimarmi o per porre fine al mio in­carico di prefetto. E tuttavia mi sostenne con u­na fedeltà e una bontà assolutamente incom­prensibili. Anche qui vorrei fare un esempio. A fronte del turbine che si era sviluppato intorno alla dichiarazione Dominus Jesus mi disse che al­l’Angelus intendeva difendere inequivocabil­mente il documento. Mi invitò a scrivere un te­sto per l’Angelus che fosse, per così dire, a tenu­ta stagna e non consentisse alcuna interpreta­zione diversa. Doveva emergere in modo del tut­to inequivocabile che egli approvava il docu­mento incondizionatamente. Preparai dunque un breve discorso; non intendevo, però, essere troppo brusco e così cercai di esprimermi con chiarezza ma senza durezza. Dopo averlo letto, il Papa mi chiese ancora una volta: «È veramen­te chiaro a sufficienza?». Io risposi di sì. Chi co­nosce i teologi non si stupirà del fatto che, cio­nonostante, in seguito ci fu chi sostenne che il Papa aveva prudentemente preso le distanze da quel testo. 
 Che cosa prova intimamente oggi che la Chie­sa riconosce ufficialmente la santità del 'suo' Papa, Giovanni Paolo II, di cui è stato il più stret­to
 collaboratore?
 Il mio ricordo di Giovanni Paolo II è colmo di gratitudine. Non potevo e non dovevo provare a imitarlo, ma ho cercato di portare avanti la sua eredità e il suo compito meglio che ho potuto. E perciò sono certo che ancora oggi la sua bontà mi accompagna e la sua benedizione mi pro­tegge.

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