venerdì 7 marzo 2014

Il Papa ai parroci di Roma: è il tempo della misericordia «La strada, il posto dove Gesù era più spesso Poteva sembrare che fosse un senzatetto»


Quando insieme al cardinale vicario ab­biamo pensato a questo incontro, gli ho detto che avrei potuto fare per voi una meditazione sul tema della misericordia. All’ini­zio della Quaresima riflettere insieme, come pre­ti, sulla misericordia ci fa bene. Tutti noi ne ab­biamo bisogno. E anche i fedeli, perché come pa­stori dobbiamo dare tanta misericordia, tanta!
 
 Il brano del Vangelo di Matteo che abbiamo a­scoltato ci fa rivolgere lo sguardo a Gesù che cam­mina per le città e i villaggi. E questo è curioso. Qual è il posto dove Gesù era più spesso, dove lo si poteva trovare con più facilità? Sulle strade. Po­teva sembrare che fosse un senzatetto, perché e­ra sempre sulla strada. La vita di Gesù era nella strada. Soprattutto ci invita a cogliere la profon­dità del suo cuore, ciò che Lui prova per le folle, per la gente che incontra: quell’atteggiamento interiore di «compassione», vedendo le folle, ne sentì compassione. Perché vede le persone «stan­che e sfinite, come pecore senza pastore». Ab­biamo sentito tante volte queste parole che for­se non entrano con forza. Ma sono forti! Un po’ come tante persone che voi incontrate oggi per le strade dei vostri quartieri… Poi l’orizzonte si al­larga, e vediamo che queste città e questi villag­gi sono non solo Roma e l’Italia, ma sono il mon­do… e quelle folle sfinite sono popolazioni di tan­ti Paesi che stanno soffrendo situazioni ancora più difficili… Allora comprendiamo che noi non siamo qui per fare un bell’esercizio spirituale all’inizio della Quaresima, ma per ascoltare la voce dello Spiri­to che parla a tutta la Chiesa in questo nostro tempo, che è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro. Non è solo la Quaresima; noi stiamo vivendo in tempo di misericordia, da trent’anni o più, fino adesso. 
 1. Nella Chiesa tutta è il tempo della misericordia.

 Questa è stata un’intuizione del beato Giovanni Paolo II. Lui ha avuto il «fiuto» che questo era il tempo della misericordia. Pensiamo alla beatifi­cazione e canonizzazione di suor Faustina Kowal­ska; poi ha introdotto la festa della Divina Mise­ricordia. Piano piano è avanzato, è andato avan­ti
 su questo. Nell’omelia per la canonizzazione, che avvenne nel 2000, Giovanni Paolo II sottolineò che il mes­saggio di Gesù Cristo a suor Faustina si colloca temporalmente tra le due guerre mondiali ed è molto legato alla storia del ventesimo secolo. E guardando al futuro disse: «Che cosa ci porte­ranno gli anni che sono davanti a noi? Come sarà l’avvenire dell’uomo sulla terra? A noi non è da­to di saperlo. È certo tuttavia che accanto a nuo­vi progressi non mancheranno, purtroppo, e­sperienze dolorose. Ma la luce della divina mise­ricordia, che il Signore ha voluto quasi riconse­gnare al mondo attraverso il carisma di suor Fau­stina, illuminerà il cammino degli uomini del ter­zo millennio». È chiaro. Qui è esplicito, nel 2000, ma è una cosa che nel suo cuore maturava da tempo. Nella sua preghiera ha avuto questa in­tuizione.
 
 Oggi dimentichiamo tutto troppo in fretta, anche il Magistero della Chiesa! In parte è inevitabile, ma i grandi contenuti, le grandi intuizioni e le con­segne lasciate al Popolo di Dio non possiamo di­menticarle. E quella della divina misericordia è una di queste. E’ una consegna che lui ci ha da­to, ma che viene dall’alto. Sta a noi, come mini­stri della Chiesa, tenere vivo questo messaggio soprattutto nella predicazione e nei gesti, nei se­gni, nelle scelte pastorali, ad esempio la scelta di restituire priorità al sacramento della Riconcilia­zione, e al tempo stesso alle opere di misericor­dia. Riconciliare, fare pace mediante il Sacra­mento, e anche con le parole, e con le opere di misericordia. 
 2. Che cosa significa misericordia per i preti?

 Mi viene in mente che alcuni di voi mi hanno te­lefonato, scritto una lettera, poi ho parlato al te­lefono… «Ma Padre, perché Lei ce l’ha con i pre­ti? ». Perché dicevano che io bastono i preti! Non voglio bastonare qui…
 Domandiamoci che cosa significa misericordia per un prete, permettetemi di dire per noi preti. Per noi, per tutti noi! I preti si commuovono da­vanti alle pecore, come Gesù, quando vedeva la gente stanca e sfinita come pecore senza pasto­re. Gesù ha le «viscere» di Dio, Isaia ne parla tan­to: è pieno di tenerezza verso la gente, special­mente verso le persone escluse, cioè verso i pec­catori, verso i malati di cui nessuno si prende cu­ra… Così a immagine del Buon Pastore, il prete è uomo di misericordia e di compassione, vicino alla sua gente e servitore di tutti. Questo è un cri­terio pastorale che vorrei sottolineare tanto: la vi­cinanza. La prossimità e il servizio, ma la prossi­mità, la vicinanza!… Chiunque si trovi ferito nel­la propria vita, in qualsiasi modo, può trovare in lui attenzione e ascolto… In particolare il prete dimostra viscere di misericordia nell’ammini­strare il sacramento della Riconciliazione; lo di­mostra in tutto il suo atteggiamento, nel modo di accogliere, di ascoltare, di consigliare, di assolve­re… Ma questo deriva da come lui stesso vive il sacramento in prima persona, da come si lascia abbracciare da Dio Padre nella Confessione, e ri­mane dentro questo abbraccio… Se uno vive questo su di sé, nel proprio cuore, può anche do-narlo agli altri nel ministero. E vi lascio la domanda: Come mi confesso? Mi lascio abbracciare? Mi vie­ne alla mente un grande sacerdote di Buenos Aires, ha meno anni di me, ne avrà 72… Una volta è ve­nuto da me. È un grande confessore: c’è sempre la coda lì da lui… I preti, la maggioranza, vanno da lui a confessarsi… È un grande confessore. E una vol­ta è venuto da me: «Ma Padre…», «Dimmi», «Io ho un po’ di scrupolo, perché io so che perdono trop­po! »; «Prega… se tu perdoni troppo…». E abbiamo parlato della misericordia. A un certo punto mi ha detto: «Sai, quando io sento che è forte questo scru­polo, vado in cappella, davanti al Tabernacolo, e Gli dico: Scusami, Tu hai la colpa, perché mi hai dato il cattivo esempio! E me ne vado tranquillo…». È una bella preghiera di misericordia! Se uno nella Con­fessione vive questo su di sé, nel proprio cuore, può anche donarlo agli altri.
 
 È la sola domanda… 
 3. Misericordia significa né manica larga né rigidità.

 Ritorniamo al sacramento della Riconciliazione.

 minori, successivamente arrestato. Accuse infamanti diffuse nel giugno 2013 da una tv e rivolte appunto ad alcuni confratelli del clero romano di essere coinvolti in atti di pedofilia e poi rivelatesi parte di «un sordido complotto», secondo la definizione dei magistrati ripresa ieri da
 Roma7, il settimanale della diocesi. Il Papa ha voluto chiedere scusa perché tra gli accusatori figurava un incaricato del servizio diplomatico della Santa Sede, monsignor Luca Lorusso, in servizio presso la nunziatura in Italia. Il Papa non ha fatto nomi, ma ha precisato: «Voglio chiedere scusa a voi, non tanto come vescovo vostro, ma come incaricato del servizio diplomatico, come Papa, perché uno degli accusatori è del servizio diplomatico. Ma questo non è stato dimenticato, si studia il problema, perché questa persona sia allontanata. Si sta cercando la via, è un atto grave di ingiustizia e vi chiedo scusa per questo». 
 (G.C.)
 
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 Capita spesso, a noi preti, di sentire l’esperienza dei nostri fedeli che ci raccontano di aver incon­trato nella Confessione un sacerdote molto «stret­to », oppure molto «largo»,
 rigorista o lassista. E questo non va bene. Che tra i confessori ci siano differenze di stile è normale, ma queste differen­ze non possono riguardare la sostanza, cioè la sa­na dottrina morale e la misericordia. Né il lassi­sta né il rigorista rende testimonianza a Gesù Cri­sto, perché né l’uno né l’altro si fa carico della persona che incontra. Il rigorista si lava le mani: infatti la inchioda alla legge intesa in modo fred­do e rigido; il lassista invece si lava le mani: solo apparentemente è misericordioso, ma in realtà non prende sul serio il problema di quella co­scienza, minimizzando il peccato. La vera mise­ricordia si fa carico della persona, la ascolta at­tentamente, si accosta con rispetto e con verità alla sua situazione, e la accompagna nel cammi­no della riconciliazione. E questo è faticoso, sì, cer­tamente. Il sacerdote veramente misericordioso si comporta come il Buon Samaritano… ma per­ché lo fa? Perché il suo cuore è capace di com­passione, è il cuore di Cristo!
 
 Sappiamo bene che né il lassismo né il rigorismo fanno crescere la santità.Forse alcuni rigoristi sembrano santi, santi… Ma pensate a Pelagio e poi parliamo… Non santificano il prete, e non santificano il fedele, né il lassismo né il rigorismo! La misericordia invece accompagna il cammino della santità, la accompagna e la fa crescere… Troppo lavoro per un parroco? È vero, troppo la­voro! E in che modo accompagna e fa crescere il cammino della santità? Attraverso la sofferenza pastorale, che è una forma della misericordia. Che cosa significa sofferenza pastorale? Vuol di­re soffrire per e con le persone. E questo non è fa­cile! Soffrire come un padre e una madre soffro­no per i figli; mi permetto di dire, anche con an­sia… Per spiegarmi faccio anche a voi alcune doman­de che mi aiutano quando un sacerdote viene da me. Mi aiutano anche quando sono solo davan­ti al Signore! Dimmi: Tu piangi? O abbiamo perso le lacrime? Ricordo che nei Messali antichi, quelli di un al­tro tempo, c’è una preghiera bellissima per chie­dere il dono delle lacrime. Incominciava così, lapreghiera: «Signore, Tu che hai dato a Mosè il mandato di colpire la pietra perché venisse l’ac­qua, colpisci la pietra del mio cuore perché le la­crime… »: era così, più o meno, la preghiera. Era bellissima. Ma, quanti di noi piangiamo davanti alla sofferenza di un bambino, davanti alla di­struzione di una famiglia, davanti a tanta gente che non trova il cammino?… Il pianto del prete… Tu piangi? O in questo presbiterio abbiamo per­so le lacrime? Piangi per il tuo popolo? Dimmi, tu fai la pre­ghiera di intercessione davanti al Tabernacolo?
 
 Tu lotti con il Signore per il tuo popolo, come A­bramo ha lottato: «E se fossero meno? E se fos­sero 25? E se fossero 20?...» (cfr Gen 18,22-33). Quella preghiera coraggiosa di intercessione… Noi parliamo di parresia, di coraggio apostolico, e pensiamo ai piani pastorali, questo va bene, ma la stessa parresiaè necessaria anche nella pre­ghiera. Lotti con il Signore? Discuti con il Signo­re come ha fatto Mosè? Quando il Signore era stufo, stanco del suo popolo e gli disse: «Tu stai tranquillo… distruggerò tutti, e ti farò capo di un altro popolo». «No, no! Se tu distruggi il popolo, distruggi anche a me!». Ma questi avevano i pan­taloni! E io faccio la domanda: Noi abbiamo i pan­taloni per lottare con Dio per il nostro popolo?
 
 Un’altra domanda che faccio: la sera, come con­cludi la tua giornata? Con il Signore o con la te­levisione?
 
 Com’è il tuo rapporto con quelli che aiutano ad essere più misericordiosi? Cioè, com’è il tuo rap­porto con i bambini, con gli anziani, con i mala­ti? Sai accarezzarli, o ti vergogni di accarezzare un anziano? Non avere vergogna della carne del tuo fratello (c­fr Reflexiones en esperanza , I cap.). Alla fine, sa­remo giudicati su come avremo saputo avvici­narci ad «ogni carne» – questo è Isaia. Non ver­gognarti della carne di tuo fratello. «Farci prossi­mo »: la prossimità, la vicinanza, farci prossimo alla carne del fratello. Il sacerdote e il levita che passarono prima del buon samaritano non sep­pero avvicinarsi a quella persona malmenata dai banditi. Il loro cuore era chiuso. Forse il prete ha guardato l’orologio e ha detto: «Devo andare al­la Messa, non posso arrivare in ritardo alla Mes­sa », e se n’è andato. Giustificazioni! Quante vol­te prendiamo giustificazioni, per girare intorno al problema, alla persona. L’altro, il levita, o il dot­tore della legge, l’avvocato, disse: «No, non pos­so perché se io faccio questo domani dovrò an­dare come testimone, perderò tempo…». Le scu­se!… Avevano il cuore chiuso. Ma il cuore chiu­so si giustifica sempre per quello che non fa. In­vece quel samaritano apre il suo cuore, si lascia commuovere nelle viscere, e questo movimento interiore si traduce in azione pratica, in un in­tervento concreto ed efficace per aiutare quella persona. Alla fine dei tempi, sarà ammesso a contempla­re la carne glorificata di Cristo solo chi non avrà avuto vergogna della carne del suo fratello ferito ed escluso.
 
 Io vi confesso, a me fa bene, alcune volte, legge­re l’elenco sul quale sarò giudicato, mi fa bene: è in Matteo 25.
 
 Queste sono le cose che mi sono venute in men­te, per condividerle con voi. Sono un po’ alla buona, come sono venute… [Il cardinale Valli­ni: «Un bell’esame di coscienza»] Ci farà bene. [applausi] A Buenos Aires – parlo di un altro prete – c’era un confessore famoso: questo era Sacramentino. Quasi tutto il clero si confessava da lui. Quando, una delle due volte che è venuto, Giovanni Pao­lo II ha chiesto un confessore in Nunziatura, è andato lui. È anziano, molto anziano… Ha fatto il Provinciale nel suo Ordine, il professore… ma sempre confessore, sempre. E sempre aveva la coda, lì, nella chiesa del Santissimo Sacramento. In quel tempo, io ero vicario generale e abitavo nella Curia, e ogni mattina, presto, scendevo al fax per guardare se c’era qualcosa. E la mattina di Pasqua ho letto un fax del superiore della co­munità: «Ieri, mezz’ora prima della Veglia Pa­squale, è mancato il padre Aristi, a 94 – o 96? – an­ni. Il funerale sarà il tal giorno…». E la mattina di Pasqua io dovevo andare a fare il pranzo con i preti della casa di riposo – lo facevo di solito a Pa­squa –, e poi – mi sono detto – dopo pranzo an­drò alla chiesa. Era una chiesa grande, molto grande, con una cripta bellissima. Sono sceso nella cripta e c’era la bara, solo due vecchiette lì che pregavano, ma nessun fiore. Io ho pensato: ma quest’uomo, che ha perdonato i peccati a tut­to il clero di Buenos Aires, anche a me, nemme­no un fiore… Sono salito e sono andato in una fioreria – perché a Buenos Aires agli incroci del­le vie ci sono le fiorerie, sulle strade, nei posti do­ve c’è gente – e ho comprato fiori, rose… E sono tornato e ho incominciato a preparare bene la bara, con fiori... E ho guardato il Rosario che a­vevo in mano… E subito mi è venuto in mente – quel ladro che tutti noi abbiamo dentro, no? –, e mentre sistemavo i fiori ho preso la croce del Ro­sario, e con un po’ di forza l’ho staccata. E in quel momento l’ho guardato e ho detto: «Dammi la metà della tua misericordia». Ho sentito una co­sa forte che mi ha dato il coraggio di fare questo e di fare questa preghiera! E poi, quella croce l’ho messa qui, in tasca. Le camicie del Papa non han­no tasche, ma io sempre porto qui una busta di stoffa piccola, e da quel giorno fino ad oggi, quel­la croce è con me. E quando mi viene un cattivo pensiero contro qualche persona, la mano mi viene qui, sempre. E sento la grazia! Sento che mi fa bene. Quanto bene fa l’esempio di un prete misericordioso, di un prete che si avvicina alle fe­rite… Se pensate, voi sicuramente ne avete conosciuti tanti, tanti, perché i preti dell’Italia sono bravi! Sono bravi. Io credo che se l’Italia ancora è tanto forte, non è tanto per noi vescovi, ma per i par­roci, per i preti! È vero, questo è vero! Non è un po’ d’incenso per confortarvi, lo sento così.
 
 La misericordia. Pensate a tanti preti che sono in cielo e chiedete questa grazia! Che vi diano quel­la misericordia che hanno avuto con i loro fede­li. E questo fa bene. Grazie tante dell’ascolto e di essere venuti qui. Angelus Domini… 
 © LIBRERIA EDITRICE VATICANA


La storia del confessore argentino di cui Bergoglio porta con sé la croce, che tocca «quando mi viene un cattivo pensiero contro qualche persona». Grande stima e affetto per i preti italiani: sono bravi! «Se l’Italia è ancora tanto forte, più che per noi vescovi, è per i parroci, per i preti!» 
 (L’Osservatore
 Romano) Il prete è chiamato a imparare questo, ad avere un cuore che si commuove. I preti – mi permet­to la parola – «asettici» quelli «di laboratorio», tut­to pulito, tutto bello, non aiutano la Chiesa. La Chiesa oggi possiamo pensarla come un «ospe­dale da campo». Questo scusatemi lo ripeto, per­ché lo vedo così, lo sento così: un «ospedale da campo». C’è bisogno di curare le ferite, tante fe­rite! Tante ferite! C’è tanta gente ferita, dai pro­blemi materiali, dagli scandali, anche nella Chie­sa... Gente ferita dalle illusioni del mondo… Noi preti dobbiamo essere lì, vicino a questa gente. Misericordia significa prima di tutto curare le fe­rite. Quando uno è ferito, ha bisogno subito di questo, non delle analisi, come i valori del cole­sterolo, della glicemia… Ma c’è la ferita, cura la ferita, e poi vediamo le analisi. Poi si faranno le cure specialistiche, ma prima si devono curare le ferite aperte. Per me questo, in questo momen­to, è più importante. E ci sono anche ferite na­scoste, perché c’è gente che si allontana per non far vedere le ferite… Mi viene in mente l’abitu­dine, per la legge mosaica, dei lebbrosi al tempo di Gesù, che sempre erano allontanati, per non contagiare… C’è gente che si allontana per la ver­gogna, per quella vergogna di non far vedere le ferite… E si allontanano forse un po’ con la fac­cia storta, contro la Chiesa, ma nel fondo, dentro c’è la ferita… Vogliono una carezza! E voi, cari confratelli – vi domando – conoscete le ferite dei vostri parrocchiani? Le intuite? Siete vicini a lo­ro?


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