lunedì 3 marzo 2014

UN ANNO COL PAPA

La copertina di ''Tracce'' di marzo. guzman     Intervista a Guzman Carriquiry

Un anno con lui

Santa Marta. Francesco lo si capisce meglio da lì, guardando al «flusso continuo di vita e di stupore» che, attraverso quelle omelie pronunciate a braccio nella cappella dove il Papa dice messa ogni mattina, arriva «a tanta gente che non avrebbe mai immaginato di restare colpita da un Pontefice». Parola di Guzmán Carriquiry, 69 anni, sposato, quattro figli, avvocato uruguayano trapiantato a Roma dal 1971, quando Paolo VI lo chiamò a lavorare in Curia. È stato per vent’anni sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici, da tre è segretario della Commissione per l’America Latina. Jorge Mario Bergoglio lo conosce da una vita. Ma anche per lui il primo anno di papa Francesco è stato una sorpresa continua.

Quali sono stati i momenti più importanti?
Elencarli è lungo, è stato un anno di densità e intensità singolari. Ho in mente la prima bellissima apparizione dalla Loggia di San Pietro, appena eletto; la scelta immediata e sorprendente di abitare nella Casa Santa Marta; la Giornata Mondiale della Gioventù a Copacabana; il suo incontro con i migranti - vivi e morti! - a Lampedusa, la visita ad Assisi. E poi, la creazione del Consiglio di otto cardinali per aiutarlo nella riforma della Curia, l’intervista a padre Spadaro, l’Evangelii Gaudium… Però, nonostante tutto, penso che i momenti più importanti siano stati le omelie mattutine. Credo che questo magistero day by day - un Vangelo sine glossa - sia un tesoro prezioso. Arriva a tutti.

Perché, accanto a quei gesti pastorali, reputa così importante anche la scelta di vivere a Santa Marta?
È fondamentale. Fa capire chi è. Mi ha stupito subito pensare a quest’uomo che scende dal balcone appena eletto Papa, in questa grande commozione interiore che deve aver vissuto, e che appena gli aprono la porta ha la presenza di sé, la libertà e la determinazione di dire «no» alla berlina per salire sul bus con i cardinali. È un aneddoto, certo. Ma mostra una capacità immediata e libera di prendere decisioni. Ecco, per Santa Marta è lo stesso. Lì, lui riesce a moltiplicare i contatti. Ad allargare l’orizzonte rispetto a quello che poteva avere nell’appartamento pontificio. Può ricevere più spesso i collaboratori della Curia, cardinali, vescovi. Chi arriva.

Questo rifiuto molti l’hanno letto come un taglio, una rottura col passato... 
Non direi. Più che un taglio, è l’affermazione della coscienza di sé e del suo compito. Lui dice apertamente, varie volte: gli appartamenti pontifici non sono lussuosi, semplicemente lì mi sarei sentito depresso. Ma certo, dietro quel senso di “depressione” c’è la consapevolezza che lui non vuol essere rinchiuso, isolato. Vuole allargare l’orizzonte di realtà. 

Ma che cosa, invece, l’ha sorpresa di più, in questi mesi?
Il concentrato così veloce di passaggio da un momento teso, drammatico, per certi versi oscuro come l’ultimo periodo sofferto da quell’uomo santo e saggio che è stato Benedetto XVI - e che negli ultimi mesi sembrava sottoposto a una Via Crucis - al clima di gioia e di attesa che ha suscitato il nuovo Papa. È sorprendente, perché è quasi immediato. Una Chiesa sotto assedio per mesi, anzi anni... E poi di colpo questa svolta. Mi fa ripensare alle parole dello stesso Benedetto XVI verso la fine del suo Pontificato: «Non siamo noi a condurre la Chiesa; neanche il Papa conduce la Chiesa. È Dio a condurla». È lo Spirito di Dio che sa come e quando far rinascere il cristianesimo nelle anime. Ma se c’è questa esplosione di speranza, non è solo per un dono di comunicazione di Francesco: è perché la gente sentiva in qualche modo il bisogno di questa novità evangelica. Altrimenti, sarebbe inspiegabile la manifestazione straordinaria della “popolarità” che si è scatenata.

A proposito di popolarità: molti osservatori che conoscevano Bergoglio, sottolineano che dopo l’elezione sembra diverso: più comunicativo, più «caldo». È così? E se sì, perché?
E la grazia di stato. È lo stesso cardinale Bergoglio, certo. Come impostazione pastorale e visione, non c’è dubbio. Ma, insieme, non è lo stesso, è evidente che lì opera la grazia. A Buenos Aires aveva presentato le dimissioni da un anno e mezzo. Stava per ritirarsi alla Casa del clero… È ringiovanito. Ha potenziato un’espressività negli affetti che già aveva quando si incontrava con il suo popolo, ma che ora è molto più a fior di pelle. L’immagine di Bergoglio in Argentina era quella di un uomo sobrio, austero. Più severo. Ora è più ricco di cordialità. L’ha sempre avuta soprattutto nelle grandi manifestazioni di religiosità popolare. Ma adesso l’accompagna in tutto il suo ministero. 

Ma lei si aspettava questi cambiamenti così repentini?
Conoscendolo, un po’ me li aspettavo. Ma quello che stiamo vivendo supera ogni aspettativa. È un Papa imprevedibile. Non a caso ci chiede di essere aperti alle sorprese di Dio, al di là delle nostre sicurezze materiali, spirituali e pure ecclesiastiche. La domanda vera che ogni realtà cristiana e ogni singolo fedele dovrebbe farsi, è: che cosa ci sta domandando Dio? Cosa ci sta mostrando? Cosa ci sta chiedendo di cambiare attraverso il Pontificato di Jorge Mario Bergoglio? 

E lei, per sé, cosa risponde?
Io lavoro in Curia da 42 anni e mezzo. Capisco che devo consegnare tutto ciò che ho davanti, come vita e lavoro, al servizio del successore di Pietro. Tutto. Ricaricando tutte le batterie del mio entusiasmo, della mia dedizione. Ma ogni comunità, ogni singolo, ogni movimento, soprattutto ogni pastore deve porsi questa domanda. Se no, l’entusiasmo può restare sentimentale. La contentezza è già un movimento di cuore, chiaro. Ma chiede di essere approfondita.

Secondo lei, che cosa dà al Papa questa apertura di cuore, questa disponibilità a imparare da quello che gli succede?
Guardi, a me stupisce come lui metta sempre in primo luogo la preghiera. Io non so se sia un mistico, ma che sia un uomo di preghiera è evidente. Prega dalla mattina presto. Fa omelie a braccio di cinque minuti, ma che sono omelie meditate, maturate nel dialogo personale con Dio. Ed è uno che ogni giorno dice il Rosario, fa un’ora di adorazione di fronte al Santissimo... Insomma, è molto attaccato alla sua disciplina di preghiera. Del resto, ne parla anche lui spesso. È uno dei suoi temi fondamentali. Anche quando parla della missione dice sempre che la priorità, il primo momento, è la preghiera: cioè la domanda, la familiarità con il mistero di Dio presente. Tante volte, per dire, prende delle decisioni sorprendenti, che nessuno aspetta, come la veglia per la Siria. A volte mi viene da chiedergli: scusi, Santità, ma da dove le è venuto in mente? Ma è evidente che non prende decisioni importanti che non siano nella preghiera. Il discernimento di cui parla si coltiva nella preghiera.

C’è un punto decisivo per il Papa, lo ripete spesso: è la necessità di tornare alkerygma, al cuore dell’annuncio. Perché è così urgente?
Lo dice bene nella Evangelii Gaudium, quando invita «ogni cristiano, in qualsiasi situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Cristo, o almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui». O quando ripete quelle parole di papa Benedetto che conducono al centro del Vangelo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1). Anzitutto, l’urgenza di ricentrarsi sul kerygma è ciò che lo stesso Gesù ci ha consegnato come mandato apostolico, proprio come si avverte nelle prime predicazioni di Pietro. Poi nasce dal fatto che la Chiesa, nel suo peregrinare, sente il bisogno di ritornare sempre al cuore dell’annuncio, che è la sorgente di ogni riforma. Ancora, in Francesco c’è la convinzione lieta e salda «che la verità cristiana è attraente e persuasiva perché risponde ai bisogni profondi dell’esistenza umana». Infine, perché ci vuole la radicalità del Vangelo, che per un mondo scristianizzato può diventare segno di contraddizione, ma sa arrivare ai cuori come una novità inaudita. Come dice il Papa nell’omelia della canonizzazione di Pietro Favre, solo se si è centrati in Cristo si può essere “decentrati” come missionari, in tutte le periferie dell’esistenza e della convivenza. Per lui è fondamentale andare sempre all’essenziale. 

La conseguenza è il richiamo alla testimonianza. Se la fede è un’attrattiva, si trasmette anzitutto attraverso testimoni, non discorsi…
Ricordo che Bergoglio rimase molto colpito quando papa Ratzinger, nell’omelia della Messa di inaugurazione della Conferenza dei vescovi latinoamericani di Aparecida nel 2007, disse che la fede «non si trasmette per proselitismo, ma per la via dell’attrazione». Questo punto è stato ripreso molte volte da Francesco. A partire dal suo primo grande discorso programmatico, ai Vescovi brasiliani. C’è bisogno di una Chiesa che, «abbandonando ogni mondanità spirituale», faccia più spazio al mistero di Dio, perché «soltanto la bellezza di Dio può attrarre. Egli risveglia nell’uomo il desiderio di custodirlo nella propria vita, nella propria casa, nel proprio cuore. Dio risveglia in noi il desiderio di chiamare i vicini per far conoscere la sua bellezza». Che cosa è la missione se non la comunicazione del dono dell’incontro con Cristo? Quando la gente incontra una vera testimonianza cristiana, «sente il bisogno di cui parla il profeta Zaccaria: “Vogliamo venire con voi”». Certo, ci vuole una Chiesa che nella sua vita renda luminosa la presenza di Cristo, nonostante l’opacità dei propri limiti. Ma questa è la seconda domanda cruciale che lui pone ad ognuno nell’Evangelii Gaudium: quanto e come fate trasparente la Sua presenza nella vostra realtà?

Da dove nasce, invece, l’insistenza sulla povertà, sulla Chiesa «povera e per i poveri»?
Lo diceva già Giovanni XXIII, proprio prima del Concilio Vaticano II: «La Chiesa si presenta qual è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri». Ma questa dimensione evangelica, questa autocoscienza della Chiesa, non prese abbastanza corpo nell’evento conciliare perché l’Europa del boom economico, all’epoca, pesava ancora molto. Penso che sia stato un grande contributo della Chiesa latinoamericana a tutta la Chiesa riprendere, nel magistero e nella vita, questa connotazione essenziale del Vangelo, sempre presente nella tradizione. Sarebbe stato cinico, all’epoca del Concilio, quando in America Latina c’erano ancora sacche enormi di povertà – poveri battezzati, credenti, che animavano manifestazioni di religiosità popolare –, non pensare che i poveri hanno dei canali di comunicazione speciale nel Vangelo. Ecco, questa coscienza in Francesco la vediamo concretamente: quando lava i piedi nel carcere minorile di Roma, quando visita Lampedusa, mentre abbraccia i tossicodipendenti a Rio, quando ha un gesto di tenerezza per i malati.... È il Vangelo vissuto, l’abbraccio della carità, il dono commosso di sé. Il Papa ripete sempre che questo è l’atteggiamento del discepolo, cioè del testimone di un Dio che essendo ricco, diventa povero fino all’inverosimile. E che si fa presente specialmente in coloro che patiscono nella propria carne «ciò che manca alla passione del Figlio». I Padri della Chiesa parlavano dei poveri come della “seconda eucaristia”. Saremo giudicati da ciò che abbiamo fatto o meno per i piccoli e bisognosi. Parlando di san Francesco, il Papa ricordava che lui «ha vissuto l’imitazione di Cristo e l’amore ai poveri in modo inscindibile, come le due facce di una stessa medaglia». È nel mistero di Cristo, nella sua incarnazione, nel suo amore misericordioso, che si fonda l’amore ai poveri. Senza questo fondamento, degenera in una riduzione moralistica del fatto cristiano. La Chiesa viene «assimilata a una Ong» filantropica, ricorda il Papa. O finisce per essere preda di forme di ideologizzazione politica. Queste sono confusioni residuali che da tempo la Chiesa latinoamericana ha lasciato indietro. Confusioni che non devono farci arretrare, timorosi; al contrario, richiedono una testimonianza decisa nell’essere vicini a tutti coloro che soffrono nella carne la miseria, l’ingiustizia, l’oppressione e la violenza. E sono moltitudini. Ad Aparecida l’episcopato latinoamericano ha potuto confermare la scelta preferenziale per i poveri, dei quali Benedetto XVI aveva parlato fortemente nel discorso inaugurale, con tutta serenità. Perché aveva saputo discernere e superare quello che era stato un passaggio difficile. Ma desso che cosa succede in Europa? Torniamo indietro? Denunciamo questa preferenza come fosse un pericolo? Sarebbe un errore grave… 

È che qui in Europa la povertà è ancora una categoria sociologica. In America Latina è una fetta imponente di realtà. Questo cambia i canoni di giudizio.
Capisco. Ma se il Papa visita Lampedusa e privilegia i rifugiati, vorrà dirci qualcosa, no? Non so perché questo provochi certi timori.

Forse perché a volte siamo attaccati alle conseguenze più che al centro. A un sistema di idee che va in crisi, se il centro non è Cristo. Ti ritrovi spiazzato.
È così. Reagisci. E rimani rinchiuso in una visione parziale delle cose.

Qui siamo a un altro aspetto del Pontificato: sembra che l’unica condizione richiesta per fare i conti con l’annuncio radicale di Francesco sia proprio la povertà di spirito. Una lealtà con il proprio bisogno e la propria “umanità ferita”. È una possibilità per chiunque, al di là delle posizioni culturali, dei pre-concetti o delle ideologie…
Penso che il Papa sarebbe d’accordo. In effetti, siamo in un mondo di feriti. Basta allargare lo sguardo: indifferenza e confusione sul senso della vita, dissoluzione dei vincoli di appartenenza, isolamento e solitudine, violenze ovunque… Ma è anche un modo per approfondire lo sguardo su se stessi, senza schermi di protezione o di distrazione: siamo vittime della nostra autosufficienza, dell’egoismo e della superbia; schiavi delle idolatrie del denaro, del potere, del piacere effimero, dell’intellettualismo senza sapienza. Siamo tutti creature ferite dalla vita. E perciò siamo bisognosi; sempre in ricerca, sempre in attesa, con quella inquietudine di un cuore non atrofizzato, mai soddisfatto… Siamo bisognosi soprattutto di uno sguardo pieno di affetto, di misericordia e di perdono. Come quello sperimentato dal Papa stesso quando si definisce come «peccatore su cui si pose lo sguardo di Dio». Perciò propone la Chiesa come «ospedale da campo», in cui la medicina migliore per le ferite dell’anima è la misericordia. Per lui il primo gesto, il più umano, è la preghiera. Ho trovato bellissima quella citazione di Sant’Agostino che il Papa riprende nell’omelia della messa di canonizzazione di Pierre Favre: «Pregare per desiderare e desiderare per allargare il cuore». Dice molto, no? In quell’omelia parla del desiderio in un modo sorprendente. Ed è il desiderio che provoca una santa inquietudine, che alla fine si pone nel cuore di Dio, ci consegna a Dio e diventa desiderio urgente di comunicare ciò che si vive. 

Anche sotto questo profilo, più si va avanti e più emerge una continuità evidente con Benedetto XVI.
All’ultimo Meeting di Rimini ho detto che è opera del demonio comparare o, peggio, contrapporre i due Pontificati. Sia per rimanere nostalgicamente afferrati a Benedetto - e questa diventa nostalgia “canaglia” quando si manifesta in distacco e giudizi critici verso il Pontificato di Francesco -, sia per esaltare Francesco e denigrare il predecessore. A volte di arriva addirittura a prospettare una rottura nella continuità della tradizione cattolica, degli insegnamenti dottrinali e morali di quella storia ininterrotta di amore che è la Chiesa. La verità è che questa continuità - che più ancora è comunione, è unità - si avverte già nell’obbedienza incondizionata che Benedetto garantisce al successore prima ancora di essere eletto. E poi nell’affetto tra entrambi, nel vederli pregare insieme, nella scrittura a quattro mani dell’enciclica Lumen Fidei… Sono anelli e custodi di una catena ancorata nella roccia della testimonianza degli apostoli. E sono uniti soprattutto nel puntare su quella essenzialità e radicalità della fede, pur essendo allo stesso tempo molto diversi come provenienza, retroterra culturale, formazione teologica, sensibilità spirituale e modalità di esercizio del ministero petrino. Il pensiero di Benedetto XVI sarà magistero illuminante per la Chiesa per tanto tempo. Ma oggi siamo chiamati specialmente a seguire l’unico Papa regnante, Francesco. Con tutta la carica di novità con cui lo Spirito di Dio lo ha investito per il bene della Chiesa e degli uomini. Tanto più che basta guardare bene per vedere una linea continua anche in certi temi specifici.

Per esempio?
Lo sguardo. Ratzinger parla della fede come «cammino dello sguardo, che diventa visione». È lo sguardo di Cristo quando, prima di qualsiasi dialogo, guarda in modo tale da colpire gli evangelisti. Come il giovane ricco: «Fissatolo, lo amò». Benedetto parla spesso di questo sguardo, che ci fa avere uno sguardo molto più profondo su noi stessi e, insieme, ci fa avere lo sguardo del Buon Samaritano, dove c’è bisogno. Ma anche papa Francesco riprende molto la fede come cammino dello sguardo. Lui stesso si definisce, appunto, come un peccatore «su cui si pose lo sguardo di Dio». Ma non solo. Quando va ad Assisi, dice di san Francesco: «La vita del giovane Francesco cambiò sotto lo sguardo del Cristo di san Damiano». Cioè di Cristo nel momento in cui dà la vita per lui e per tutti noi. Questo è il momento della conversione. E poi continua, sul Buon Samaritano: «La distanza annebbia lo sguardo. Bisogna avvicinarsi». Serve prossimità, familiarità. Chi non tocca la carne del povero, non vede. Va a Lampedusa per farci vedere da vicino la sofferenza, va in carcere per avvicinarci alla sofferenza. 

Nei due non c’è anche la consapevolezza comune di rivolgersi a un mondo ormai post-cristiano, quasi da primo Millennio?
Certo. In verità, non so se Francesco direbbe «postcristiano». I due hanno questa consapevolezza, ma con una sfumatura diversa. Ratzinger pensa al futuro del cristianesimo come a quello di una minoranza creativa nel deserto della secolarizzazione. Francesco viene da un mondo dove non si pensa a “minoranze creative”, ma ad una Chiesa che non solo ha l’autocoscienza teologica di essere popolo di Dio, ma nella sua realtà ha ancora una consistenza popolare, sociale, culturale e storica, nonostante tutti i imiti. Per questo parla ancora tanto della religiosità popolare. Ha il senso di un popolo che non è stato ancora sfibrato.

In questo è molto sudamericano.
Vero. È una sfumatura diversa. Pensa alla religiosità popolare come a una grande riserva di fede, a un potenziale. E in qualche modo se ne nutre. Si vede che è un uomo che viene da questo mondo. Quando passa davanti a un’immagine, la tocca. Tocca i piedi della Vergine, la prende in braccio. Le porta lui stesso un mazzo di fiori, le fa visita da solo a Santa Maria Maggiore appena eletto... Insiste molto su quella maternità che è consolazione, protezione, affetto. Non tanto l’immagine tipologica della Vergine che ci mostra come essere discepoli. Certo, questa sì. Ma non bisogna solo “essere come lei”. Bisogna amarla. Con tutto l’affetto, la tenerezza, la carezza. E questo viene molto dal mondo della religiosità popolare. E poi questo Papa ha un cuore rivolto ai lontani. Guarda molto a loro, li privilegia. Guarda le novantanove pecore lontane che se ne sono andate, e non l’unica nel recinto. Questa critica permanente all’autoreferenzialità, all’autosufficienza della Chiesa, è importante… Il Papa chiede di uscire, di andare incontro. È la sua preoccupazione missionaria maggiore. Tanti cristiani reagiscono come il fratello maggiore del figliol prodigo: si irrigidiscono. Ma lui ricerca i lontani. E sa che li devi abbracciare con grande amore misericordioso, senza discriminazioni preventive. Neanche dal punto di vista morale.

Come si spiega il fascino umano di Francesco, la sua capacità di comunicare?
Il mio amico monsignor Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia, dice che Francesco è «padre imprevedibile», perché dall’inizio del Pontificato è in ricerca permanente - guidata dallo Spirito Santo ma anche dalla sua esperienza pastorale - per giungere al cuore degli uomini che ha davanti. E la prima condizione è coinvolgersi totalmente, in prima persona, nella sua testimonianza personale. Senza schermi protettori, fuori di ogni retorica. Francesco vuole stabilire una corrente da cuore a cuore. E la gente si sente toccata da questa misericordia misteriosa e debordante. È attratta, viene attirata ad ascoltarlo, a prendere sul serio le sue parole. Mi impressiona, per esempio, come la gente ripeta con il Papa il pensiero centrale delle sue catechesi: durante l’Angelus, o l’udienza, lui si ferma, ripete un pensiero. E la gente lo segue. Oppure, chiede silenzio. Anche in uno scenario da dolce vita, come Copacabana. Chiede silenzio e dice: che cosa stai facendo qui? Che cosa sei venuto a cercare? E la gente lo segue, prega con lui, segue con attenzione ciò che lui comunica in una specie di “grammatica della semplicità”. Ma forse più che «la gente» dovremmo dire «le persone».

Perché?
Vede, Giovanni Paolo II riusciva ad avere un dialogo corale con la gente. Francesco riesce allo stesso modo, ma in un dialogo molto personalizzato. Cerca la preghiera, il silenzio, appunto. Si sa che il Papa dice sempre che il popolo non è mai “massa”, sono volti di giovani e di anziani, di donne e di uomini, di malati, di poveri, legati ad una storia, a un senso di appartenenza, a un ideale di vita buona. Io sono qui da 42 anni. Non ho mai visto una tale presenza di folla in piazza San Pietro ogni mercoledì e domenica. Sempre. Se non arrivi venti muniti prima, non puoi entrare. Ti trovi braccio contro braccio, non c’è spazio. Questa gente chi è? Militanti cattolici delle parrocchie, dei movimenti? Ce ne sono tanti, certo. Ma è anche il popolo semplice, romano. È la parrucchiera che dice a mia moglie: non avrei mai pensato che mi avrebbe attirato andare a mezzogiorno in piazza a vedere il Papa…

Altra questione: le polemiche sui “valori non negoziabili”. Francesco sta spiazzando tanti, anche tra i cristiani, per il richiamo a quell’annuncio “ultimo” che viene prima delle verità “penultime”. Cristo viene prima dei valori. In molti lo accusano di “cedere le armi” davanti al mondo. E davvero così?
Non è così! Sono state le campagne mediatiche, l’opera delle varie “lobbies” e la discussione di proposte di legge sulla vita e alla famiglia in ballo un po’ ovunque che hanno fatto sì che gli interventi della Chiesa sui “valori non negoziabili” diventassero forse troppo frequenti e occupassero un primo piano a volte eccessivo. Abbiamo corso il rischio di dare un’immagine di Chiesa più preoccupata di princìpi e leggi che della cura delle anime. Il Papa ha iniziato con questa preoccupazione: se si vuole attirare la gente a Dio, non si può partire dai “no”. E neanche da quei “no” scontati in una Chiesa che sa di non poter negoziare niente di ciò che è sostanziale nella dottrina. D’altro canto, su questo c’è anche una certa strategia. Di questi temi sta parlando mese per mese con sempre più forza. Se uno guarda a quante volte, per dire, ha difeso la vita, trova espressioni molto potenti: davanti agli ambasciatori, per esempio, ha parlato di «orrore dell’aborto». Ma lui lo ripete spesso: il discernimento implica sempre il sapere quando parlare e come parlare, secondo i contesti. Lui ora può parlare con forza su qualsiasi soggetto, anche che provoca resistenze, perché non potrà essere aggredito come restauratore. 

Che giudizio dà su questi primi passi nella riforma della struttura della Chiesa? Che piega prenderà, secondo lei?
Francesco ama ricordare spesso quella risposta di madre Teresa di Calcutta al giornalista che le domandava da dove cominciare la riforma della Chiesa: «Da me e da te!». Lui sta riformando la Chiesa “in capite et in membris”, nell’istituzione e nella gente. Non c’è riforma vera senza una corrente di santità. E senza conversione. Il Papa ci chiede questo.
Davide Perillo

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