martedì 4 marzo 2014

Una preghiera per non farsi schiacciare dal dolore

Fine di febbraio. In una stanza d’ospedale. La camera è nuova e luminosa, le lenzuola candide; da fuori entra una luce che già sa di primavera.
  Dei due pazienti, il primo è molto anziano, le mani da contadino, le parole semplici. L’altro è più giovane. Entrambi sono qui da quasi un mese. Entrambi se ne stanno zitti per ore.
  Al mattino l’unico rumore è il fruscio degli erogatori di ossigeno. Forse per colmare questo troppo grande silenzio, al pomeriggio il paziente più anziano
accende la tv su un canale commerciale, e per ore la stanza è inondata di telenovele, pubblicità, televendite. Una cascata di parole fatue, che travolge. (Il visitatore sarebbe perfino tentato di danneggiare nascostamente la tv, perché finalmente taccia. Ma d’altra parte, dice a se stesso, forse quel cicaleccio aiuta i due malati, che sembrano seguire distrattamente le immagini che scorrono – grati di non essere soli, fra queste mura bianche).
  Il visitatore, che viene qua due volte la settimana e poi se ne torna a casa, fra i sani, osserva con meraviglia i lenti riti della giornata d’ospedale. La bottiglia d’acqua, i fazzoletti di carta, gli occhiali religiosamente disposti sul comodino, così che il malato ci arrivi con la mano. Le
 provviste di cioccolata e biscotti, per un appetito che in verità manca. Le infermiere che a orari fissi portano i farmaci, o fanno le iniezioni. L’odore di detersivo e disinfettante che all’ora dei pasti si mescola con quello della minestra, e a te che vieni da fuori fa passare la fame; mentre i pazienti dicono che, in fondo, qui non si mangia affatto male.
  Pasti consumati a piccoli bocconi, con certosina lentezza. Ma d’altronde il tempo, qui dentro, assume una dimensione del tutto diversa. L’orologio sul tavolino è guasto, ti dici, tanto lenta è la lancetta dei minuti. La guardi, la riguardi dopo mezz’ora, e quella è ancora lì, esitante, poco più avanti di prima. E ti convinci che davvero il tempo è una
 grandezza relativa. Fuggente nei giorni belli, mentre si gonfia, pachidermico e immobile, in una stanza d’ospedale.
  Ma è ancora un’altra, la domanda insistente che ti interpella qui dentro, davanti ai corpi smagriti, alla fatica dei piccoli gesti di cui nemmeno ci accorgiamo, da sani. La domanda dura e opaca, osservando lo sforzo del respiro e le membra stanche, è: non è poi, davvero, tutto qui? Non siamo solo complesse macchine, muscoli e ossa che si usurano, con gli anni? Il visitatore riconosce però in quell’assillo un’eco cattiva, un sapore di nulla. E impara che in una stanza d’ospedale, per stare di fronte alla sofferenza senza lasciarsene schiacciare, si resta, silenziosamente, a pregare

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