lunedì 23 giugno 2014

Scuola di comunità con Julián Carrón 18 giugno 2014

                                          

Testo di riferimento: J. Carrón, «NELLA CORSA PER AFFERRARLO», suppl. a Tracce-Litterae
communionis, maggio 2014, pp. 15-44.

• Romaria
• Non nobis

Gloria

Cominciamo continuando a lavorare sulla prima lezione degli Esercizi della Fraternità. Leggo una
mail che è arrivata: «La domanda che mi urge di più è quella di ritornare a vedere Cristo nella mia
vita, o meglio, a decidere di rivederLo. Ho fatto l’incontro con il movimento circa dieci anni fa e so
cosa significa avere qualcuno con me che mi accompagna, mi guida, mi sostiene; ma ultimamente
non riesco proprio ad affidarmi a Lui. Mi fa talmente male e paura quel che ti sto dicendo, non tanto
per un fatto moralistico, ma perché vedo nella mia esperienza che è cambiato qualcosa. Sono
passata dall’essere una persona solare a una costantemente cupa, da una che guardava tutto in modo
diverso e con gratitudine a una che adesso prova solo rancore e rabbia per ciò che le succede
intorno, da una sempre aperta ad ascoltare gli altri e a raccontare di sé a una chiusa, scontrosa ed
eccessivamente orgogliosa. Come dice la citazione di Giussani negli Esercizi della Fraternità, al
punto tre del sabato mattina: «“Se siamo così vinti, come facciamo a vincere? […] Occorre che
venga qualcuno dal di fuori – deve venire dal di fuori – e che di fronte a questa nostra casa abbattuta
rifaccia le mura. […] È in questo la difficoltà maggiore nei confronti […] del cristianesimo
autentico: è attraverso qualcosa d’altro – che viene dal di fuori – che l’uomo diventa se stesso […].
[Ma questo] ‘non piace’, perché fa entrare, dà ospitalità a qualcosa che non corrisponde alla nostra
fantasia e a una nostra immagine di esperienza, che appare astratto nella sua pretesa”. Questo
“qualcosa d’altro”, Cristo, ci sembra astratto. E poiché ci sembra astratto, per rispondere all’urgenza
di cambiare, di costruire, “ci si arresta […] in un’aspirazione impotente a rimediare o in una pretesa
fraudolenta, mentitrice, vale a dire: si identifica il rimedio con la propria immagine e volontà di
rimediare”» (p. 32). Ed è proprio questo che mi sta accadendo. Ma la cosa che mi fa più male è che
non mi muovo, non riesco a fare un passo avanti per ovviare a una vita che sta diventando
completamente piatta e che non mi permette più di sorprendermi, di gioire, di ridere ed esserne
fiera. Questa sorta di limbo mi sta affossando talmente tanto che mi sento prigioniera di me stessa.
Allora ti chiedo: perché al posto di seguire il mio vero bene passo per una via che mi porta solo
all’inquietudine? Cosa significa davvero quando Giussani dice che tutto ciò che accade Dio lo
permette per la maturazione di coloro che si è scelti? Grazie per far risvegliare sempre il mio io
assopito». Colpisce quel che dice questa persona perché mostra cosa è essenziale per vivere; perché
quando l’essenziale manca, prevalgono il male e la paura, la persona solare diventa cupa, dalla
gratitudine si passa alla rabbia e al rancore, e dall’essere aperta diventa chiusa. È talmente
essenziale che la vita cambia faccia. Non è essenziale perché noi facciamo il discorso
sull’essenziale: è essenziale perché la vita cambia faccia, Cristo (a differenza di quel che noi
pensiamo) è talmente concreto ed essenziale che fa cambiare faccia alla vita. E quando noi non
siamo disponibili a questo, che cosa succede? Questa è la nostra povertà, nel senso più autentico del
termine: «Se siamo così vinti, come facciamo a vincere? […] Occorre che venga qualcuno dal di
fuori». Ma a questo tante volte noi non siamo disponibili e allora identifichiamo – dice Giussani –
la soluzione con un’immagine: «Si identifica il rimedio con la propria immagine e volontà di
rimediare». Mentre è facile: quando si riconosce Cristo non occorre inventare alcuna immagine,
basta semplicemente seguire con semplicità, e allora si verifica ciò che lei ha descritto come
positivo; e quando questo non succede, tutto cambia faccia in negativo. È talmente reale, anche se
altrettanto misteriosa, la presenza di Cristo che quando non è riconosciuta, «quando questo non
succede sono completamente piatta, incapace di sorprendermi, di gioire, e tutto diventa piatto, un
limbo dove affossare». Perché questo è per la nostra maturazione? Perché uno può anche
allontanarsi, ma in quel momento si rende veramente conto di qual è la natura del suo bisogno. E
quando uno si è reso conto che la natura del bisogno non la può “far fuori” lui, non può risolvere lui
il suo bisogno si rende conto ancora di più che il bello che accade nella vita è generato dal
riconoscimento di Cristo; tutti ne abbiamo esperienza, altrimenti nessuno di noi sarebbe qui. E
perché questo serve per la nostra maturazione? Serve perché lei adesso sente l’urgenza di ritornare a
vedere Cristo nella vita, o meglio, a «decidere di rivederLo», perché passa per la propria libertà. Noi
possiamo incastrarci, attaccarci a un’immagine di come deve essere la vita e di come la vita si
debba risolvere, e questa nostra immagine non essere in grado di farci cambiare, perché è
un’immaginazione, è fumo, uguale al nulla, non ha alcuna capacità di cambiamento e di novità.
Basterebbe semplicemente seguire quel che accade. Seguire la mia immagine mi affossa; seguire il
luogo dove questo mi è successo e continua a succedere mi genera (tanto è vero che lei si sente
risvegliata nel suo «io assopito» proprio da un luogo). Basta seguire e accettare la modalità – che
non decido io! – attraverso cui il Mistero ha pietà del mio niente.

Io sono rimasta colpitissima dall’ultima Scuola di comunità, e cerco di dire quali sono le cose che
mi avevano colpito l’ultima volta e che ho verificato in questo mese.

Ti ringrazio già per questa prima frase: «Le cose che mi avevano colpito l’ultima volta e che ho
verificato in questo mese». Se questo non è il metodo della Scuola di comunità non aspettatevi un
cambiamento da essa. Mi ha colpito, la settimana scorsa, riprendere il quinto capitolo di All’origine
della pretesa cristiana dove Giussani dice: «Una definizione deve formulare una conquista già
avvenuta, in caso contrario risulterebbe l’imposizione di uno schema» (p. 73). Ecco, la Scuola di
comunità sono suggerimenti per conquistare nell’esperienza quel che ci diciamo, altrimenti andiamo
per definizioni; e le definizioni non cambiano la vita. Per questo, se uno pensa di poter stare qui
solo aspettando la nuova definizione e la nuova parola d’ordine da dire poi in giro, non abbia alcuna
speranza che cambi qualcosa, perché ciò che cambia la vita non è la ripetizione di una definizione,
ma una conquista avvenuta nell’esperienza. Se questa conquista manca, nemmeno la partecipazione
alla Scuola di comunità può cambiarci. Per questo ti ringrazio dell’incipit del tuo intervento, che
rimette tutti noi davanti a questo fatto. Perciò vi lancio la sfida: quest’anno a che cosa è servita la
Scuola di comunità? Che cosa ha significato come cammino? In che cosa è cambiato il mio modo di
farla? Per poter verificare se noi ci aspettiamo tutto da un miracolo o da un cammino. Avanti.
Dicevo che l’altra volta sono arrivata a Scuola di comunità avendo avuto nel pomeriggio un
dialogo con una persona, un ciellino di lungo corso come me, che obiettava alla tua conduzione del
movimento: «Don Giussani mai avrebbe detto questo, mai avrebbe fatto quest’altro». Io all’inizio ti
ho difeso, poi a un certo punto gli ho detto: «Ma scusa, tu che hai seguito don Giussani per tanti
anni, lo hai mai visto dire o fare una cosa che ti aspettavi? E non l’abbiamo forse seguito – tu e io
– proprio perché era sempre inimmaginabile? E perché ora dovrebbe essere diverso? Perché ora
vorresti che quello che il movimento dice coincida con quel che immagini tu? Non sarebbe la fine?
Perché pretendi che Carrón dica quel che pensi, se la mia e la tua liberazione è una presenza che
mai ha detto e fatto ciò che noi pensiamo?». Mentre tornavo a casa, e pensavo al dialogo che avevo
avuto con questa persona, mi ha fatto impressione accorgermi che ciò che corrisponde al cuore
non corrisponde – mai! – all’immaginazione. E questa è la prima difficoltà con cui noi dobbiamo
fare i conti. Per fortuna non corrisponde all’immaginazione, perché sarebbe l’inferno! Con questi
pensieri sono arrivata a Scuola di comunità quella sera. Io, in questo momento dell’anno (come
tutti i giugno) sono dominata dalla stanchezza, e facilmente sento la fatica, sento la tristezza, sento
le arrabbiature, sento i risentimenti, è come se avessi tutte le corde tese. Durante l’ultima Scuola di
comunità mi ha fatto colpo accorgermi – non dopo l’arrabbiatura, non dopo la tristezza, non dopo
la stanchezza, ma dentro – che Cristo è nella mia vita un’imponenza imparagonabile ai miei errori.
Tant’è che in questo mese la frase che mi sono trovata più a ripetere è: «Signore, io non so com’è,
so che Ti amo». Perché sono molto più definita – ma nell’esperienza, non a priori – dalla Sua presa 3
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che da tutte le mie ribellioni, perché il fondo di tutto il male è una nostalgia inestirpabile di Uno
che conosco. E mi accorgo che questo può magari non cambiare immediatamente lo stato d’animo;
ma accorgermi di questo è veramente sempre una liberazione. Perciò ho sussultato quando tu, alla
Scuola di comunità dell’altra volta, dicevi: «Ogni urto del reale, ogni situazione, ogni solitudine,
ogni disgrazia, ogni cosa, è come benzina sul fuoco, accende la nostalgia. […] È veramente
un’altra cosa, il cristianesimo è un’altra cosa!» (p. 3). E poi la lettera, che mi ha folgorato, di
quella ragazza che raccontava di una vita come quella che stavo facendo in quei giorni (e come
quella che poi ho fatto anche questo mese)! Io mi sono portata dentro la frase che lei diceva: «E in
questo vortice, di Gesù quasi mi dimentico». Ma tu, tra parentesi – e io di questa parentesi ti sono
grata perché sono queste parentesi l’esperienza della liberazione –, notavi: «“Quasi”: tutto sta in
questo “quasi”», perché è vero, è imponente, non posso dimenticarmene. L’altra cosa che mi ha
colpito tantissimo dell’ultima Scuola di comunità è il passaggio, che in quell’ora c’è stato, da
Maria Maddalena e Zaccheo al voto per le elezioni europee. E questo a me ha fatto veramente
molta impressione, perché mi sono accorta della differenza, anche culturale e politica, che c’è tra
l’applicare un discorso e il vivere queste occasioni con dentro il velo di quella faccia. Sono due
mondi; e io ho incontrato il secondo, non il primo. L’ultima cosa che mi ha colpito moltissimo è
che, riprendendo in mano la prima lezione degli Esercizi, mi è caduto molto l’occhio sulla frase
con cui tu apri, commentando Ojos de cielo: «Per potere comprendere questa frase bisogna avere
visto vibrare negli occhi di una persona l’Essere che la fa esistere ora. Perché l’inferno non si
cancelli solo sentimentalmente bisogna che gli occhi vibrino in una maniera tale che non mi lascino
rimanere nell’apparenza della vibrazione, ma che io sia spinto a vedere in quella vibrazione degli
occhi l’Essere che li fa, che li fa vibrare così» (p. 15). Ecco, io ti sono grata perché c’è una cosa
che il don Gius ha tante volte ripetuto e che mi è tornata in mente rileggendo questa frase:
«Mistero e segno coincidono». C’è un modo di intendere questa frase che è togliere a Cristo il
mistero per non sentirlo; e c’è un modo di sentire, vivere questa frase che, lungi dal togliere a
Cristo il mistero, riempie ogni cosa e ogni persona di Mistero, riempie la realtà e la nostra
compagnia identificandola con l’aspetto più acuto della realtà di Mistero. Mai è stata così
misteriosa per me anche la nostra compagnia, e perciò diventa così cara proprio perché così
misteriosa, perché solo il Mistero è la mia salvezza, mentre mi sembra che l’inferno sia rimanere
nell’apparenza.
Grazie, perché solo se noi siamo disponibili a seguire quel luogo dove questo accade, dove questa
coincidenza tra Mistero e segno accade, è possibile che la vita cambi faccia; ma, di nuovo, occorre
che questo non si riduca a una frase, ma sia un’esperienza. Lei dice di come si può ridurre la frase
«Mistero e segno coincidono»: si toglie il Mistero espungendolo dalla realtà di ogni cosa. Invece la
nostra compagnia è talmente reale e misteriosa proprio perché offre a ciascuno di noi quel che
diceva la nostra amica di prima. Di che cosa abbiamo bisogno? Di guardare il luogo della nostra
compagnia così, di decidere di riverderLo, di decidere di riconoscerLo, perché tante volte la
questione non è che non ci sia, è che noi abbiamo già deciso che non c’è, e quindi non ci cambia. E
questo sarà il dramma finché esisterà il mondo, perché davanti all’invito di Gesù a Zaccheo:
«Scendi, Io vengo a casa tua!», ci sarà sempre chi si commuove, e altri che stanno lì a criticare
perché va a casa di un peccatore; l’uno partecipa della novità che Lui introduce nella storia, gli altri
restano nel nulla. Per questo Cristo non pre-decide il dramma, ma lo acuisce, è come benzina sul
fuoco che lo ridesta costantemente. Allora la questione fondamentale è non ridurre il dramma al
sentimento che può prevalere in noi.

Io, che nella mia vita ho visto così tante cose belle, adesso mi sento spersa. Mi guardo solo come
misura, mi paragono a tutti, odio tutto ciò che in me non va bene, mi obbligo a fare delle cose che
non hanno senso. Cosa vuol dire essere amati esattamente così come si è? Com’è possibile che ci
sia un amore che mi ama così come sono, anche se le cose non le faccio bene? E in ultimo, perché
io dovrei fare tutto ciò che faccio se tanto alla fine, teoricamente, non sono giudicata su quello? È
come se continuassi a spingere sott’acqua una palla che tanto continua a tornare su, ed è come se
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fossi sempre sull’orlo di un precipizio. Cosa vuol dire che l’essenziale è Gesù? Per me l’essenziale
è il riconoscimento negativo di me, delle mie capacità, dei miei esiti, e penso: forse quando
eccellerò in questa cosa gli altri mi vorranno più bene. Tu non hai idea di che forza ci vuole per
stare tutto il giorno solo a notare i propri difetti, è la cosa più stancante che ci sia. Il vivere le cose
così mi fa perdere tutto ciò che c’è di bello. Il rapporto con il mio ragazzo è una delle cose più
belle che ci sia, ma sto “cacciando” pure quello. Tutto perde gusto, perché schiacciato dalle mie
aspettative. Vorrei solo vivere con semplicità, guardare tutto così com’è, e finalmente essere me
stessa. Mi manca davvero l’aria a volte, e neanche ricordo cosa sia la vera pace. Come si fa a
vivere la tristezza come inizio, come indicazione, e non come vicolo vuoto?
Ma tu qualche volta nella vita hai visto qualcosa di diverso dal mero riconoscimento negativo di te?
 Sì. Ho visto di più.

Hai visto di più. Allora perché ti accanisci decidendo di guardare solo il tuo limite? Tu stai lottando
contro i mulini a vento, perché il problema è che nella realtà, come tu hai visto in certi momenti con 
una chiarezza solare, c’è qualcosa che non si riduce ai tuoi limiti. Lo sbaglio più clamoroso non è 
avere dei limiti – quelli li abbiamo tutti –, ma a un certo momento non vedere altro che quelli
Perché? Per quel che dicevamo con l’esempio del luna-park: a un certo punto, è come se la presenza 
sparisse e quel che prima tu vedevi come qualcosa di attraente –te lo immagini il bambino al luna-
park, con tutte le attrazioni, tutto gasato per la curiosità? – venisse meno. La realtà cambia faccia, e 
non vediamo più oltre. Ma al bambino basta recuperare il legame con i suoi genitori per 
ricominciare a vedere ciò che c’è. Allora l’essenziale non è il riconoscimento negativo di te, perché 
non ti fa essere te stessa; l’essenziale è stare in un luogo dove, malgrado tutti i nostri errori, 
continuano a sfidarci su questo. Perché sei venuta qui? Sei venuta perché hai accettato la sfida di
questa lezione, perché già nell’Introduzione abbiamo detto, citando il profeta Isaia (49,15): «Sion ha 
detto: “Il Signore mi ha abbandonato” […] e Lui, approfitta dell’occasione per mostrare una volta di 
più la Sua diversità, sfidando la nostra ragione in un modo sconvolgente: “Si dimentica forse una 
donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si 
dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”» (pp. 9-10). La questione è se tu sei disponibile
a riconoscere questo, che è ciò che vuoi: è possibile che ci sia un amore che mi ama così? Sì, c’è! 
Costantemente abbiamo la testimonianza di persone che, pur avendo tutti i limiti (la fatica, la 
tristezza, il risentimento), non dopo di essi ma dentro essi, sorprendono Cristo come una presenza
imparagonabile ai loro errori. Da quando Cristo è entrato nella storia e ha introdotto questa Sua 
presenza… Zaccheo era pieno di errori come te, ma è prevalsa una Presenza diversa. È questa la 
novità cristiana. Che cosa vuol dire? Che allora tu desideri solo vivere «con semplicità» davanti a 
una cosa così. Lascia prevalere questa semplicità: «Guardare tutto così com’è, e finalmente essere 
me stessa». Questo come si riesce a fare? Soltanto accettando questa Presenza. Da quel momento tu 
puoi cominciare a vivere la tristezza come inizio.

Ma come si fa ad accettarla? Perché sembra che io gli altri, non so come dire, li guardo così, li 
guardo come se non valessero per i propri errori, infatti per me non valgono per quello. 
Allora? 
Ma non riesco a guardare me così. 
Tu non puoi dire che non riesci; tu “decidi” di guardarti così. 
Però è più forte la decisione di altro. 
No! Questa è la questione: tu non sei l’esito dei tuoi fattori antecedenti. Tu hai la ragione e la libertà 
e puoi usarle in un modo o in un altro, perché l’incastratura è pensare che tu sia determinata dal 
pimpampum delle circostanze. «Non riesco»: no! Tu decidi di guardare solo una cosa; di tutto quel 
che c’è – di tutto quello che c’è! – tu decidi di guardare solo questo. Questa è una tua decisione. 
Ma che senso ha, allora, che io le cose le faccia bene se tanto anche se sbaglio… 
Dimènticati adesso delle cose che fai bene! La realtà è di più di quel che fai. Quando tu vedrai 
questo “di più”, allora potrai anche guardare le cose che fai bene diversamente, perché tu non
dipenderai da questo. Mi piace tanto l’immagine dei profeti, un’immagine bellissima, molto potente 
evocativamente. Tu vedi un tronco secco, un enorme tronco secco, e nel tronco secco vedi un
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germoglio; tu puoi dire: «È tutto secco, quasi». Nel “quasi” c’è tutto: perché il germoglio c’è. Tutto 
il tronco secco, che è imparagonabilmente più grande del germoglio, fa fuori il germoglio? No. 
Allora tu puoi decidere di continuare a dirmi: «È tutto secco», ma non puoi cancellare il germoglio 
dicendo che è tutto secco. E dov’è la speranza di quel tronco? Nel tutto secco o nel germoglio? 
Nel germoglio. 
Gesù ha introdotto quel germoglio nella storia: mentre tutti si guardavano a vicenda per quel che 
facevano, in un contesto dove i farisei dicevano che la vita valeva, come tu dici, solo per ciò che si 
riesce a fare, è apparso un germoglio, un Uomo che in mezzo a tutto il resto guardava diversamente. 
Essere cristiano è dare credito a questo. Prova a dare credito a questo, prova! Perché non è una 
spiegazione ciò che ti convincerà. Se tu provi a ospitare questa Presenza, comincerai a vedere, 
perché se Zaccheo avesse fatto come te… «Scendi ché vengo a casa tua», «No, non è possibile, non 
è possibile! Di fronte all’elenco dei limiti, dei difetti, dei peccati, non è possibile che Tu mi ami 
così, non è possibile che ci sia un amore che mi ama così. Non è possibile». È possibile!!! Te lo sta 
dicendo Uno. Sono disposto a decidere di dare credito a questo per una volta nella vita e a vedere 
che cosa succede? Questa è la tua opportunità: decidi! Perché questa è la tua grandezza di persona, 
amica. Neanche Gesù può costringerti ad accettarLo, nessuno può costringerti ad accettarLo. Ma 
Lui ti continua a dire: «Anche se tuo padre e tua madre ti abbandonano, Io non ti abbandonerò, 
mai!». 
E come si fa a girare lo sguardo dalla parte del germoglio? 
È possibile perché tu sei di più – di più! –, sei ragione e libertà e affezione, non sei un pezzo del 
meccanismo della tua incastratura, no, tu sei di più. È questa la modalità con cui il Mistero ti rende 
te stessa. Quello che tu desideri – «finalmente esser me stessa» – succede solo se c’è qualcuno che 
ti dice: «Smettila, tu non sei solo questo, tu puoi uscire da questa incastratura». Tu, poi, puoi 
decidere di non uscire, ma ti assicuro che il giorno in cui ti stanchi di non uscire potrai riconoscere 
che è possibile. Basta, come tu dici, essere semplici (che è ciò che tu desideri di più). Domandalo, 
almeno. Perché la sfida che dici tu è palese anche rispetto a un altro punto, come mi scrive una di 
voi: «Sono stata al collegamento di mercoledì scorso. Eh, no! Va bene tutto, ma questa storia della 
nostalgia, no! Perché per me non è così. Non è così positiva come tu dici. Me la devi spiegare per 
bene questa cosa, perché io mi accorgo che se non vedo il mio amico per due giorni di fila, se non 
lo sento, se non gli racconto che cosa mi accade, se non gli dico come va la mia vita, ci sto male e 
mi manca enormemente. Come fare? Come può essere positiva questa nostalgia? Io la odio. Mi sta 
stretta. Puoi spiegarlo un po’ meglio? Mi accorgo però di aver proprio nostalgia di quel che c’è con 
lui, di come ci trattiamo: da uomini. Rispondimi se puoi, non tenermi in sospeso». Questo mi 
stupisce, perché mi sono trovato spesso di fronte questa obiezione. Un’altra amica mi parlava di 
recente di questa nostalgia: «Mi sono scandalizzata, dopo aver incontrato Cristo, di sentire questa 
nostalgia». Io dico che la prima questione che noi dobbiamo capire è che è inutile che noi facciamo 
la Scuola di comunità, se poi ci dimentichiamo che per tre mesi, nel capitolo ottavo di All’origine 
della pretesa cristiana, abbiamo studiato che la risposta alla domanda: «Chi è Gesù?», è – come 
dice Giussani – in uno sguardo rivelatore dell’umano. In che cosa si vede chi è Gesù? Che Dio salva 
tutti i fattori dell’umano. Questo è il segno della presenza del divino in quell’uomo, Gesù. Ma per 
noi che Cristo risvegli l’umano, risvegli la nostalgia di Lui, è il segno non della salvezza, non del 
fatto che Cristo è Dio, ma della condanna. Vi rendete conto che giudizio diamo noi della nostalgia?! 
Gesù, che è venuto per ridestare l’umano, noi lo percepiamo come il contrario di quel che è, cioè 
come qualcosa che ci scandalizza e che odiamo. Perché succede questo? Perché si parte da 
un’immagine e non dall’esperienza. Infatti quando nella lettera lei parla dell’esperienza, descrive 
proprio questo: che non può non sentire la nostalgia dell’esperienza che vive con quell’amico. 
Questa è l’esperienza; non può non avere nostalgia di lui. Ma in noi, nella nostra immaginazione 
collettiva, si è instaurata l’idea che la modalità della risposta di Cristo debba coincidere con la 
cancellazione del dramma umano. Lo dico con una battuta: è come se il matrimonio fosse la tomba 
dell’amore e il cristianesimo la tomba del desiderio. «Se Cristo è venuto a risolvere il dramma del 
vivere, allora per rispondervi deve cancellarlo»: questa è la nostra immagine di salvezza. Non avere 
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più la nostalgia, non avere più il desiderio, non avere di più la domanda. Cristo in questo caso è 
affermato in un modo che cancella la domanda, che cancella la nostalgia, che cancella il desiderio. 
Ma non capite che proprio per questo tante persone abbandonano il cristianesimo? Se Cristo non 
salva l’umano, ma lo appiattisce, che senso avrebbe seguirLo? Questa è la logica del nostro modo di 
pensare, il top! «Non ne posso più della nostalgia, del desiderio, della domanda»: e questo lo 
diciamo come l’espressione più grande del “nostro cristianesimo”! Io non c’entro con il “vostro” 
cristianesimo! Perché se Cristo non è venuto per ridestare l’uomo, noi Gli attribuiamo ciò che 
Giussani attribuisce al potere: ridurre, appiattire, cancellare il desiderio. Che interesse avrebbe 
essere cristiani? Ma questo noi lo diciamo tranquillamente, anzi, sembra uno scandalo il contrario: 
«La odio [questa nostalgia]». Invece di ridestare la domanda, di ridestare il desiderio, di ridestare 
tutto l’umano che è in noi, Cristo sarebbe venuto ad appiattirlo tutto. Ma che salvezza sarebbe? 
Capite che persone che abbiano voglia di vivere fuggiranno da una proposta simile, proprio per 
evitare di finire così? E questo lo diciamo noi, appartenenti a un carisma, a un movimento in cui 
abbiamo visto Giussani gridare proprio il contrario! Quando dico che perdiamo il carisma per la 
strada sto dicendo questo, che passa un’immagine del cristianesimo che non c’entra con don 
Giussani. E perché succede? Perché noi, invece di stare all’esperienza, identifichiamo la realtà con 
la nostra immaginazione. Ma la vita è veramente interessante: quando uno si innamora (per fare 
l’esempio più palese), si ridesta tutto il desiderio! Altro che l’ideale dell’encefalogramma piatto! 
Per questo solo se uno appartiene a un luogo che costantemente ridesta l’umano, potrà essere 
interessato al cristianesimo. Perché in fondo quel che ciascuno desidera è potersi alzare ogni 
mattina con il desiderio di rivederLo, di reincontrarLo. Per questo, se noi non facciamo una 
riflessione sull’esperienza che viviamo, ci esponiamo a dire cose che invece di aprirci la strada ce la 
chiudono (anche se pensiamo di stare dicendo non so che cosa meravigliosa). Proprio perché Cristo 
è presente e ridesta la domanda, la abbraccia; la abbraccia, non la lascia come prima, ma non la 
appiattisce, perché Lui possa costantemente interessarci di più

Io volevo raccontare cosa sta succedendo a un mio collega e attraverso di lui anche a me. 
Nell’Introduzione degli Esercizi ci hai detto che la questione fondamentale è che cos’è per noi 
l’essenziale, e l’essenziale è ciò che risponde alla domanda su come si fa a vivere: «Come 
possiamo sorprendere, senza inganni, che cos’è per noi l’essenziale? Il metodo ce lo ha insegnato 
sempre don Giussani: sorprendendoci in azione, nell’esperienza. […] Allora, cosa succede quando 
uno si impegna con tutti i fattori della vita, con la vita intera? Che più uno vive, più appare davanti 
ai suoi occhi qual è la natura del suo bisogno» (p. 7). A me ha colpito molto questa dinamica che 
hai descritto, perché è proprio guardandoci in azione che scopriamo cos’è per noi l’essenziale, e a 
volte capita che se uno lo vede accadere in un altro, viene risvegliato. Perché vedendoLo all’opera 
in un’altra persona, non può che dire: «È Lui». A scuola dove lavoro siamo un po’ di insegnanti 
del movimento, e dopo gli Esercizi è nato il desiderio di incontrarsi per riprendere il lavoro sugli 
Esercizi e per condividere quel che ognuno viveva con i ragazzi e con i colleghi. Ci siamo trovati 
una prima volta a pranzo nella mensa della scuola, e in questa occasione è venuto anche un nostro 
collega che non è del movimento, ma è nostro amico. Io sono andata con poca voglia, senza alcuna 
intenzione di fare il gruppo di CL della scuola. Abbiamo mangiato e ognuno ha cercato di dire 
perché quel momento poteva essere interessante e poi abbiamo ripreso proprio l’Introduzione degli 
Esercizi. Sono tornata a casa poco convinta dell’utilità di quel momento. Dopo una settimana ci 
ritroviamo, e io vado di nuovo con una certa resistenza. A un certo punto, però, prende la parola 
questo mio collega e inizia a raccontare che durante il fine settimana era stato via per la scuola a 
incontrare i responsabili del nostro istituto, che è un istituto cattolico, e mentre stava con loro era 
rattristato e innervosito dal fatto che coloro da cui si aspettava l’essenziale erano invece 
preoccupati solo di un’organizzazione, cioè che tutto funzionasse bene. Ma la cosa che l’ha 
sorpreso di più è stato che più stava con loro e più gli veniva nostalgia del pranzo con noi della 
settimana precedente!
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Avete capito? Più stava con gli altri, più gli veniva la nostalgia del pranzo della settimana 
precedente
Poi la discussione è andata avanti. Però a me questa nostalgia continuava a venire in mente. Allora 
mi sono fermata e gli ho chiesto: «Scusa, ma nostalgia di che? Che cosa ti manca di quel pranzo?». 
E lui mi ha detto: «Mi sto rendendo conto che non posso più fare a meno di certi rapporti e di certi 
giudizi o modi di affrontare le situazioni che alcuni di voi hanno», e che in lui si sta generando un 
modo nuovo e unico di vedere le cose e una nuova letizia. Di fronte a questo, io mi sono sciolta, ho 
sciolto la mia resistenza, e in me si è risvegliata un’affezione a quel luogo e a Chi può suscitare 
quella nostalgia e generare un modo nuovo e unico di vedere tutto e di dare letizia al cuore. Che 
bellezza e che respiro poter gustare le cose così! E grazie perché, seguendoti nel cammino, questi 
momenti diventano sempre di più. 
Grazie. Quel collega è l’ultimo arrivato. Ma è mai possibile che nell’ultimo che arriva si ridesti, 
nell’incontro con Cristo, tutta la nostalgia, e per noi invece il movimento sia la tomba della 
nostalgia, tanto che la odiamo? Che cosa ci dice l’ultimo che arriva di che cos’è quel luogo? Che a 
un certo momento – non so che cosa succede nel nostro cervello – finiamo per dire il contrario di 
quel che l’ultimo arrivato ci testimonia, come dice il don Gius: gli ultimi ci ridonano quel che noi 
abbiamo, ma di cui abbiamo perso la consapevolezza. Allora lui non può fare a meno di certi 
giudizi, di certi rapporti, del modo di affrontare certe situazioni, scoprendo un modo nuovo e unico 
di vedere le cose che genera in lui una letizia. Questo è ciò che ci viene dato dal Mistero per 
rispondere al bisogno che abbiamo, perché scioglie in te la resistenza e risveglia l’affezione al luogo dove questo succede.

 Sono arrivata agli Esercizi con la domanda: per che cosa sono qui, per che cosa sono al mondo? 
La settimana precedente agli Esercizi, infatti, da domenica a venerdì, era stata burrascosa in 
famiglia e mi aveva portato a chiedermi se quel che faccio io per la mia famiglia serve, perché mi 
sembrava di non essere utile. Io do tutto alla mia famiglia, è la strada che ho scelto e la mia 
vocazione, ma, come avrei capito durante gli Esercizi perché don Giussani lo descrive bene nel 
dettaglio, nell’ansia del fare mi sono persa l’origine della mia vocazione, e cioè che c’è Uno che mi 
ha chiamato e mi chiama, che mi ha dato e mi dà anche mio marito e i miei figli perché io arrivi a 
conoscerLo. Questa cosa, però, se non la riscopro in ogni gesto che faccio, la perdo. Quindi sono 
arrivata agli Esercizi con questa ferita aperta e questa comanda: perché sono al mondo? C’è 
qualcuno che vuole da me qualcosa? Questa domanda, per come si sono svolti gli Esercizi e per 
alcune cose che mi sono successe lì, si è trasformata in una domanda diversa che mi viene difficile 
dire a parole: la domanda di continuare a sentire la Sua voce e di accorgermi ogni istante della 
Sua presenza. È una domanda che mi accompagna sempre, tanto che mi sono accorta che è la 
prima compagnia che il Signore mi fa, perché io non sono capace di domandare così. E allora ogni 
mattina chiedo anche che perduri in me questa domanda. Ogni mattina cerco di andare a messa, e 
questa è una cosa che, quando ci penso, mi fa un po’ sorridere, perché il Signore si è un po’ preso 
gioco di me; quando l’arcivescovo Scola a febbraio, alla messa in memoria di Giussani, ci aveva 
invitato ad andare a messa tutti i giorni, io avevo pensato che non era una cosa per me; e invece 
adesso ho bisogno di andare a messa, perché è il luogo dove più riesco a porre la mia domanda in 
tutta la sua profondità. Quando mi alzo al mattino tutto prelude al fatto che io vada a messa. 
Questa domanda mi accompagna anche nelle piccole sfide di tutti i giorni. Mi rendo conto che per 
il desiderio di farmi fare compagnia da Gesù sono più paziente, nel senso che mi trattengo spesso 
dall’intervenire aspettando che un dettaglio renda più chiaro il da farsi. Oppure capita alle volte di 
ascoltare dei discorsi che non stanno né in cielo né in terra; io in passato sono sempre stata zitta, 
adesso invece cerco di intervenire tentando di dire una parola più vera. Ci sono state, poi, alcune 
sfide più impegnative e ne racconto una. Mio figlio una sera dice a me e a mio marito che vuole 
fare una cosa che a noi desta molta preoccupazione. Tempo fa io mi sarei subito arrabbiata, lo 
avrei assalito a parole; invece sono rimasta calma e ho ascoltato bene tutte le sue ragioni e le sue 
spiegazioni, come forse mai ho fatto prima. Volevo prendere sul serio il suo desiderio che è anche i
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mio, perché anche io ho desideri ridotti, e volevo andare al fondo per trovare ciò di cui abbiamo 
veramente bisogno. Allora gli ho raccontato un po’ di me, dicendogli anche cose che non gli avevo 
mai detto; e poi gli ho posto delle domande per capire meglio tutti e due che cosa ci fosse sotto quel 
desiderio che lui esprimeva, in modo da cercarne la vera soddisfazione. Questo mi ha permesso di 
fare quello che don Giussani suggerisce per affrontare i problemi della vita: non approfondire 
direttamente il problema, ma approfondire la natura del soggetto che li affronta. Non è che mentre 
parlavo con mio figlio avessi in mente quelle tre righe degli Esercizi, che pure avevo letto tante 
volte, ma quando poi le ho rilette ho capito che mi era successo questo. Comunque, mio figlio è 
rimasto talmente colpito che ci ha ripensato. Dopo qualche giorno ne ha voluto riparlare e ha 
cambiato totalmente la sua prospettiva, decidendo di voler provare a fare quel che suo padre e io 
gli avevamo proposto. Ciò che mi interessa di questo fatto non è tanto l’esito finale, che avrebbe 
anche potuto non esserci, e che, tra l’altro, è frutto del suo rapporto con il Mistero, di dialoghi che 
ha avuto, di incontri che ha fatto. Non è l’esito in primo luogo che mi interessa, ma che la presenza 
del Signore è tanto reale da suscitare in me una domanda potente. E poi l’altra cosa: quella che ho 
scoperto è una strada, è un metodo. 

Grazie. Questa «è una strada, è un metodo». Noi tante volte riduciamo tutto all’ansia del fare, anche in famiglia, e questo prende il sopravvento sul fatto di essere stati chiamati. E allora 
uno va agli Esercizi desiderando di continuare a sentire la Sua voce, di sentire di nuovo la Sua chiamata, di accorgersi della Sua presenza. E si rende conto che questo suscita in lei una tale profondità del suo bisogno, della sua natura, che quando deve affrontare il problema del figlio è in grado di parlare in un modo che sia diverso, e dice una cosa che mi sembra fondamentale come metodo per lavorare sugli Esercizi, come per qualsiasi altra cosa: «Non è che mentre parlavo con mio figlio avessi in mente quelle tre righe degli Esercizi». Cioè non le tratta come una citazione, le ha addosso come esperienza e quindi può parlare a partire da questo suo io suscitato dalla presenza di Cristo. Prima avviene una conquista nell’esperienza, e solo dopo si capisce la definizione, la portata della definizione. Allora quel che mi interessa è che la Sua presenza è tanto reale da suscitare in me una domanda che mi consente di affrontare tutto, anche il problema dei figli, con una diversità. Il cristianesimo è questo: una presenza che suscita una domanda. Quanto più i discepoli andavano con Lui e Lo vedevano agire, tanto più si domandavano: «Ma chi è costui?» (Se invece il cristianesimo è una risposta che cancella la domanda, che la annulla, che interesse ha?). Solo un metodo così ci fa fare una strada, la strada che ha introdotto Gesù facendosi carne e diventando una presenza così reale da stupire tutti ridestando la domanda, il desiderio e la nostalgia. Così si capisce meglio la domanda che pone un’altra persona. «Come rimanere fissi sul vero essenziale? Perché io credo che questa mia altalena di “essenziali” sia legata a un poco lavoro su di me, a una poca abitudine nel giudicare. Il lavoro sul sabato mattina mi ha aiutato tanto, perché mi ha fatto chiedere più volte durante la giornata: dove sono quegli occhi che cancellano l’inferno? Cos’è che mi fa rinascere quando sono a terra? Cos’è che è accaduto oggi che mi ha reso felice? E perché mi ha reso felice? 
Ma in fondo io di che cosa ho veramente bisogno? Questo lavoro, questo continuo guardarmi 
facendo domande di questo tipo e facendole anche ai miei amici, mi sta facendo attaccare di più al 
vero essenziale. Per questo mi sembra fondamentale dare del tempo a questo lavoro su di sé, ma 
volevo sapere tu cosa dici». Come rimanere fissi sul vero essenziale? Partecipando a un luogo dove riaccade costantemente questa sollecitazione a un paragone, a un lavoro su di sé che è ciò che ridesta costantemente la consapevolezza dell’essenziale. E in questo sono decisivi i gesti, perché la nostra compagnia, il luogo geometrico – come lo descrive Giussani – dove Cristo accade, è costantemente pieno di gesti, come quello della Colletta alimentare. 

«È una cosa buona rispondere ai bisogni della gente, ma non siamo qui per questo». Questa frase 
dell’ultima Scuola di comunità mi risuonava un sacco nella testa quando ho cominciato il gesto 
della Colletta, perché la Colletta, evidentemente, nasce come risposta a un bisogno, per cui sono 
stata costretta a chiedermi: perché sono qui, se non è per rispondere al bisogno di tutti questi 
sconosciuti che hanno fame? E allora che cos’è che mi può far fare questo sforzo al sabato mattina,
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con alzata all’alba e stando nel supermercato dalle otto fino alle tre, sapendo che comunque lunedì 
avevo un esame molto importante e non stavo studiando? E, soprattutto, cos’è che permette di fare 
tutto questo con gioia? Perché mi sono trovata addosso una letizia che non era mia, nonostante 
siano successe tante cose, anche degli inconvenienti, cose che non andavano eccetera. Quando 
sono tornata a casa il pomeriggio ho letto gli Esercizi: «Noi siamo nel mondo per gridare a tutti gli 
uomini: “Guardate che è tra di noi una presenza strana; […] c’è un uomo [tra di noi] che è Dio. 
La felicità dell’umanità, la gioia dell’umanità, il compimento dei desideri tutti dell’umanità è Lui 
che lo porta alla fine» (p. 35). Ecco, questa è la ragione per cui valeva la pena fare tutto quello 
sforzo, perché io ho visto che la mia vita è piena, ed è piena perché Uno la riempie, e la riempie 
talmente che è naturale restituirla, e la restituisco nel modo che le circostanze dettano, per cui c’è 
la Colletta alimentare, la restituisco lì; e sono stata tutte quelle ore a lavorare lì per affermare Chi 
riempie la mia vita, e per dirlo innanzitutto a me, perché fare quel gesto lo ricordava a me e poi a 
tutti gli altri, e perché è dentro questa prospettiva che il bisogno di tutti quegli sconosciuti 
diventava vicino a me e io potevo provare a rispondere a quel bisogno nel mio tentativo piccolo. 
Perché è attraverso quel tentativo piccolo che può passare Colui che risponde, che risponde 
attraverso quel gesto come attraverso lo studio a cui sono tornata sabato sera. 
Grazie. Come rimanere fissi sul vero essenziale? Lei, rispondendo a questo invito della Colletta, è 
stata facilitata di nuovo a riconoscere l’essenziale, perché i gesti a cui il movimento ci chiama sono la modalità che può usare il Mistero per piegarsi sul nostro nulla e renderci consapevoli di che cos’è l’essenziale. L’estate è piena di questi gesti: dalle vacanze ai momenti dello stare insieme, al Meeting (nelle diverse forme di collaborazione), sono tutte occasioni per essere salvati dal nulla, attraverso cui noi possiamo riconoscere perché questa Presenza è essenziale per vivere. Tutto è davanti a noi come modalità con cui il Mistero continua ad avere pietà del nostro niente. A noi tocca rispondere: o seguiamo la nostra fantasia o seguiamo la modalità con cui il Mistero ci chiama attraverso i gesti che vengono proposti. E ciascuno alla fine dell’estate potrà verificare che cosa è successo.
Libri e testi per l’estate 
- Vita di don Giussani è il libro che ci siamo dati tutto l’anno. Per la portata che ha, l’estate è 
un’occasione stupenda per viverlo, per continuare a leggerlo. 
- Proponiamo anche Pagina Uno «Europa 2014. È possibile un nuovo inizio?», perché non si 
tratta solo di un testo sull’Europa e sulle elezioni europee, ma si tratta fondamentalmente di un aiuto 
a capire i termini del contesto storico in cui viviamo e come possiamo oggi essere cristiani in mezzo 
a questo contesto. Per questo, lavorare su quel testo a me sembra cruciale. Per questo lo 
riproponiamo, perché possiamo aiutarci a leggerlo insieme e approfondirlo sempre di più. Se ci 
sono delle domande potete mandarmele, perché così continueremo a lavorare su quel testo. 
- Cori da “La Rocca”, di T.S. Eliot. 
- È mezzanotte dottor Schweitzer, di G. Cesbron. 
- La gloriosa follia. Un romanzo del tempo di S. Paolo, di L. De Wohl. 
- Il movimento di Comunione e Liberazione (1954-1986). Conversazioni con Robi Ronza, la nuova 
edizione della BUR, Rizzoli. È una nuova edizione, perché il libro era esaurito da tempo. 
Come continua il lavoro di Scuola di comunità durante l’estate? 
Fino alle vacanze comunitarie continuiamo a lavorare sulla prima lezione insieme alla prima 
risposta all’assemblea degli Esercizi della Fraternità e sull’intervento «Europa 2014. È possibile 
un nuovo inizio?». 
Dal termine delle vacanze comunitarie fino alla Giornata d’inizio anno continueremo il lavoro sugli 
Esercizi della Fraternità riprendendo la seconda lezione e l’assemblea. Poi andremo avanti 
lavorando sul testo della Giornata d’inizio anno. 
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Le vacanze comunitarie avranno come tema, per dare un suggerimento in continuità con il lavoro 
che stiamo facendo sugli Esercizi: «Che cosa cercate?». Nella scelta del titolo abbiamo provato a 
cercare una modalità, una domanda, che ci impedisca di partire dalle definizioni o di dire i nostri 
pareri; non ci interessano proprio, perché quello che interessa è, come dicevamo, scoprirci in azione 
per vedere che cosa cerchiamo, per vedere dov’è l’essenziale per noi. Per questo non è con una 
definizione che si può rispondere a questa domanda, ma con un paragone, con un’osservazione, con 
una sorpresa di che cosa veramente cerchiamo. Alla domanda «Che cosa cercate?» abbiamo 
aggiunto un brano degli Esercizi dove si parla proprio di questo, della distinzione tra l’intenzione 
che Cristo sia l’essenziale e la sorpresa che tante volte nell’esperienza non è così. «Il criterio per 
scoprirlo ce lo dà il santo Vangelo: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Si apre qui la 
distanza tra l’intenzione che Cristo sia l’essenziale della vita e la sorpresa che tante volte 
nell’esperienza non è così. Qui emerge la differenza tra l’intenzione e l’esperienza. Possiamo 
scoprire allora che, anche in buona fede, l’essenziale è diventato altro, e non è più Cristo; e ci siamo 
sbilanciati su altro magari proprio in nome di quell’essenziale che continua comunque a essere 
citato nei nostri discorsi» (p. 8). Allora, che cosa cerchiamo? È un tentativo di aiutarci a fare questa 
strada, perché il contenuto dell’autocoscienza con cui viviamo sia sempre di più Cristo. 
Il titolo del Meeting di quest’anno è «Verso le periferie del mondo e dell’esistenza». Un titolo 
come sapete, molto legato all’insistenza del Papa, a questo suo inviarci nelle periferie del mondo 
perché tutte le periferie possano essere raggiunte dall’annuncio cristiano e dalla misericordia di 
Cristo. Perché? Lo dice la seconda parte del titolo del Meeting: «Il destino non ha lasciato solo 
l’uomo». Al Meeting noi vogliamo gridare a tutti questo. 
La Giornata d’inizio anno si terrà sabato 27 settembre a Milano e in collegamento in molte città 
della Lombardia e dell’Italia. 
Veni Sancte Spiritus 
Buona estate a tutti.



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