venerdì 6 giugno 2014

Qualcosa di simile alla grazia.PASOLINI A ROMA

Una mostra ripercorre la vita dello scrittore dal suo arrivo nella Capitale. Romanzi, cinema e poesia: tutta la sua opera è piena di un dramma vissuto nel proprio corpo. Una domanda profonda «a cui non so rispondere»
Entrando, già nella prima sala, due accenti fanno trasalire. La mostra Pasolini-Roma (nella Capitale, al Palazzo delle Esposizioni, fino al 20 luglio) sembrava qualcosa di monumentale e trionfalistico e invece si attacca - luminosamente - ai dettagli. Il primo, un brevissimo video: Pasolini, inizio anni Sessanta, intervistato davanti alla prima, poverissima casa di Rebibbia dove per tre anni, appena arrivato a Roma con «una valigia e un po’ di gioie / che risultarono false», abitò con sua madre. Indica al giornalista il palazzo, la strada e dice, col tono di un invito: «Guardi, la realtà parla». E spiega la propria vita e quella dell’estrema periferia romana, senza mai riuscire a separare la storia della propria persona da quella della “sua” gente, con una passione tanto umana che anni dopo,nel ’74, dopo aver letto un suo articolo (Il vuoto del potere in Italia) don Giussani avrebbe detto che Pasolini bisognava leggerlo, perché era «l’unico intellettuale cattolico, l’unico». 

Il secondo, una poesia - in realtà poco più che un appunto in versi, annotato su un foglietto - del 1950: «Adulto? Mai - mai, come l’esistenza / che non matura - resta sempre acerba, / di splendido giorno in splendido giorno - / io non posso che restare fedele / alla stupenda monotonia del mistero». Tanto le ragioni della grandezza quanto quelle della disperazione di Pasolini sembrano star già in questi versi: una fedeltà al mistero della realtà sembra inconciliabile con una posizione adulta, matura. 

Qual è - sembra chiedersi - il prezzo della libertà, di un serrato impegno col reale, di una vita all’altezza del proprio amore? Per Pasolini questo prezzo è stato, senza dubbio, la solitudine: «Mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più». 

Una solitudine d’impotenza e d’incomprensibilità, che Pasolini ha ribadito tante volte, apparentemente a vuoto - una solitudine che neanche il sogno marxista ha saputo riempire. Scrive alla madre nella famosa Supplica: «Per questo è dannata / alla solitudine la vita che mi hai data. // E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame / d’amore…», e ancora, nella Ricerca di una casa: «Ogni giorno l’ansia è più alta, / ogni giorno il dolore più mortale…»: tutto parla di un’altezza del desiderio sentita da lui come un’inesorabile maledizione, un cattivo destino.

Il percorso della mostra sembra snodarsi lungo l’asse di una promessa mancata: Pasolini sembra puntare così in alto che l’interlocutore, se c’è, fallisce sempre. Colpisce, di sala in sala, notare che nelle moltissime fotografie Pasolini è sempre in compagnia: la madre, gli amici, i sodali non gli sono mai mancati. La solitudine che lui denuncia è evidentemente qualcosa di più profondo. 

L’elogio funebre dell’amico Alberto Moravia e la dedica cinematografica di Nanni Moretti in Caro Diario sulle struggenti note di Keith Jarrett (i due documenti filmici chiudono la mostra) testimoniano tanto l’affetto quanto l’incomprensione - una nostalgia della sua persona cui corrisponde una stanca rassegnazione nei confronti delle questioni che lo agitavano, come se della passione per la realtà che animava Pasolini fosse rimasto solo un triste monito postideologico, la traccia sempre visibile di una sconfitta. Il suo omicidio, nel ’75, sul lungomare di Ostia, sembra testimoniare il fondo tragico di questa impotenza derivata da una «furia di capire» che raramente ritroviamo nella letteratura di quegli anni. Pasolini è stato un uomo la cui grandezza, prima di ogni altra considerazione, era nel desiderio che l’amare e il capire fossero le facce di un unico gesto: «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto. Dà angoscia // il vivere di un consumato / amore. L’anima non cresce più».

La mostra romana, con la sua strutturazione per blocchi cronologici (dal ’50, anno dell’arrivo a Roma, al ’75, anno della morte), permette di cogliere con facilità una questione senza la quale non sarebbe possibile leggere Pasolini: e cioè che tutto ciò che di grande emerge nella sua opera è dramma vissuto personalmente, in prima linea, da uomo d’azione. Pasolini parla del mondo per poter parlare di sé; e viceversa, parlando di sé, parla del mondo: la realtà gli si rende manifesta solo attraverso la bruta, anche azzardata esperienza personale, e l’io scopre la propria natura soltanto in un continuo e ostinato corpo a corpo con le cose. In questa logica, anche la politica diventa un fatto da verificare storicamente, individualmente, carnalmente. Quasi in ogni stanza della mostra c’è una cartina dei quartieri di Roma, una telecamera sui suoi luoghi: pochi poeti come Pasolini hanno bisogno, per essere compresi, non solo della storia ma anche e soprattutto della geografia.

Quando, nel 1955, pubblica i romanzi romani, facendo irrompere nella pagina romanzesca la lingua, il mondo, la selvatica vita “dal vero” del sottoproletariato romano, non è per gusto documentario. È piuttosto per ribadire l’urgenza di una conoscenza più vera,nell’instancabile desiderio di ritrovare nella realtà qualcosa di simile alla grazia. L’amore per le borgate romane (come lo sarà quello per le contrade meridionali o i Paesi del Terzo Mondo) è una fame di purezza, unita alla certezza che persista nell’umano qualcosa di vero, di santo. Sono queste urgenze, queste speranze a ispirare quell’opera straordinaria e imprevedibile che è Il Vangelo secondo Matteo, con i ragazzi della periferia romana che interpretano gli Apostoli, sua madre Susanna nel ruolo della Madonna, l’idea iniziale - poi abbandonata - di affidare la parte di Cristo al poeta russo Evtushenko, per poi darla a un diciannovenne studente universitario spagnolo, conosciuto quasi per caso.

Così in una lettera al produttore Alfredo Bini spiega i criteri d’ispirazione di questo Vangelo: «Dal punto di vista religioso, per me, che ho sempre tentato di recuperare al mio laicismo i caratteri della religiosità, valgono due dati ingenuamente ontologici: l’umanità di Cristo è spinta da una tale forza interiore, da una tale irriducibile sete di sapere e di verificare il sapere, senza timore per nessuno scandalo e nessuna contraddizione, che per essa la metafora “divina” è ai limiti della metaforicità, fino a essere idealmente una realtà. Inoltre: per me la bellezza è sempre una “bellezza morale”: ma questa bellezza giunge sempre a noi mediata: attraverso la poesia, o la filosofia, o la pratica: il solo caso di “bellezza morale” non mediata, ma immediata, allo stato puro, io l’ho sperimentata nel Vangelo». E infine, a film concluso, si dirà stupito di un’opera, diversamente dalle intenzioni iniziali, «fatta di grande distacco e di silenzio. L’evocazione ora stranamente prevale sulla rappresentazione. Il caos ha ritrovato una imprevista pacificazione tecnica e stilistica. Me ne sto chiedendo il perché».

Pasolini è oggi noto principalmente per le posizioni espresse negli ultimi anni della sua vita: quegli editoriali sul Corriere della Sera(Scritti corsari e Lettere luterane) dove ha denunciato la mutazione antropologica della società italiana, la pericolosità della televisione («una nuova arma inventata per la diffusione dell’insincerità, della menzogna»), l’omologazione culturale che stava colpendo il popolo, «togliendo realtà ai vari modi di essere uomini». Non sono, quelle di Pasolini, intuizioni di per sé rivoluzionarie: non è né il primo né il più scrupoloso fra chi - allora come oggi - ha diagnosticato un cambiamento, una sorta di precipizio, di deficienza sopravvenuta nel sentire degli uomini. Le posizioni di Pasolini trovano la loro potenza non nella loro novità, ma altrove: nell’autorevolezza di chi ha vissuto e sofferto questo dramma in prima persona, «nel mio corpo». Scrive inTeorema: «Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere». 

La grandezza del suo sforzo sta forse, paradossalmente, proprio nella sua incompiutezza, nella nostalgia con cui l’intelligenza si scopre impotente e ferita: «Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto / in ogni mio intuire. Ed è volgare, / questo non essere completo, / mai fu così volgare come in questa ansia, / questo “non avere Cristo” - una faccia / che sia strumento di un lavoro non tutto / perduto nel puro intuire in solitudine» (Poesia in forma di rosa).

La grandezza e il genio di Pasolini, così come la sua profezia, scaturiscono in prima istanza da questo mettersi in gioco personalmente, senza il quale l’amare e il capire sono soltanto i diversi momenti di una teoria magari giusta, e tuttavia mai veramente umana: «Per me quel vuoto nel cosmo ci sarà sempre» (Trasumanar e organizzar). Non solo la coscienza della necessità di una partenza dalla persona e nella persona, non solo la convinzione che esista nell’uomo qualcosa di divino, ma anche la speranza che questo qualcosa possa «diventare storia», è forse quanto di più prezioso, a quasi quarant’anni dalla morte, Pasolini abbia saputo lasciarci.  Fabrizio Sinisici. 

Nessun commento: