giovedì 19 giugno 2014

ESAME DI STATO Maturi da una vita

A che età si diventa adulti? Alla fine delle scuole superiori? Tutti chiamiamo la prova in corso in questi giorni "maturità". Ma è un «doppio anacronismo». A quell'età si è pronti per le sfide della vita? Sì e no. Ecco perché
La matura non fa paura. Qualche giorno fa ho risentito questo motto, scandito dai ragazzi che con mio figlio si stanno preparando all’esame di stato. Fa paura invece, altrimenti non si sarebbe inventato un motto per esorcizzarla. E fa paura a ragione, perché è un esame molto complesso, molto più articolato e difficile di quello che ho fatto io. Sarebbe l’esame di stato, ma lo chiamiamo tutti maturità. Non diamolo per scontato.
Considero questo un doppio anacronismo, doppio perché si sposta sia avanti sia indietro in quella linea personale del tempo che si chiama vita.

Avanti.
Qualche settimana fa ho sentito in una parrocchia dare l’avviso di un incontro di catechesi per giovani. Peccato che si riferisse ai “giovani fino a quarant’anni”. Ma è finita così, lo sappiamo. Dopo aver creato il mito dell’adolescenza – vero mito, in quanto le età dell’uomo sono solo due, infanzia e vita adulta con in mezzo il limitato periodo della maturazione sessuale – lo abbiamo dilatato nei suoi due estremi rendendolo un periodo artificialmente lungo: dai dieci anni, quando inizierebbe la cosiddetta pre-adolescenza, fino a un’età che è offensivo non considerare già pienamente adulta. Definire maturo un ragazzo che esce dalla scuola secondaria, secondo questa logica appare quasi risibile. 
Luigi Ballerini

Indietro.
Questo anacronismo è ancor più grave, per le sue implicazioni. Non c’è proprio bisogno di un esame di maturità a diciannove anni, per il semplice fatto che è stato già superato, e ben prima. Lo abbiamo fatto tutti da bambini, a due, tre, quattro anni. Siamo infatti partiti da una maturità iniziale, dato dell’esistenza che nessuno riconosce quasi più. Altrimenti non si spiegherebbe quell’invito a tornare come bambini che ritroviamo nei Vangeli. Cosa potrebbe significare altrimenti? Giocare ancora con i Lego, mettere le rotelle alla bici, usare le matite colorate? Il bambino parte già maturo, e questo è uno scandalo da censurare per certa pedagogia che lo vorrebbe una tabula rasa su cui scrivere o un otre vuoto da riempire. Il bambino parte maturo perché pensa, pensa la sua soddisfazione e non la pensa mai disgiunta da un altro. Il bambino parte maturo perché sa che il bene è sempre ricevibile, perché non ha obiezione di principio all’altro. Il bambino parte maturo perché fin da piccolino sa. Sa che gli uomini si dividono in maschi e femmine, sa distinguere vivo e morto senza angoscia, non ha obiezione di principio all’esistenza di un Dio padre, sa riconoscere piacere da dispiacere. E saremmo noi i maturi? Quelli così confusi sulla differenza sessuale, angosciati dalla morte, fondamentalmente atei, incerti persino su cosa ci piace e cosa no?

Ecco, un giovane uomo alle prese oggi con gli esami in realtà non è uno che sarà maturo fra un mese e fra vent’anni. Semplicemente lo è già stato, almeno per la prima parte della sua vita.
Cosa augurargli, allora? Proprio nel momento in cui le sue condizioni di vita – l’abbandono della classe e dei banchi, la responsabilità legale acquisita con la maggiore età, l’avvio di un’ipotesi professionale e affettiva – lo introducono a pieno titolo nella vita adulta vale la pena augurargli proprio di tornare bambino. Nessun infantilismo di ritorno, ovviamente. Gli auguriamo di trovare il modo per tornare bambino senza l’ingenuità degli inizi, quell’ingenuità che non contemplava la possibilità dell’inganno e della malvagità. Vale a dire augurargli di tornare a pensare il reale come benefico e a non avere obiezione di principio all’altro, muovendosi per il proprio vantaggio mai disgiunto da quello del suo socio. In questo modo ogni buon incontro verrà riconosciuto, abbracciato e fatto fruttare. Proprio vero, messa così la matura non fa paura, perché porta con sé un grande bene.

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