mercoledì 4 giugno 2014

Per non dimenticare Piazza Tiananmen di Bernardo Cervellera*


Tienanmen, vittime
Un museo per ricordare il movimento degli studenti e degli operai e l’eccidio di piazza Tiananmen è stato aperto ad Hong Kong: è l’ultima trovata dei gruppi democratici di Hong Kong per mantenere viva la memoria dell’evento di 25 anni fa che ha cambiato il corso della Cina. Il museo è stato aperto alla fine di aprile, a ricordo degli inizi dei raduni delle grandi masse sulla piazza più grande del mondo. Gli organizzatori sperano che proprio i milioni di visitatori, che dalla Cina popolare si riversano nel territorio, possano andare a visitarlo, rinfrescando la memoria che nel loro Paese è proibita.
Il nuovo museo si trova proprio a Tsim Sha Tsui, la punta della penisola di Kowloon, il centro dello shopping, e non ha avuto vita facile: ci sono voluti anni per riuscire ad avere tutti i permessi e i fondi per aprirlo e ancora adesso subisce bordate dai negozi vicini che temono di inimicarsi la Cina e perdere il loro business. Ma secondo gli organizzatori del museo, tutte queste critiche sono orchestrate proprio da Pechino per cancellare la macchia più scura e sanguinante, negli ultimi decenni, del Partito comunista cinese e dell’Esercito per la liberazione del popolo che ha usato i carri armati e i fucili contro la sua stessa popolazione.
La tragica notte del giugno 1989
Gli studenti e gli operai, che si erano radunati in un enorme sit-in durato settimane, chiedevano solo meno corruzione e più democrazia e fino all’ultimo avevano sperato di poter dialogare con i capi del Partito, divisi fra loro sull’atteggiamento da tenere. Alla fine ha vinto la linea dura: niente dialogo e ordine di sgombero della piazza, con un ultimatum. Nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989 squadroni di soldati e carri armati sono arrivati nella piazza uccidendo, stritolando, rincorrendo i fuggitivi fin nelle strade laterali. Ancora oggi nessuno conosce il reale bilancio dell’eccidio: poche centinaia o alcune migliaia gli uccisi, decine di migliaia i prigionieri. Da subito, il Partito ha messo in atto la sua macchina propagandista accusando i giovani di essere dei “contro-rivoluzionari” che cospiravano per la caduta del Paese. Negli anni seguenti, davanti alla crescita economica vertiginosa della Cina, l’allora presidente Jiang Zemin ha osato dire che quelle morti erano “necessarie” per garantire lo sviluppo attuale. Ma nessuno vi ha mai creduto e ogni anno dissidenti, attivisti democratici, madri e parenti degli uccisi chiedono che si faccia luce sull’assassinio dei loro figli e si cancelli l’accusa di “contro-rivoluzionario” data al movimento, che invece lavorava e si è sacrificato per il Paese. Secondo diversi studiosi, il massacro di Tiananmen è stato la cartina di tornasole che ha fatto vedere come il Partito in realtà non era per il popolo, ma sfruttava e schiavizzava il popolo. Negli anni successivi le adesioni al Partito sono scese dell’80%. In seguito però sono risalite, perché far parte della casta comunista permette carriera, soldi, protezione, benefici.
Interpretare la storia per guidare la politica
Ma non è finito il vezzo e la propaganda del Partito che cerca in tutti i modi di presentare una faccia “umana” e “positiva”, non solo sull’eccidio di Tiananmen, ma su tutta la storia recente del Paese. Pochi mesi fa, il presidente Xi Jinping ha lanciato nuove direttive su come presentare la storia agli stessi cinesi: Mao non era un dittatore spietato che aveva potere di vita o di morte su ogni suo suddito, alla stregua di tutti gli imperatori passati, ma un “utopista”, che cercava il meglio per il suo Paese; gli errori del “Grande balzo in avanti”, costati la vita ad almeno 35 milioni di persone – morti per fame – sono stati una “piccola svista”; la Rivoluzione culturale (che i cinesi ricordano come “il grande caos”, in cui si è ucciso e imprigionato con una facilità e una crudeltà disarmanti) come un errore di passaggio.
In più, questa propaganda cerca di convincere che il Partito comunista cinese non ha combattuto la cultura tradizionale, ma ne è stato sempre (!) sostenitore, facendo dimenticare le “campagne contro Confucio”, i templi e i monumenti buddisti distrutti, i libri bruciati, gli accademici arrestati. Curiosamente, questa interpretazione storica – propagandata con un libro di Yu Youjun, già governatore dello Shanxi, e diffusa in 50 puntate alla televisione di Stato – dimentica le rivolte dei contadini per il possesso delle terre, da cui è nata la rivoluzione maoista, per esaltare a più non posso il ruolo chiave del Partito. E dimentica anche la “lotta di classe”, nascondendo il sostegno che la Cina ha dato alle rivoluzioni comuniste e guerrigliere nel mondo.
Spesso Pechino accusa il Giappone di non avere il coraggio di guardare alla storia in modo obiettivo, quando Tokyo cerca di nascondere l’orrore del massacro di Nanchino (30 mila persone uccise dai soldati giapponesi nel 1937), o rifiuta la verità storica della sovranità sulle isole Diaoyu/Senkaku. Ma anche Pechino non riesce ad accettare che la storia giudichi l’operato del Partito. Così si manipola la storia per mostrare che il Partito ha sempre avuto ragione.
Tale difesa ad oltranza del gruppo al potere è ancora più urgente mentre si registrano sempre più rivolte dei contadini perché le loro terre vengono sequestrate e vendute per progetti edilizi o industriali, senza che loro intaschino alcun compenso. In aumento sono anche gli scioperi degli operai che combattono contro i duri orari di lavoro (fino a 16 ore al giorno), la mancanza di contratti, i salari inadeguati. A tali problemi si aggiungono quelli dell’inquinamento, divenuto una vera emergenza nazionale, con 500mila persone che muoiono ogni anno per cause respiratorie; dell’acqua, ormai inquinata per il 70%; della sicurezza alimentare non garantita da nessuno; degli aborti selettivi causati della famigerata legge del figlio unico.
Tutti questi problemi hanno il loro triste bagaglio di uccisi e sono una specie di Tiananmen quotidiana che mostra quanto il Partito voglia durare al potere e sia disposto per questo a sacrificare il suo popolo, proprio come 25 anni fa.
La corruzione nel Partito comunista
Ne fa le spese chiunque chiede maggiore verità al Partito, come il dissidente Xu Zhiyong. Quarantunenne, professore universitario, egli ha fondato il Movimento dei cittadini, che promuove lo Stato di diritto e i diritti umani. Lo scorso luglio è stato arrestato per aver domandato ai leader del governo di dichiarare in pubblico le loro proprietà e ricchezze, con ogni probabilità frutto di corruzione. Xu ha anche combattuto perché i figli dei migranti in città avessero gli stessi diritti dei residenti soprattutto per quanto riguarda scuola e sanità e ha sostenuto le battaglie legali delle famiglie cinesi i cui figli erano stati avvelenati con il latte alla melamina. Lo scorso aprile è stata confermata la sua condanna a quattro anni di prigione e si è aperto un processo per altri suoi collaboratori, fra cui alcuni cristiani protestanti.
Il fatto è che la lotta alla corruzione ‒ in cui è impegnato Xu ‒ è uno dei maggiori slogan del presidente Xi Jinping, che ha giurato di perseguire “tigri” e “mosche”, importanti leader e burocrati colpevoli di bustarelle, tangenti e spese pazze. Ma il Partito non accetta correzioni dall’esterno. Il suo timore è che le troppe critiche rendano la sua situazione simile a quella del Partito comunista sovietico ai tempi di Gorbachev. Diversi mesi fa, in visita nel Guangdong, Xi Jinping aveva dichiarato: «Perché l’Unione Sovietica si è disintegrata? Perché il Partito comunista sovietico è crollato? Una ragione importante è che i loro ideali e credo erano stati scossi... Gettare via la storia dell’Urss e del Partito comunista sovietico, gettare via Lenin e Stalin, e gettare via qualunque altra cosa significa impegnarsi in un nichilismo storico che confonde i nostri pensieri e mina l’organizzazione del Partito a tutti i livelli».
Meglio è dunque difendere il Partito e incrementare la lotta, la violenza e gli arresti per tutti gli attivisti e blogger che osano diffondere “false notizie” su internet e mettono in dubbio che la Cina sia il migliore dei mondi possibili. Proprio come ai tempi di Tiananmen 25 anni fa. L’unica differenza è che allora l’Occidente era pronto a criticare e a porre sanzioni a Pechino; ora ne è troppo succube dal punto di vista economico e spesso ne è alleato.

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